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La fattoria

Il libretto colonico

Conclusione

CAPITOLO IX - MEZZADRIA

Il Novecento
Il secolo si aprì con il primo sciopero dei mezzadri a Chiusi, Chianciano e Sarteano indetto dalle Leghe socialiste e pur avvenendo in un ristretto ambito geografico ebbe una vasta risonanza rappresentando un fatto nuovo, anche se scarsi furono i risultati. Si puntava alla giusta causa nelle disdette, al premio di produzione per le colture industriali, l'attribuzione di spese ai proprietari, specialmente quelle della tribbiatura, e allo sgravio di alcune opere servili. Si manifesta apertamente per la prima volta il disagio di una categoria. Ciò mette allo scoperto i grandi contrasti tra i lavoratori e i padroni e le loro numerose divergenze riscontrate sia per la gestione del podere in generale sia delle coltivazioni in particolare, con il primo che privilegia la coltura promiscua per la propria sussistenza, mentre il secondo tende a imporre prodotti per la vendita che richiedevano grandi impegni di mano d'opera al colono. Poteva essere l'inizio di una nuova epoca, ma invece tutto rimase come prima. Molti videro in questi fenomeni l'impossibilita di continuare la coesistenza tra il ceto dei proprietari e la classe dei mezzadri; sarebbe stato opportuno decretare la fine del sistema mezzadrile già a quei tempi, ma l'avvento del regime fascista bloccò ogni processo evolutivo. Nei primi due decenni del Novecento altre iniziative di lotta vennero intraprese dai mezzadri inquadrati ora nelle Leghe bianche cattoliche o in quelle rosse socialiste poi, con la guerra mondiale, si parlò di una distribuzione delle terre ai contadini, ma tutto rimase come prima e le lotte successive alla Grande guerra furono totalmente vanificate dal Fascismo che riportò le cose come stavano, riaffermando, anzi, la piena autorità del proprietario.
Dai patti colonici del 1919, 20 e 21, maturati in un clima di grande disordine civile, appaiono evidenti alcune conquiste dei contadini come ad esempio nel patto in vigore dal 1 novembre 1919, firmato dalle commissioni dei proprietari e quella dei contadini mezzadri dinanzi alla Commissione arbitrale provinciale per i conflitti agrari della provincia di Siena. Il testo, stampato anche dalla Federazione Nazionale Lavoratori della Terra della Camera del Lavoro di Siena, introduce un discorso di vago sapore populista dove si parla di risveglio di coscienza e di diritti, sino a ieri non riconosciuti da padroni e governo, che portano i lavoratori a nuovi tempi e a nuova vita. Non più il reietto e l'ignaro contadino servo dei padroni, non più colui condannato al “lavoro faticoso per la ricchezza e il godimento altrui, non più l'animale umano avvinghiato alla sua vanga”. Questo in breve il tono di rivincita usato per incitare i contadini insieme a raccomandazioni di rinnovare l'agricoltura e perfezionarsi nella meccanizzazione. Firmato: La Federazione provinciale delle Leghe coloniche della Provincia di Siena. In effetti il trionfalismo era giustificato dal contenuto dell'accordo che vide per la prima volta i coloni assumere una condizione quasi paritaria nella gestione del podere. Il capitolo primo dell'accordo sancisce la liberta di matrimonio e di associazione della famiglia mezzadrile, rompendo così uno dei tanti tabù che gravavano sui contadini. L'art. 2, pur riconoscendo al conduttore la direzione dell'azienda, inserisce il principio dell'interesse comune, e comunque il proprietario prima di procedere dovrà "sentire" il colono e lasciare a quest'ultimo "conveniente iniziativa circa la disposizione delle faccende". L'art. 3 tratta nientemeno che l'abolizione di tutti gli obblighi comprese le prestazioni gratuite, mentre rimane a carico del colono il trasporto dei prodotti alla fattoria. La tassa sul bestiame sarà pagata a mezzo. Negli articoli successivi altre nuove norme che stravolgono le antiche usanze come la tenuta regolare dei libretti colonici e l'obbligo dei saldi annuali da liquidarsi entro quattro mesi. I costi per assicurazioni contro grandine e incendi dovranno essere a metà. In caso di disdetta il colono potrà ricorrere alla Commissione Mandamentale Arbitrale composta di contadini e proprietari sotto la presidenza del Pretore, e così potrà fare anche il proprietario. In caso di affitto dei poderi il colono ha il diritto di prelazione. Le stime morte, compresi gli attrezzi maggiori, sono del proprietario, ma sono consegnate al contadino senza nessun aggravio. I piccoli attrezzi sono del contadino. Le riparazioni a metà. Tutte le spese poderali sono a metà, concimi, ferrature, monte, veterinario ecc., e così il vino. Tutto il ricavato del podere è a metà, compresa la frutta. La compravendita del bestiame sarà fatta di comune accordo, e così tutte le spese. Anche per la lavorazione del suino il colono ottiene la libertà di farlo, pagandolo, senza corrispondere niente al padrone, e l'allevamento di bassa corte vede nuove condizioni nella tenuta del pollame compensando il padrone solo in quei casi che si superano le quote previste. La semola sarà tutta del padrone e per l'orto si concedono 50 metri quadri ogni ettaro coltivato senza nessuna condizione. I lavori a opra del mezzadro saranno rimunerati come quelli del salariato, e le opere con animali subiranno degli aumenti in percentuale. Inoltre, per finire, al colono è data facoltà di conservare i patti in vigore oppure di accettare i nuovi.
