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Allevamento Se la coltivazione rappresentava l'aspetto primario del lavoro contadino, nondimeno importante si mostrava l'allevamento e la cura del bestiame, da quello grande a quello minuto e da cortile. Tutto sommato, dalla sua dotazione in un podere dipendevano molte coltivazioni e l'alimentazione stessa del colono. In senso generale, nel titolo si intende indicare tutte quelle specie che si ritrovavano nei poderi del senese: quello da stalla con bovi, vacche e vitelli; quello porcino con i maiali; quello ovino con le pecore e capre; quello da soma con asini e ciuche; quello da pollaio comprendente pollame in genere, piccioni e per finire coniglioli. Tutte queste specie fornivano forza lavoro, carne e letame per i campi e un guadagno con la vendita di lattoni e della lana. Era dunque insostituibile e ogni podere degno di questo nome non ne poteva fare a meno e grande era l'impegno che richiedeva alla famiglia la sua custodia. Abbiamo già visto che al bifolco erano affidate le bestie della stalla, mentre la massaia era responsabile del pollaio. Per il porcile e l'ovile la competenza della pulizia degli stalletti e per governare gli animali era una faccenda di tutti gli adulti. Ma uno dei grandi temi della Mezzadria era l'impiego dei ragazzi e ragazze per la custodia del bestiame lasciato pascolare liberamente nei campi e nei boschi. Non esiste contadino o contadina che da piccoli non siano usciti a "guardare i maiali" o a "guardare le pecore". Bovi, vitelli e vacche "L'agil opra de l'uom grave secondi". Non c'è modo migliore dell'inno del Carducci e in particolare di questo espressivo versetto, per presentare un animale mite, pronto a ogni comando e soprattutto dotato di una forza possente: il bove. Impiegato come animale da tiro e traino con coltri e carri, sembrava creato apposta dalla natura per essere il grande amico del colono. Senza di lui l'agricoltura non avrebbe mai progredito. Aggiogato per il lavoro a coppia con un altro esemplare, raramente era usato da solo. Una buona stalla era sinonimo di salute del podere; era un capitale per padrone e il contadino e grande attenzione gli veniva dedicata dal bifolco. Ogni podere di Quercia aveva bisogno di un paio di bovi, o di vacche, che acquistava o rallevava. I vitelli nati erano un bene economico e si commerciavano per un po' di guadagno, ma in genere l'allevamento del bestiame era piuttosto ridotto. Per quasi tutto il tempo della Mezzadria il bestiame della stalla era dato “a stima” dal padrone, e pari valore il contadino doveva restituire alla partenza. Poi, col conferimento, anche il bestiame divenne patrimonio a mezzo. Attivo il commercio e la vendita che si faceva nelle numerose fiere del bestiame che si tenevano in tutti i centri della provincia. Il bove lavorò insieme al trattore fino agli ultimi anni della Mezzadria. Nel ricordo di Elio che rivede il nonno Rodani mentre torna a casa a Poggiobenichi, ci si legge la premura del contadino rivolta a questi grandi e preziosi animali: "C'era rispetto per le bestie sfinite da una giornata di duro lavoro. Non era tanto il peso di un cristiano, ma non saliva sul carro, ma davanti alle bestie, con le corde al braccio, accendeva la pipa e si avviava a piedi per non stancarle". Si ripeteva una storia fatta di mille e mille episodi che si sono ripetuti per secoli, sempre uguali. Si, è vero, il contadino usava la squerza e "bociava" alle bestie con tono prepotente, bestemmiava anche, ma ad ognuna aveva dato un nome col quale le richiamava, come si fa con le persone, e mai con cattiveria. Il podere di Gaggiola al 1 gennaio 1937 aveva una buona stalla di 13 bestie, così descritte: 2 buoi bastardi del valore di 4200 lire; 2 giovenchi: 4000 lire; 2 giovenchi: 5000 lire; un vitellino: 1000 lire; 1 vitellina: 1000 lire; due vacche con due redi: 5000 lire; 2 vacche: 4000 lire. Nell'anno si ebbero 19 movimenti di animali tra nascite vendite e acquisti. Spesero lire 165 di tassa sul bestiame. Nel gennaio 1936 per 4 "attorature" e 5 "avverrature" nella fattoria di Vignaglia spesero 215 lire. “A Viareggio nella stalla c'erano da otto fino a dodici bestie. Tenevano le vacche perchè producevano. Una sola volta comprarono un paio bovi maremmani con due magnifiche corna, ma poco adatte per passare tra i filai e gli ulivi o tra gli alberi dove si incastravano continuamente quando andavano a prendere l'acqua con la botte. La stalla era formata da 4 box dei quali uno provvisorio”. "Al Castello s'aveva un paio di bovi. Il Pratellesi non voleva tante fitto nella stalla".
