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Olio - Frantoio "Subito dopo la vendemmia iniziava la semina che finiva intorno ai Santi. Poi a cogliere l'olive in dicembre e in quel periodo l'oliviere erano aperte fino a tutto gennaio. Per Natale lavoravano in tanti, e tanti passavano le Feste all'oliviera". In questa memoria c'è tutto il programma dei tempi della raccolta e della frangitura delle olive, il terzo raccolto importante per il contadino. Ma per arrivare a mettere l'olio nello ziro si dovevano compiere alcune operazioni intorno alla pianta dell'ulivo che cresceva vigoroso nei campi, in linea nei filari alternato alla vite o riempiendo da solo le nude prese e gli angoli dei campi. L’olivo, o ulivo, una pianta molto diffusa, dominava il paesaggio di Quercegrossa, assistita nella sua crescita dalla mano del contadino attento alle sue malattie e ai parassiti che la potevano infestare. Già fin dopo la raccolta si cominciavano a tagliare con la scure le scappie, ossia i ramoscelli che crescevano sul tronco, ma una delle operazioni necessarie era la concimazione di febbraio: "Gli ulivi erano governati a letame e chi ce l'aveva anche col bottino del pozzo nero (2/3 boccali di pozzo nero). Da metà dicembre fino a meta febbraio, un po' per volta. Per dargli il letame si scavava una buca a 50 cm dalla pianta e si riempiva. Non si usavano concimi chimici. La potatura e la pulitura degli ulivi si faceva nel mese di marzo; si tagliava e si segavano rami e rametti”. Ne risultava una quantità di ramaglie, dette anche "olivastri"; portati al podere venivano seccati in forno e poi bruciati come legna. Nel periodo pasquale si tagliavano i rametti che servivano per la Domenica delle Palme. Qualche ramatura e la zappatura completavano l'opera del contadino intorno all'ulivo.
"La raccolta delle ulive iniziava ai primi di dicembre, dopo la Madonna e subito dopo si iniziava a governare gli ulivi". "Le ulive si coglievano verso il 10 dicembre, per la Madonna". In quelle giornate fredde e serene era dura restare sopra gli ulivi tenendo il paniere per raccoglierle, e senza guanti. Non ci vuole molta fantasia per sentire il freddo che colpiva alle estremità quei lavoranti all'aperto. Molte olive cadevano in terra e il giorno stesso, o quelli successivi, gruppi di ragazzi e donne venivano mandati a "raccattare le olive". Conclusa la raccolta le olive venivano messe ad asciugare nelle stanze e nei palchi, in attesa di insaccarle e portarle al frantoio per l'operazione finale di frangitura. L'uso di macine per schiacciare i semi o le olive è antico quanto il mondo e fino all'Ottocento una grossa macina girava nei tanti frantoi di fattorie grandi e piccole. La macina veniva mossa da un bove o da un asino che girando in cerchio la facevano girare e "stiacciava" le olive, fino a ridurle in poltiglia. La "pasta" ottenuta veniva stretta con una pressa azionata a mano che dava una resa accettabile, ma si dovette attendere i frantoi elettrici per ottenere dalle olive quasi il 100% dell'olio. Il primo frantoio ricordato in Quercegrossa è quello settecentesco delle monache, proprietarie del podere dell’osteria, ma non si sa fino a quando fu attivo. In tempi più recenti, negli anni Venti del Novecento, un frantoio venne realizzato dai nuovi padroni Mori che avevano immediatamente adattato la proprietà ex Andreucci alla loro impresa agricolo - industriale. Costruito nel 1924/25, al pian terreno, nell'angolo Sud-Est del Palazzaccio, funzionava per la forza di un trattore, tenuto nella stanza della falegnameria, attigua al frantoio. Il trattore faceva girare il suo volano e l’altro delle macine, collegati per mezzo di un cignone, tipo quello della tribbia. Si azionava così un ingranaggio capace di muovere e far girare le grosse macine di pietra. La pressatura della pasta, spalmata sopra pannelli vegetali, era ancora manuale, con lo stringitoio, e occorreva la forza di alcuni uomini per azionarlo. Lo stringitoio, infatti, aveva al lato un robusto palo verticale ben piantato in terra e fissato al soffitto, con, all'altezza di uomo, quattro manici infissi orizzontalmente a forma di croce. Quattro uomini li afferravano e li spingevano in sincronismo facendo girare il palo verticale al quale si avvolgeva una robusta fune collegata allo stringitoio. La fune, avvolgendosi, tirava lo stangone dello stringitoio che nel meccanismo a vite provocava la lenta discesa di una tavola, la quale esercitava una pressione verso il basso, mantenuta a lungo, pressando così la pasta delle olive. Nel 1948 il frantoio venne completamente rinnovato, funzionante ora a energia elettrica e sicuro per l'igiene. Si costruì, infatti, ad opera del muratore Castagnini, un ambiente spazioso dove ogni operazione poteva essere condotta comodamente. Era dotato di un grosso bollitore alimentato da un fuoco a legna, di una stanza di servizio e del depuratore al quale si accedeva da larghe scale. Si ebbe così un moderno frantoio che garantiva in poco tempo la macinatura a tutti quanti vi ricorrevano, facendo definitivamente chiudere l'attività a quello dell'Arginano, situato accanto alla cappella, ultimo frantoio a forza animale rimasto nei dintorni dove