Leggendo queste righe sembra che si prospetti per i mezzadri un futuro dove essi svolgeranno un ruolo diverso con una serie di benefici forieri di altri cambiamenti anche più radicali. Infatti, nei due anni successivi altri obblighi vennero addebitati ai proprietari tra i quali quello di tenere in condizioni di igiene e civiltà le case coloniche.
Pareva effettivamente l'inizio di una nuova epoca, ma l'illusione ebbe vita breve perché si profilava nel futuro del paese una svolta conservatrice. Una potere politico che una volta al potere avrebbe permesso alla parte padronale di riprendersi gradualmente quanto concesso e ripristinare la precedente situazione. Infatti, tutto venne codificato nei successivi contratti collettivi. A conferma di ciò, il contratto collettivo di lavoro per la conduzione a mezzadria nella Regione toscana, redatto nel 1928, cancellò buona parte delle conquiste fatte, riportando indietro di qualche secolo il povero contadino. Infatti, gli furono confermati molti obblighi tra i quali quello di tenere in buono stato le strade poderali, compreso il trasporto della ghiaia, di fare manutenzione delle fosse e dei recinti e di trasportare gratuitamente ai magazzini dei proprietari. Inoltre doveva pagare l'imposta di famiglia e le ricchezza mobile sul reddito di sua parte e la metà delle varie tasse gravanti sul podere. In più, a garanzia del conduttore, venne istituito il principio della caparra da versare, dal contadino, nelle mani del padrone al momento dell'accordo. Essa variava in base agli ettari del podere e veniva restituita al colono una volta fatta entratura. Vennero confermate anche la metà delle più importanti spese poderali. Al contratto regionale fece seguito quello provinciale con una serie di ulteriori minuzie sui costi, sui compensi, sul pollaio con le regalie che scattavano in caso di allevamento di un certo numero di capi e un suino al padrone nel caso il colono ne avesse allevati due. Ma il colpo più grosso fu inflitto ai coloni con il famoso "Conferimento" del 31 ottobre 1938 che interessò la Mezzadria toscana, risultante dall'accordo dei sindacati con gli agrari. Esso prevedeva il Conferimento di tutte le scorte vive, cioè il bestiame, e morte, a metà fra mezzadro e proprietario. Di conseguenza il contadino, dato che la proprietà del bestiame era del padrone e veniva dato a stima (significava che una certa cosa era valutata e il contadino era obbligato, alla fine del contratto, rendere altrettanto di quanto stimato), doveva pagare la metà al padrone e nel caso non avesse potuto far fronte alla spesa in contanti la sua parte gli sarebbe stata addebitata sul libretto colonico. I conti della stalla, come la vendita di vitelli e le spese, continuarono ad essere divisi a meta, esattamente come prima. L'investimento obbligatorio richiesto al mezzadro in definitiva fu solo una lucrosa operazione a favore della parte padronale, anche se alcuni vi videro un positivo coinvolgimento del contadino nella gestione del podere.
Bruno Sestini: "Per il Conferimento al contadino fu stimato tutto: bestie, carri e quel che era del contadino il proprietario pagò e quello che era del proprietario il contadino pagò e tutto divenne al 50 per cento di proprietà I piccoli attrezzi al conferimento rimasero di proprietà del contadino e le spese di manutenzione (fabbro) erano a mezzo. Quando i Sestini vennero via da San Giusto alle Monache sopra Pianella, il sindacato fascista gli fece avere 1.000 lire. La contessa Ricasoli in "Gigala", quando le fu detto che era stato il sindacato a fare i conti, disse: "Io, queste mille lire ve le dò, ma non ditelo a nessuno". Il mi' babbo aggiunse: "Io ho la bici qua fuori; parto, e se non trovo nessuno non dico niente a nessuno, ma se uno me lo chiede, io lo dico perché non ho niente da nascondere".
Giulio Carli: "Nel 1935 tutta l'attrezzatura, carri, bestiame ecc. era del Pallini e un bel giorno il Pallini vuol dividere il capitale, come usava in un regime di mezzadria a Conferimento. Il mi' zio Gigi, il capoccio, "batteva il capo nel tetto" perché la famiglia aveva 5 figlioli, i raccolti erano quelli che erano e non c’erano soldi".
In ultima analisi si può dire che sul piano, pratico, prima e durante il Fascismo, al di là delle effimere conquiste nei patti, la situazione generale dei contadini non migliorò. I mutamenti contrattuali rammentati, in sostanza, non modificarono niente e il rapporto contrattuale tra padrone e contadino non subì variazioni. Anzi, la ricerca da parte delle grandi aziende di una maggiore produzione per vincere la concorrenza sui mercati delle nazioni industrializzate, la costante pressione sui coloni per ottenere un maggior profitto, le famose lotte per il grano promosse dal regime fascista, la divisione dei poderi molto diffusa nel tentativo di avere più produzione, il mantenimento della disdetta libera che sempre minacciosa gravava sulla famiglia contadina, furono fattori portatori di conseguenze negative sia sul piano del lavoro, perchè condussero ad uno sfruttamento delle braccia, sia su quello della dipendenza dal padrone e dal fattore. La meccanizzazione, tanto proclamata dal regime, ebbe carattere limitato a causa della mancanza di investimenti da parte dei padroni, sempre restii a spendere nei poderi che bene o male producevano, ma anche dalla vera e propria mancanza di mezzi delle grandi o piccole aziende. Nel nostro popolo nessuna fattoria si era dotata di trattore e solo l'azienda Mori ne possedeva uno.
