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CAPITOLO IX - MEZZADRIA

Segatura
Passato l'inverno, con i semi che hanno iniziato a crescere magari sotto una buona nevicata: "Sotto l'acqua la fame sotto la neve il pane", ecco che a stagion buona sotto l'influsso dei raggi la pianta si sviluppa fino a maturare all'inizio dell'estate, quando le belle spighe dorate coprono i campi: è il tempo della segatura.
La segatura, o mietitura del grano, nel periodo estivo era tra i lavori agricoli che richiedevano grande sacrificio ai contadini sia per l'atto manuale del tagliare le piante in posizione china sia per il grande caldo che di solito l'accompagnava. Questa operazione, che precedeva la tribbiatura, prevedeva il taglio del grano, la sua provvisoria sistemazione nel campo e infine il trasporto nell'aia.
Iniziava il 24 giugno, per S. Giovanni o il 29 giugno per S. Pietro e Paolo e in quella giornata si era soliti tagliare la prima manna "per benedizione". Pochi giorni prima si arrotavano le falci battendole con un martelletto, se necessario, e poi passandoci ripetutamente la pietra dura per affilarle. Il lavoro di segatura si protraeva per 15/20 giorni, o anche di più, ma questo dipendeva dall'estensione dei campi coltivati a grano e dal numero dei mietitori: “La segatura si faceva a luglio chi aveva finito andava ad aiutare gli altri”, e dall'uso che si faceva della falciatrice. In quest'ultimo caso i contadini preparavano le "strade" ai bordi delle prese, agli angoli di campo e nelle prode in modo che bovi e falciatrice potessero iniziare agevolmente e senza ostacoli. Lì, il mezzo meccanico, aggiogato ai buoi e condotto da un contadino a sedere su un sedile centrale, e un eventuale secondo aiutante nell’altro, abbassava una stanga sulla parte destra munita di affilate lame a zig-zag che muovendosi velocemente tagliavano il grano con il movimento trasmesso dalle ruote. Girava intorno, sempre a destra fino ad esaurimento della presa. Dietro, gli altri a fare le manne. In alcuni poderi con terreno ingombro o sassoso tutto il grano veniva falciato a mano. Molti contadini non la possedevano preferendo usarla in prestito, altri ne osteggiarono sempre l'uso e preferirono segare a mano. Le falciatrici, o mietitrici, con i primi modelli apparsi all'inizio del Novecento si erano diffuse nel 1920/22. Quando i Sestini tornano a La Pecine nel 1926, nessuno dei contadini l'aveva, solo loro la possedevano: “Le Falciatrici tirate dai bovi entrarono in uso dopo la prima guerra... i contadini se le prestavano”. Col Bernardeschi nel campo della parrocchia i Taddei facevano scambio, loro gli segavano con la falciatrice e lui li aiutava. "La Falciatrice era a Poggiagrilli dai Bianciardi, ma i Carli del Paradiso segavano a mano; c'erano tanti sassi in quei poderi e solo un pezzo si tagliava con la falciatrice". A Casagrande di Petroio si provò la falciatrice, ricorda Anna Masti, ma tagliava alto e il mi babbo: "Ma che voglio vedere un lavoro così. Via, via, stacca le bestie". Un'altra novità fu rappresentata dall'impiego di mietileghe negli anni Sessanta che disponevano il grano, con una grossa ruota laterale, davanti alle lame che lo segavano e un altro dispositivo le legava. Contemporaneamente si va diffondendo anche la pressatura della paglia, molto più comoda per il suo commercio.

Dal libretto colonico della famiglia Giuseppe Corbini del podere Cerreto III (Tenuta Le Volte) risulta un affitto della falciatrice per la segatura del 1923 con una spesa di Lire 35, essendo il noleggio di 20 ore a lire 1 3/4 l'ora.

Serafino Landi (Fino) conduce la falciatrice tra i campi di grano di Viareggio. Un eventuale secondo, sull’altro sedile che si intravede, serviva per smistare meglio il grano da falciare o quello falciato.

Una vecchia falciatrice al Poderino ricorda i lavori di mietitura.

Tempo di segatura per i Finetti di Macialla. Da destra: Adelmo, Marianna, Carlo, Giuseppa e Giuseppe.





Foto di gruppo per Buti e Nencioni: Gruppo fatto il 12 luglio 1941 ultimo giorno della mietitura tutti alla merenda al sodo detto delle Cavalle - Rossi. Ilda Nencioni è la prima da sinistra, mentre Ilva e Ginetta Buti sono alle spalle dell’anziano Giuseppe Nencioni.



Il tenente colonnello Leonardo Seric dell’Istituto geografico militare nell’anno 1942 viaggiando verso Vagliagli passò davanti all’Olmicino e vide i contadini intenti a portare le manne e fare la mucchia del grano per la tribbiatura. Scese e chiese di fare una foto. Tempo dopo la inviava alla famiglia Palazzi.



Particolare della foto precedente: si staccano i bovi e si ritorna nel campo per un nuovo viaggio.