ci si serviva del cavallo. L'altro di Pietralta aveva cessato di funzionare prima della guerra. Anche la fattoria di Passeggeri possedeva il proprio frantoio, e nel 1949 vi girava una macina a pietre gemelle con due presse delle quali una idraulica e l'altra a mano, con due casse di legno per ricevere la pasta. Tre motori elettrici ne garantivano il funzionamento e un separatore automatico era il cosiddetto depuratore. Le due grosse macine del nuovo frantoio di Quercegrossa giravano ora velocemente nella grossa conca metallica piena di olive, mentre rastrelliere e palette all'interno le mandavano senza sosta sotto le macine e in 20 minuti le olive erano ridotte a una pasta scura, ammorbidita da qualche secchiata d'acqua calda gettata tra le macine. Una bocchetta aperta al momento opportuno la faceva uscire, accolta dai grossi carrelli muniti di piano. Un pannello vegetale con un foro centrale era posto sul piano del carrello, con intorno un cerchio di ferro alto due centimetri e dello stesso diametro. Iniziava così l'operazione di spalmatura e un operaio munito di pala prendeva la pasta dal carrello e l'altro la spianava sul pannello con le mani. Insieme poi lo mettevano nella moderna pressa infilandolo dal foro centrale nel palo verticale, e così fino a riempimento della pressa stessa. Ogni tanti pannelli si metteva nella pressa un disco di ferro per una uniforme pressione. Si aveva ora una pila di pannelli alternati ai dischi metallici, alta quasi due metri. Si accendeva e i manometri della pompa cominciavano a muoversi. La parte inferiore della pressa, spinta dalla forza idraulica, si alzava, mentre l'olio cominciava a gocciolare sempre più dai pannelli. La pressa saliva, saliva lentamente, fino a ridurre la pila della metà, e una cascata di olio e acqua la rivestiva. Attesa la fine di questo sgocciolamento, la pressa si abbassava e riprendeva la posizione di partenza. I pannelli, tolti uno ad uno, venivano liberati dalla pasta, quasi seccata dalla pressione, usando delle spatole: era la "sansa". Questo residuo della lavorazione era venduto e riciclato da qualche industria. Per noi ragazzi, attenti a seguire tutte le operazioni, era un divertimento staccare la sansa dai pannelli e ammontinarla in un angolo del frantoio, lavoro che i contadini ci lasciavano fare volentieri. L'olio fuoriuscito dalla pressa si incanalava e raggiungeva il depuratore in basso, posto in altro ambiente, e costituito da un insieme di filtri e bracci metallici. Qui l'addetto, chiamato l'oliandolo, armato della leccarda, un piatto leggermente concavo, prendeva l'olio separandolo dai residue acquosi che venivano diretti "all'infernaccio". L'olio, di un bel colore verde scuro, era assaggiato continuamente da contadini e fattori per saggiarne la qualità. Il luogo da noi chiamato "infernaccio" era stato costruito nell'orto a fianco dell'officina, e chiuso per sicurezza da un porticina. Lì arrivava lo scarto acquoso della lavorazione, di un color scuro, con ancora piccolissime quantità d'olio. Alcuni andavano all'infernaccio a prendere questi avanzi d’olio per l'illuminazione: "Oh, ma qui ce n'è tanto buono!". Riempiti i barili di olio, il contadino li caricava sul carro e portava la sua parte al podere e l'altra metà la consegnava al fattore, in fattoria. Era arrivato allo Stanzone col carro carico di tante balle piene di olive che aveva scaricato dentro il frantoio a ridosso della parete di fondo, accanto al fuoco sempre acceso che dava tepore alle olive prima della lavorazione perché le olive dovevano "riscaldare". Ma prima di accatastarle, erano state pesate alla grossa bascula, posta a sinistra dell'ingresso, con portata di diversi quintali. Il contadino sarebbe poi tornato il giorno dopo, e al suo turno avrebbe dato il via alla lavorazione. I Mori controllavano che tutto funzionasse e registravano le quantità macinate. La colazione, fatta di pane e affettato, comprendeva d'obbligo anche una bella fetta di pane, abbrustolita e condita con l'olio nuovo e sale: era il "panunto". Con qualche contadino conosciuto, una fetta toccava anche a noi ragazzi e a chiunque entrasse nel frantoio, e tutte l'ore erano buone. La lavorazione durava da metà dicembre a tutto gennaio e in quei giorni la presenza dell'oliandolo era continua, con poche ore di sonno. Nel frantoio di Quercegrossa se volevi Damino lo trovavi sempre al suo posto al depuratore. Giacchino Lorenzini di Belvederino lavorava nell'impianto della fattoria delle Lodoline, e quando iniziavano "spariva di casa e non lo rivedevi per un mese". Terminata la stagione, il silenzio calava sul frantoio. Il suo ambiente serviva saltuariamente per altri usi, come deposito e magazzino. Dal Mori ci si lavorava il maiale, e lo zio Sandro ci faceva il miele. L'attività del frantoio di Quercegrossa finì nel 1963/64 con la fine dell'Azienda Mori. In seguito venne smontato e oggi c'è un appartamento, ma il ricordo di quel profumo misto di olio e olive rimane. Molto olio della parte del contadino veniva venduto: "L'olio veniva venduto e si condiva a lardo (strutto di maiale conservato in caraffe)”. "Lo ziro dell'olio in dispensa con un bricco metallico col manico, e giù in padella". |