Se la maggior produzione portò lievi benefici anche ai coloni, specialmente a quelli dei poderi più grandi e più fertili che si ritrovarono con conto corrente in attivo, la categoria continuò a vivere in condizioni di evidente semplicità che si evidenziava nell'aspetto esteriore del mezzadro, nella scarsa istruzione, nella modestia del proprio arredo casalingo, nell'alimentazione mai abbastanza sufficiente, nelle case trascurate delle quali molte mancanti dei servizi più essenziali come la luce, l'acqua o il gabinetto. Tuttavia alcuni elementi di novità introdotti dai proprietari dotati di maggior spirito imprenditoriale servirono a migliorare leggermente le condizioni lavorative dei contadini fornendo loro strumenti di lavoro più modernio ed efficaci.

Il Dopoguerra
Nel secondo dopoguerra, con l'acquistata libertà, esplosero in tutta la sua virulenza le lotte contadine, alimentate e gestite dalla opposizione governativa dei partiti della sinistra. Essi si fecero paladini delle loro rivendicazioni che toccarono momenti di estrema tensione sociale, mentre da parte governativa si interveniva blandamente con leggi e leggine che si rivelarono soltanto dei palliativi per una istituzione che chiedeva drastici rimedi, anche se le riforme agrarie realizzate dai governi democristiani e lo spirito delle leggi emanate ebbero effetti positivi per alcune regioni come la Maremma e si rivelarono fondamentali per il superamento del latifondo e la cessione dei poderi ai contadini. Malgrado ciò, ancora una volta si perse il treno per riformare alle radici questa antica e anacronistica istituzione e dare prospettive nuove ai contadini, i quali si sentirono traditi e non esitarono, appena venne loro offerta l'opportunità, ad abbandonare i campi.
Le lotte contadine, iniziate con la Resistenza e continuate sotto la prevalente guida del sindacato rosso Federmezzadri strettamente unito al partito comunista, trasformarono profondamente la provincia senese. La capillare organizzazione comunista riuscì a far aderire alla Federmezzadri il 78% dei capofamiglia e la conseguente presa di coscienza politica portò alla formazione di attivisti comunisti e non, tra le file contadine che nei decenni successivi avranno il loro spazio nei partiti e nel sindacati.
Sin dall'inizio apparvero le prime divisioni tra i mezzadri stessi con una minoranza che mantenne una posizione moderata e filogovernativa.
La chiesa, e di conseguenza i preti che vivevano la realtà locale come pastori di anime, visti come strumento dei padroni e asserviti agli stessi, vennero abbandonati dalle famiglie più politicizzate e molti si allontanarono per sempre dalla pratica religiosa.
Sul finire della seconda guerra, nelle zone con forte presenza partigiana, i mezzadri, grazie alla latitanza dei padroni, avevano cominciato a stabilire unilateralmente la quota loro spettante e a infrangere quelle usanze e servitù loro sfavorevoli. La reazione padronale col passare dei mesi si riorganizzò; fece sentire la sua voce e la contesa divenne aspra al termine del conflitto. Forti dell'appoggio del Partito comunista e della sua presenza in ogni remoto podere e, presa coscienza della loro forza, i contadini reagirono alle minacce e alle denunce degli agrari con scioperi, cortei e manifestazioni rivendicando nuovi contratti. Al grido "La terra a chi la lavora", la lotta non rimase confinata nelle campagne, ma coinvolse anche le città e le istituzioni locali invitate a prendere posizione. I padroni reagirono con denunce e tentati sfratti ad ogni minima infrazione dei contratti. Il clima generale si fece infuocato e cosi rimase per un decennio. Riunioni su riunioni di salariati e mezzadri si svolsero continuamente dopo cena anche nella sede del PCI, nella Società di Quercegrossa, con una animata partecipazione. In questo perenne stato di conflittualità alcuni risultati, frutto di compromessi con i grandi proprietari, furono raggiunti in sede locale, ma la situazione generale rimaneva difficile per questo il governo De Gasperi venne chiamato in causa dalla CGIL come arbitro per risolvere la vertenza mezzadrile in atto soprattutto in Toscana. Nel giugno 1946, dopo tre mesi, De Gasperi emise un giudizio detto poi "Lodo De Gasperi", a carattere provvisorio, rinviando le modifiche ai patti agrari ad accordi da concordare tra le parti con trattative a partire dall'ottobre 1946. Il Lodo attribuiva a titolo di compenso al colono la quota del 57% per il 1945, e del 55% per il 1946, come rimborso dei danni di guerra, ossia del 24% del prodotto di parte padronale, l'accantonamento di un 10% della parte padronale del 1946, per ripristinare la piena potenzialità produttiva del podere e per lavori di migliorie, e infine l'accreditamento al colono del bestiame razziato, inteso come venduto al prezzo dell'epoca. Le risultanze del Lodo, anche se deluse i mezzadri, finì per allentare la tensione e per alcuni mesi cessarono le proteste. Nel maggio 1947 un decreto legislativo stabiliva l'istituzione in ogni capoluogo di provincia di una commissione arbitrale con l'incarico di modificare i patti provinciali applicando le disposizioni del Lodo de Gasperi. Frattanto l'atteso incontro fra gli agrari e i sindacati di categoria, iniziato dall'ottobre 1946 per risolvere i problemi di fondo, non dava nessun esito, tanto da richiedere l'intervento del ministro