La famiglia contadina al completo era in quei giorni di segatura impegnata sul campo e riceveva l'aiuto di garzoni e lavoranti occasionali. Nei poderi delle fattorie chi finiva per primo andava ad aiutare gli altri. Muniti di falce e falcini, nella segatura non veniva mai impiegata la grande falce fienaia a manico lungo, si lavorava da sole a sole, falciando o spostando manne. Per ore e ore, avanzando in parallelo con gli altri mietitori, piegato verso la terra, il contadino afferra con la sinistra una manciata di pianticelle di grano e le taglia quasi a terra, portandole a sé. Quando ne ha una certa quantità le lega usando come legaccio altre pianticelle e così si ha la manna o covone che viene lasciata sul posto.
Sul finire della giornata, dopo cena, si davano da fare per "rimettere insieme", radunando a mano tutte le manne nei cosiddetti "cerchi", dentro ai quali nei giorni successivi veniva fatta la mucchia detta "barca" o "bica," e fino a quando non avevano finito di radunare tutte le manne non tornavano a casa. “Il cerchio" era un circolo, formato dalle manne, del diametro di 5/10 metri, alto un metro o poco più, all'interno del quale si preparava la mucchia con le manne col culo di fori". Questa operazione era indispensabile per proteggere il grano dalle intemperie e dagli animali.
La fatica era tanta, e nella calura di quelle giornate estive la sete si faceva sentire. Ogni tanto si rialzavano e si tergevano il sudore e la polvere dalla fronte. Allora le giovani ragazze di casa, le quali avevano il compito di portare da bere ai mietitori, si affrettavano con il fiasco del vino o una boccia d'acqua e soddisfacevano la sete di tutti, mettendo poi il vino all'ombra di qualche pianta o di un filare coperto da pampani di vite. Anche i ragazzi si davano da fare con i piccoli falcini.
La giornata incominciava presto, alle 4, con la colazione fatta di un poco di vinsanto e una brioche di zucchero farina e acqua. Mezzora dopo, nel campo dove si iniziava a mietere. Intorno alle 9 riposino e colazione più sostanziosa a base di panzanella oppure affettato e pane. Poi, senza sosta, sotto il sole che cominciava a farsi sentire, protette da cappelli a tesa larga, si arrivava alle dodici e finalmente si sospendeva. Il segnale veniva dato dalle campane, là dove si sentivano, oppure la massaia metteva un cencio bianco alla finestra, o nelle prese lontane controllavano l'ombra sulle case. Giunti a casa si sbrigavano quei lavori rimasti indietro: si faceva il segato e si governavano i bovi, si dava da mangiare ai maiali e alle pecore, mentre la massaia finiva di preparare il desinare. Le faccende di casa chiudevano questa prima parte della giornata e tutti riposavano un'oretta. Alle 15 di nuovo nel campo e, senza interruzione, si segava fino alle 19 quando si sospendeva per fare cena sul campo. Nella parte finale della giornata, quando cominciava a calare il sole, non si segava, ma si sistemavano le manne nei cerchi e questo fare durava fino alle dieci, ma anche le undici e oltre, fino a completare il lavoro. Poi a letto. Questa decritta era la giornata di segatura in casa Nencioni all'Arginano.
In casa Losi all'Arginanino, Dedo la ricorda così: La mattina alzati colazione con cantuccini e vinsanto. Verso le otto e mezza, nel campo, colazione con affettato e sempre panzanella e pane con tonno che si comprava in confezione grande.
Marione Stazzoni ricorda che per la segatura "Non si andava nemmeno a letto". E per riposarsi? "Si stava appoggiati da qualche parte".
In casa Masti si partiva che era ancora buio. Anna ricorda: "Ci si alzava alle tre per segare e si andava ai sodi detti il Campaccio, che era sempre buio. Ci si accoccolava in terra per ripararsi dal freddo, in attesa che sorgesse il sole. Quando gli si diceva: "Oh babbo, andiamo via più tardi", rispondeva: "Meglio, così s'arriva a sole alto". Si segava tutto il giorno e quando il sole era alla finestra di Pietralta si sapeva che ore erano. Sestilio, oppure la mi' mamma, rimanevano a casa. Per segare si prendeva qualcuno. Il cieco di Corsignano non ci vedeva, ma lavorava. Si faceva merenda nel campo e una volta: "Cesare ci avete una mosca nel bicchiere. "Lascia stare: mosca beve vino e io bevo mosca". Un altro era Pancia del Poggio, dei Donnini, e veniva volentieri a segare”.
Dai Carli, con i bambini piccoli: "Quando andavano a segare ci lasciavano in una vecchia giubba in terra e quando tornavano la mamma ci trovava avvolti nella cacca. Ci sistemava e quando andava a tavola gli altri avevano già finito". Finito di segare, il grano è ora ammucchiato nei campi e si cominciava a trasportarlo nell'aia in previsione della tribbiatura. L'aia, ben spazzata e liberata da erbacce, è pronta.
Sul carro, tirato dai bovi, si caricavano grandi quantità di manne che sporgevano vistosamente, e sembrava cascassero da un momento all'altro. Erano tenute dai pali e da due corde, una destra e l’altra sinistra. Le corde tirate in cima al carico erano agganciate a un paletto che girato orizzontalmente le stringeva.
Nella Mandria di Casagrande ci venivano cinque mucchie di grano e occorrevano cinque viaggi di carri verso l'aia. Alle 12 avevano finito. "Finito di fare le mucchie nel campo si portavano nell'aia una mucchia grossa o due che vi rimanevano per 2/3 giorni in attesa che arrivasse la macchina". Spesso nell'aia una piccola mucchia di orzo si affiancava a quella del grano. Ora, si era pronti per tribbiare.
Presso i Nencioni, in quei giorni di intenso lavoro tra la segatura e la tribbiatura, la sera la cena si apriva con un piatto di pastasciutta, condita con sugo fatto di fegatini di conigliolo. Ne bastava uno per farci mangiare 20 persone.
In quei due mesi di luglio e agosto, cioè della mietitura e della tribbiatura, si trascurava anche la partecipazione alle funzioni religiose e la domenica difficilmente si entrava in chiesa: "Ogni tanto s'andava alla Messa".
D'altronde in quei giorni il contadino si giocava quello che era il maggior raccolto dell'anno e non poteva permettersi distrazioni. Alcuni parroci comprendevano altri condannavano che si anteponesse il lavoro alla giornata festiva.



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