dell'Agricoltura. I grossi nodi della disdetta, della direzione aziendale e della quota di riparto dei prodotti non vennero sciolti. Si discusse, senza risolverlo, anche del fatto se, in regime di conferimento, cioè di proprietà del bestiame in parti uguali, al termine del contratto il colono avesse potuto portar via il bestiame di sua parte. La mediazione governativa del 24 giugno 1947 con le organizzazioni degli agricoltori, dei coltivatori diretti e dei lavoratori della terra, portò ad un accordo provvisorio detto "Tregua mezzadrile" o "Tregua Segni". Ciò avvenne in considerazione della stagione dei lavori agricoli nel loro pieno svolgimento e della necessità di un rinvio per la discussione di un nuovo patto con l'impegno tra le parti di concordarlo entro il 31 maggio 1948. Il contenuto dell'accordo provvisorio fissò la quota spettante ai mezzadri, portandola al 53%, e stabiliva che un 4%, da detrarsi dalla quota lorda padronale, venisse impiegato nelle opere di miglioria del podere. La novità fu che il contratto fosse inquadrato in una legge nazionale e alcuni vi videro il superamento del sistema feudale e la fine di un'epoca storica. Ma questi tentativi di riforme sui contratti agrari non produssero effetti concreti e i sogni del contadino rimasero nel cassetto, con la terra che, salvo poche eccezioni, rimase ai padroni, come a questi ultimi rimase la piena conduzione dei poderi. La successiva Legge del 4 agosto 1948, n° 1094, diede valore di legge agli accordi della Tregua mezzadrile aggiungendo la definitiva abolizione di tutti gli obblighi e prestazioni di lavoro gratuite e la sospensione di ogni regalia od onoranza di pollaio o di suino allevato che il contadino era obbligato verso il padrone.
Ci volle però del tempo perchè queste ultime misure trovassero piena attuazione, ma alla fine sparirono tutti gli obblighi non attinenti con il lavoro prestato.
In definitiva, quasi tutte le richieste maturate negli anni 1944/45 per un profondo cambiamento che rimuovesse le ingiustizie contrattuali, e desse prospettive alla categoria, andarono deluse. I diritti dei coloni a partecipare alla conduzione aziendale, la durata del contratto a tempo determinato con l'allontanamento del colono soltanto dopo giusta causa, il diritto di prelazione in caso di affitto o vendita, l'attribuzione al colono del 60%, il diritto di allevare liberamente e gratuitamente uno o più suini per uso familiare, non ebbero applicazione.
Si toccarono, insomma, in quei momenti di speranza tutti gli aspetti della vita del colono che, una volta migliorati, potevano rappresentare un grande passo avanti per lo stesso, ma tutto ciò non trovò riscontro nelle nuove leggi, se non modeste migliorie strappate nelle Leggi nazionali e nei patti provinciali. Lo stesso 57% come quota colonica attribuito negli anni Sessanta, apparve assolutamente inadeguato e tardivo per equiparare il reddito del mezzadro alle altre categorie operaie. Determinante per il risultato finale fu l'affermarsi dei partiti moderati nel paese e conseguente allontanamento delle sinistre dal governo. Ciò fece sì che la questione della Mezzadria venisse trattata con equilibrio senza trascurare gli interessi degli agrari e soprattutto della piccola proprietà dei coltivatori diretti che lentamente si andava affermando nelle campagne e vedeva una maggiore adesione dei medesimi al partito di governo.
La DC senese, la CISL, e di conseguenza tutti i democristiani, insieme alla maggior parte dei partiti laici governativi, delle istituzioni e della stampa amica, non appoggiarono mai gli eccessi delle rivendicazioni contadine vedendo in esse una turbativa sociale gestita dai "rossi", appoggiando, come era naturale, le scelte governative e schierandosi, come fecero alcuni, apertamente dalla parte padronale. Tutto questo maturava in un contesto politico di contrapposizione, dove la DC e la Chiesa tentavano a far diminuire la presenza politica nelle campagne del partito comunista visto come il nemico pubblico numero uno. Ma i risultati furono veramente modesti e la bandiera rossa continuò a sventolare su quasi tutti i pagliai. Le tensioni non cessarono e gli scioperi, le manifestazioni perdurarono praticamente per tutti gli anni Cinquanta raggiungendo il loro culmine nel 1953. In attesa di una nuova legge di riforma agraria si ebbero varie proroghe dei contratti previste dalle leggi del 1952 e 1957. In parole povere questi accordi consentivano al contadino di rimanere sul podere e solo in certi casi poteva subire la disdetta da parte del proprietario: nel caso che il colono si fosse reso colpevole di inadempienze nelle coltivazioni e nel rispetto del contratto; nel caso che il concedente essendo coltivatore diretto intendesse coltivare in proprio il suo podere avendo una famiglia adeguata al bisogno; nel caso che il concedente volesse trasformare radicalmente il podere e fosse incompatibile la presenza del mezzadro; quando la capacità della famiglia mezzadrile fosse gravemente sperequata; se il mezzadro risultasse proprietario o affittuario di terre sufficienti ad assorbire la mano d'opera della famiglia. Naturalmente le suddette norme vennero perfezionate come avvenne per tutte le problematiche dell'agricoltura che in quei quindici anni del dopoguerra furono discusse, approvate e riviste in accordi privati, personali, provinciali, regionali e nazionali.
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Uno dei tanti articoli di giornale sulle contrastate questioni coloniche: minuzie di accordi per dare qualche lira ai contadini.

Si arrivò a cavillare in una maniera impensabile su ogni aspetto, anche secondario del rapporto padrone-contadino a cui faceva cornice la continua contrapposizione tra i sindacati del Centro e della Sinistra. Lunghe discussioni su chi addebitare una lira da spendere o su chi doveva farsi carico di un attrezzo, o di un'opra, o sulla composizione del pollaio, mentre si perdeva, piano, piano, l'obbiettivo principale. Ad esempio, nel 1957 la trattativa a Firenze per i nuovi patti aggiuntivi provinciali, per adeguarli all'accordo regionale, vedeva la Federterra ritirarsi dalle trattative e proclamare nuove agitazioni mezzadrili, mentre la CISL concludeva con gli agricoltori un accordo sul pollame di bassa corte. Si riconosceva al colono la possibilità di tenere il pollame che voleva, a sue spese e senza rendiconto al proprietario, nella misura di 200 Kg. di carne all'anno per una famiglia di quattro persone e oltre le quattro, fino a un massimo di dieci, 4 kg. a persona in più. Il numero dei capi per ogni specie da allevare, per rientrare in questi parametri, doveva essere fissato entro il 31 luglio 1957. Naturalmente si prevedevano tutti quei casi inerenti al mancato rispetto di essi che potevano arrecare danni alla produzione. Per i lavori con il pressapaglia si stabiliva in modo pignolino che le spese, compreso il carburante, erano a carico del padrone, mentre al contadino era addebitata la spesa per i fili di ferro. Si stabilì anche che i limiti di spesa da considerarsi poderale per la tribbiatura andavano dalle lire 20 alle lire 40. Si ribadiva inoltre che la posizione della Federterra era del tutto strumentale e gli scioperi inutili e intempestivi. Nell'accordo regionale di alcuni mesi prima si era pattuita una quota a favore del colono per l'uso di attrezzi di sua proprietà, cioè non a stima: lire 200 per il trinciaforaggi e per ogni capo bovino; erpice 40 denti, lire 825 per macchina; per l'uso dei carri in un podere oltre 10 ettari, lire 4000 per il primo carro, 3000 per il secondo e 2500 per il terzo, mentre per un podere fino a dieci ettari si prevedevano quote leggermente inferiori da 3000 a 2300 lire. Questi dati, uniti ad altri centinaia, rendevano i conteggi un vero rompicapo e spesso si scadeva nel ridicolo.
Sempre nel 1957 da parte governativa si sbandierò la legge che dava la pensione di vecchiaia ai contadini. Fu una conquista della quale si vantò la Coltivatori Diretti e venne approvata dal Parlamento nel 1957. Ne beneficiarono coltivatori diretti, pastori, mezzadri e coloni con le loro famiglie, e consentiva loro di andare in pensione all'età di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne. Dal 1 gennaio 1958 la legge concesse a 400.000 coloni di andare in pensione con un solo anno di versamenti e molti contadini cominciarono ad avere le marchette messe dai proprietari. Le legge, infatti, stabiliva la metà della spesa a carico dello stato, e l'altra metà a carico di concedenti e contadini.
La forma tradizionale dello sciopero, cioè l'astensione dal lavoro, ebbe vasta applicazione nelle lotte mezzadrili, ma se danneggiava i padroni penalizzava ancor più i contadini, i quali, di conseguenza, furono sì solidali, ma quando vi aderivano non trascuravano del tutto le loro faccende.
Il 12 febbraio 1952 si ebbe un convegno di protesta dei mezzadri della provincia abbinato a uno sciopero nell'industria. I mezzadri, a piedi, in bicicletta e alcuni in scooter, con prevalenza di manifestanti dalla Valdarbia e Buonconvento, si riversarono in città inneggiando e cantando. A gruppi entrarono nei negozi e negli uffici esponendo, a chi li voleva sentire "e a chi non li voleva sentire", le ragioni della loro lotta che in quel momento si concentrava sulla disdetta dai poderi. In Piazza della Posta intervenne la polizia invitando i capannelli di coloni a disperdersi e a circolare. A Porta Romana fu necessario effettuare una trentina di fermi, subito rilasciati.
Nel periodo delle lotte aumentarono gli sfratti con accuse spesso insignificanti, e fioccarono le denunce ai mezzadri per appropriazione indebita di prodotti agricoli. Di questi fatti ci sono rimasti numerosi articoli di giornali, quasi tutti simili nel contenuto. Nel 1950 un colono venne condannato alla pena di giorni 20 di reclusione e Lire 3.000 di multa, con la pena condizionalmente sospesa. Il colono era stato denunciato dal padrone per essersi appropriato di 200 Kg di grano, in occasione della tribbiatura, che ritenne sulla quota spettante al proprietario. Il colono doveva altresì rispondere di violazione del patto colonico, per aver contravvenuto alle norme del patto stesso essendosi rifiutato di accudire al trasporto del grano di spettanza del proprietario nel magazzini di quest'ultimo.
Nel 1953 fu proclamato uno sciopero contro il padrone, e i contadini non tribbiavano lasciando il grano ammucchiato nei campi, ma intanto coltravano la terra per il futuro raccolto distrigandosi fra i mucchi di manne sul campo. Molti vecchi contadini, sgomentati da questo fare, esprimevano tutto il loro malumore: "Ma che si può vede questo lavoro!".
I contadini sfrattati dai poderi spesso opponevano resistenza, spalleggiati dai sindacalisti e da altri contadini. Allora interveniva la celere per procedere, come a Lilliano nel 1953, quando un contadino delle Quattro Vie, solidale con gli sfrattati, mentre protestava venne fermato e caricato e forza nella camionetta, ma alla fine venne rilasciato. Questo è solo un esempio di tanti fermi originati dai tafferugli che si ebbero in quei momenti di animi riscaldati. Spesso, come nel nostro caso, si limitavano al fermo di poche ore, ma molti trascorsero qualche notte in carcere e finirono sotto processo.
La persistente, endemica, lotta portò al disinteresse di numerosi proprietari e all'insofferenza dei mezzadri verso gli stessi. La diffidenza dei proprietari si fece sempre più marcata e in quel clima polemico non mancarono accuse sui furti nella ripartizione dei prodotti, accuse contro i giovani coloni che andavano a lavorare in città e che facevano le ore piccole alla guida di motorini alla ricerca di nuovi divertimenti. Dove è finito il colono che si alzava la mattina e pensava al podere, parco nel mangiare e nel vestire?
Dal canto loro i mezzadri, che in molti casi avevano esperito conoscenze avanzate di coltivazione, si sentirono in grado di condurre personalmente il podere in un'agricoltura che richiedeva ormai più capitali e meno mano d'opera, concorrendo perciò alla la crisi della stessa famiglia mezzadrile alla quale veniva richiesta una diversa capacità lavorativa.
Con la legge n° 756 del 15 settembre 1964 si mise fine all'agonia vietando la stipulazione di nuovi contratti di mezzadria, ma mantenendo quelli in vigore fissando nuove regole. Finalmente venne raggiunto anche l'agognato traguardo della collaborazione nella gestione dell'impresa poderale, con la possibilità per il colono di imporre innovazioni in ordine alla coltivazione. In più gli permetteva di accedere personalmente ai contributi e agevolazioni di legge. Si concesse pure la libera modifica della forza lavoro della famiglia, purché non risultassero compromessi i raccolti dei quali si attribuì alla parte colonica il 58%; peccato che i contadini ormai fossero una razza in estinzione.
L'incertezza dimostrata negli anni precedenti nel risolvere il difficile problema della Mezzadria ebbe la sua naturale soluzione nella fuga dai campi da parte dei contadini, prima dei giovani e poi delle famiglie, verso un'industria che garantiva paghe sicure e una vita più dignitosa. In questi anni di cambiamenti "venne meno l'impegno globale dei contadini", oramai scoraggiati e decisi a cambiare vita.
Dalla metà degli anni Cinquanta a fine Sessanta il fenomeno si fece intenso. I poderi, alcuni ancora senza acqua e senza luce, vennero lasciati dai coloni che si inurbarono nei paesi e nelle città alla ricerca di un reddito che nel 1955 un lavoratore nell'industria aveva superiore di 3 volte e mezzo quello del mezzadro. Questo divario salì nel 1963 a ben cinque volte e mezzo. Un’intera famiglia mezzadrile aveva un reddito pari a quello di un solo operaio dell'industria.
La produzione delle terre degli ex poderi venne gestita in proprio dagli ex padroni e affidata a salariati, molto spesso loro ex contadini. Ma il nuovo metodo di gestione, per motivi diversi, ebbe vita breve, e molti poderi rimasero incolti o furono coltivati parzialmente o videro l'impianto di vigneti. Altri, passarono ai contadini, divenuti padroni e coltivatori diretti. Altri ancora, in mano a nuovi proprietari, vennero prima affittati parzialmente poi lasciati incolti. Oggi non esistono mezzadri perchè il contratto di mezzadria venne trasformato in contratto di affitto regolamentato dalla ricordata legge del 1964 e da altre successive.
Presento una incompleta, ma indicativa statistica sull'abbandono della Mezzadria delle famiglie e dei poderi di Quercegrossa. L'anno si riferisce alla cessazione o alla trasformazione in salariati.
1954 I Valiani lasciano Poggiobenichi ma continuano a lavorare la terra del prete di S. Andrea.
1956 Landi a Viareggio.
1958 Ciampoli al Castello.
1958 Berrettini ai Poggioni.
1958 Marradi.
1959 Ferrozzi all'Erede.
1959 Bardelli Antonio: il capofamiglia torna a Prato
1959 Starnini Gherardo alle Gallozzole.
1960 Losi all'Arginanino.
1960 Sarchi alla Magione: salariato.
Anni 60 Lorenzini a Lornano.
1960 Vannoni a Quercegrossa.
1960 Fosi a Belvederino: Gino va a fare il salariato alle Lodoline; Tito fine anni 60 va all'Impruneta.
1961 Carli alle Gallozzole: Giulio torna a Poggibonsi.
1962 Bardelli alle Gallozzole: tornano a Poggibonsi.
1962 Florindi alla Magione.
1963 Losi Virgilio: partiti nel 1960, smettono a Monteriggioni.
1963 Finetti a Macialla.
1963 Corbini al Castello: diventano salariati.
1963 Bianciardi: cessano quando lasciano Macialla.
1963 Pagliantini: diventano salariati del Bindi.
1964 Cennini.
1964 Buti dell'Arginano.
1964 Nencioni all’Arginano.
1964 Lorenzoni di Pietralta: tornano a Certaldo.
1965 Sestini: tornano a Quercia.
1966 Rodani.
1967 Sequi: acquistano il podere e diventano coltivatori diretti.
1967 Sarchi: acquistano il podere e diventano coltivatori diretti.
1967 Petri Renato: torna a Quercegrossa e diviene coltivatore diretto.
1968/69 Fabiani alla Casanuova.
1969 Palazzi: lasciano l'Olmicino.
1972 Stazzoni.
1974 Pianigiani alla Cornacchia.
1980 Tatini al Poderino.

Conclusa questa breve e spero esauriente illustrazione sulla nascita ed evoluzione della Mezzadria, aggiungo alcune testimonianze di vecchi mezzadri che mettono in luce alcuni tratti più significativi della loro esperienza di lavoro. Tutta quanta la storia della Mezzadria è improntata sul rapporto padrone - contadino, e anche di questo possiamo coglierne alcuni aspetti in questi recenti ricordi. L'obbligato rapporto si è fondato per secoli sul riconoscimento e rispetto dei ruoli, ma dopo la seconda guerra mondiale, tutto è stato messo in discussione e il padrone ha perso quel naturale carisma che gli derivava proprio dall'essere "il padrone", cioè il proprietario del bene in comune. Su una sponda tutta diversa il colono aveva vissuto la secolare e rispettosa sudditanza, scaturita dalla consapevolezza della sua precarietà nel podere, nella necessità di avere la sussistenza per vivere. Inoltre, a questo ceto padronale, il contadino attribuiva un carisma derivato suo antico lignaggio (la maggioranza dei poderi era in mano a famiglie della nobiltà e ricca borghesia senese), o della sua prepotenza che imponeva come padrone, o dalla sua superiore cultura e infine dalla sua posizione economica e sociale di rilievo tipica delle famiglie benestanti borghesi possidenti ciascuna sempre qualche podere e altre attività. Tutti questi fattori, che avevano giocato a favore del padrone, si dissolsero nel dopoguerra e nacque una nuova mentalità, anche se le vecchie maniere furono dure a morire. In questo nuovo contesto si videro aperte ribellioni personali al potere padronale, anche con fughe dai poderi a costo di trovare condizioni peggiori. Inoltre, la lotta si fece ancor più aspramente disonesta per mezzo di manovre il cui scopo era quello di appropriarsi indebitamente di maggiori prodotti, così come i padroni e i loro fattori avevano da sempre cercato di togliere ai contadini ciò che gli spettava per diritto, imbrogliandoli sui conti.
Alcune frasi, buttate giù nel discorso, esprimono sufficientemente questi atteggiamenti:
- "Quando si tribbiava si sceglieva il grano per il seme e lì come facevano tutti qualche sacco veniva fregato al padrone".
Testimonianza di un certo Falchi: "I miei cugini andavano al mulino a d'accordo col mugnaio dividevano la farina che
facevano col grano rubato nottetempo per fame. Oppure, sempre di notte, rubavano e battevano di nascosto qualche manna per un sacco di grano"
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Dedo: "I sacchi vuoti, erano un altro trucco per fregare il padrone. Si scaricavano i sacchi pieni poi si contavano insieme ad altri portati vuoti".
Zia Ilda: "Qualche volta si rubava una forma di formaggio".
- "Il Pelacani era un buono, ma inesperto padrone. Quando si tribbiava un viaggio nel suo granaio e due nel nostro".
- "A San Giusto una famiglia era in credito di 25.000 lire, in tempo di poco, il padrone gli fini tutto".
- "Luigi Pallini, avvocato, era un po' a padrone, ma il tuo te lo dava, ma se ti vedeva una ciocca d'uva in mano..."
Negli ultimi tempi, in alcuni poderi, i contadini avevamo maturato un credito verso il padrone, ma non c'era verso di avere i soldi così alla vendita di vitelli o maiali, fatta all'improvviso con la compiacenza del sensale, si ritenevano per sé tutto l'incasso.
- “Alla Casanuova fecero il giogo per un solo bove per coltrare la vigna di nascosto e cancellando le impronte del terreno perché Festa voleva farla lavorare con la zappa perché i bovi sciupavano le viti”
Giulio Carli: “Una volta avevo un manico di ginepro per la squerza, fatto da me. Guidavo il carro e mi trova il Pallini: “Dove l'hai tagliato?", mi disse, aspramente. "Ora te le fo pagare! Digli al tu' zio che venga da me".
- “Il Pallini gli amici contadini li ha sempre considerati”.
- “Il Pallini era un dittatore: non voleva che si tagliasse una ginestra perchè non voleva vedere il cimitero”.
- “Festa Filomena in Morelli arrivava al Mulino e non voleva che i suoi figli giocassero con quelli dei contadini”.
Dedo incominciò ad andare al Piano, un pezzo di campo distante dall'Arginanino, in bicicletta e ritornava molto prima degli altri; sistemava la stalla e preparava. “Oh te! Non volevano. Ma che dirà la gente, per chi ti vede in bicicletta nei campi".
L'altra innovazione di Dedo fu la sistemazione di un tubo che dal granaio, nella stanza di sopra, portava il grano in basso, invece di scendere le scale carichi con i sacchi in groppa. Ezio, il babbo, non voleva: "Ma che dirà il padrone".
- "Il rispetto verso il padrone e il podere venne meno con le lotte contadine dopo guerra, si incominciò anche a rubare qualche manna".
- "Al tempo delle lotte contadine c'erano contadini meno impegnati di altri".
- "Nel 1950 per motivi politici molti contadini non vollero lavorare con i Mori al frantoio e la lavorazione fu molto ridotta".
I Pistolesi coltivavano l'orto al Castello. Parte al padrone, anche se non c'era più l'obbligo: "La fattoressa chiedeva".
Nel 1958 i Carli partono da Petroio. “Il Guarducci, come mediatore, fece le stime e si venne liquidati con denaro. Al Pallini gli si lasciò un carro vecchio a mezzo, ma quello nuovo di quattro anni, fatto fare dal Felloni di Vagliagli, si prese noi”.
Bruno Sestini così rammenta gli ultimi tempi: "Per la fine della mezzadria i padroni puntarono sui salariati, come fece il Bindi allontanando tutti i contadini. Un giorno gli dissi: "Oh sor Emilio! Si ricordi quello che gli dico e lo scriva pure su un libro: un anno andrà bene, ma poi finirà tutto". Dopo un po' di tempo mi dice: "Ma che sei indovino". Non sono indovino, parlo solo per esperienza. Ci aveva 200 presse di paglia. Gli dissi: "Oh sor Emilio, le vuole vendere queste presse? Si... "Ci sarebbe un compratore che gli dà 1000 lire a pressa. No, no, per mille lire non vendo. Finì che le buttò via tutte infradiciate”. “Il primo anno dei salariati tribbiarono con la mietilega che falciava e legava il grano. Partirono e in poco tempo buttarono giù tutto il grano; non c'era rimasta una spiga. Poi il tempo si guastò, per questo iniziarono a fare piccole mucchie alla svelta, ma fu perso quasi tutto. Il contadino guarda il tempo, sa come muoversi, conosce i tempi del raccolto. I padroni non fecero niente per farci restare; quelli rimasti sono signori. “Noi si chiese di rimanere in affitto o a riscatto; non ci fu niente da fare".
Non c'era posto per tutti nel nuovo assetto dell'agricoltura e i Pistolesi non trovarono nè fitti nè lavoro salariale e quindi tornarono a fare i contadini alla Casanuova che avevano lasciato da pochi anni.
Armando Losi: “S'era come una famiglia con gli altri contadini”. Ad Armando non piacque fin da piccolo la condizioni di servitù verso il padrone e non l'accettò mai, per questo non lavorò nei campi, ma si cercò altra occupazione a Siena.
Per la tribbiatura dal Bernardeschi, con la macchina piazzata dietro la chiesa e il pagliaio in quello spiazzo dove sorgerà il locale parrocchiale, c’erano dei contadini a dare una mano, ma a metà lavoro, ricorda Anna, uno di loro volle mettere la bandiera rossa attaccata allo stile. Ma Attilio si oppose fermamente e allora... “Tutti giù dal pagliaio”. “Quasi tutti i contadini se ne andarono a casa, rimase solo il Palazzi Enrico. Io ero in cucina con le donne a preparare il pranzo della tribbiatura. Ci si sentì chiamare per lavorare e s’andò a buttare le manne e ci s’arrangiò”.
Attilio con la mucca e carretto incontra un ragazzetto di una famiglia contadina al ponte di Quercia. Quel giorno era di sciopero e non si dovevano attaccare i bovi. Attilio che non era un mezzadro, ma un piccolo coltivatore diretto, si sentiva al sicuro non riguardandolo lo sciopero. Ciò non bastò e questo ragazzino, “che gli si fogava e lo voleva buttare dal ponte”, perchè lavorava. Gli mise paura. Attilio tornò a casa che tremava tutto e andò a letto. "Andavo a far l’erba con la mucca", si giustificava.



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