Ulteriori contributi: Giulio Carli bifolco prima a Petroio poi alle Gallozzole: "Il mi' babbo faceva il giogo liscio come il tavolo di casa. Prima di partire lucidava i bovi, prendeva una balla e l'impregnava di olio di oliva e drusciava i bovi e quando erano quelle belle giornate di sole, specchiavano, e s'andava, e ci si teneva. Eccome ci tenevo. Compravano bovi di razza cecinese anche questi erano di 22 q. e mezzo facevano a gara il babbo con Onorato Manganelli per crescerli più grassi. Il mi' babbo dormiva nella stalla, erano di 2/3 q. l'uno e già domati. Un giorno andava a Quetole a prendere l'acqua. Esce dal tombolone e al ritorno si ferma a Pietralta perché c'era il Casprini con un paio di bovi che bloccava la strada. Giovanni si avviò a piedi verso Petroio e quando poco dopo partì il Casprini, anche i bovi cecinesi giovani rimasti indietro si diressero verso casa, ma erano molto agitati, innervositi. Allora Giovanni gli si para davanti e si fermano. Si calmarono e tornarono due pecore; erano già pesi 17/18 quintali. Due magnifiche bestie. Uno spettacolo. Un bove cozzava e a Quetole a prendere l'acqua all'improvviso mi cozzò e mi distese per terra. Un male cane. Allora dalla rabbia presi la cavicchia del carro e gli gonfiai il muso. Continuò a cozzare a tutti, ma me non mi toccò più. Se c'era gente nei campi andava e cozzava". Per il giogo il mi' babbo rallevava i noci e quando erano giusti li tagliava e lo costruiva con la collagnola un po' torta, mentre in genere era più arcuata, ma era peggio. I più facevano i gioghi di carpine bianco, non di carpine nero come erano in Carpinaia. Col Pallini era grassa se compravi un paio di bovi; le più volte ti portava in maremma per prendere i suoi. Alle Gallozzole nella stalla avevo 10/12 bestie". - "Nella stalla i bovi venivano puliti come i cavalli tutti i giorni, la paglia cambiata presa al pagliaio e la sporca buttata nella concimaia". - "Al boschetto inglese del Castellare cadde un bove nel torrente. Rimase lì fermo. Allora presero una boccia di aceto e glielo spruzzarono nel naso così si mosse e lo levarono. Fatto capitato al Cellesi Dante di Macialla". - "Il Bernini trasportava da Massina alla Villa Parigini. Arriva a Quercegrossa dove oggi ci sono le case del Monte, c'era un muretto molto basso e un bove cadde di sotto. L'altro ce la fece a reggere il peso fino a che non si libero delle corde e del giogo. Il bove non morì. Quando macellavano un bove che moriva per cause accidentali la gente per solidarietà comprava un pezzo di carne". - "I Pistolesi, quando abitavano nella Val d'Arbia tenevano tante bestie. I vitelli nati venivano rallevati e poi venduti. Quando coltravano mettevano due paia di bestie e io tiravo quelli davanti. Il trapelo portava un palo di circa 2,50 m e collegato al tiro con una catena al giogo vi veniva attaccata una pesante pietra come zavorra perchè non scorresse sul collo degli animali. In altri poderi usavano solo la catena". - "Il fontone serviva per dar da bere alle bestie". "L'acqua gelata del fontone d'inverno prima di darla alle bestie veniva messa in una botte e riscaldata". - “Bovi e vacche erano tenuti alla greppia o mangiatoia da una catena” - “Nel 1967 alla Casanova ci fu un parto gemellare. Nato il vitellino il veterinario Morelli cerca di levare la seconda di vacca quando sentì l'altro: "Datemi una mano, ce n'è un altro". La vacca indebolita fu macellata, il famoso santantonio".
Si ricordano anche di bovi stagionali: una definizione data all’acquisto di un paio di bestie per la coltratura per poi rivenderli appena eseguiti i lavori. Questa usanza non era praticata, se non casualmente, a Quercegrossa, dove soltanto pochi poderi non tenevano bovi o vacche nella stalla. C’era poi un altro aspetto interessante nella compravendita di questi animali presso fiere e mercati, quando gli acquirenti venivano da lontano; allora entravano in azione i “mandarini”. Marcello Landi: "Quando nelle operazioni di compravendita, di solito col sensale, si acquistavano vitelli, bovi, vacche, ciuche ecc. ed era tanta la distanza dalla stalla del compratore, si usavano i "mandarini". Esempio: contadini o fattoria di Passeggeri compravano alla fiera di Quercegrossa con la mediazione del sensale due vitelli a Panzano. In questo caso si ingaggiava un mandarino, un contadino, il quale a piedi portava i due animali, con tutta l'attenzione che richiedeva l'operazione, a destinazione per la consegna. Damino Losi aveva fatto il mandarino portando bovi fino a Campi Bisenzio”. Anche Piero Rossi ed Ezio Losi avevano fatto questa esperienza: “Si partì presto da Siena e a Fonterutoli ci si fermò per mangiare. Si conducevano quattro bovi, due per ciscuno. Ai bovi non era stato dato niente da mangiare, altrimenti non sarebbero arrivati. Giunti a S. Donato in Poggio si consegnarono a un altro mandarino che li portò a Campi Bisenzio”. In questa cittadina si teneva annualmente una grande fiera mercato di animali da lavoro. - “C'erano figure professionali che trovavi alle fiere o al Foro boario e venivano incaricati dai fattori e commercianti di portare le bestie ai vari poderi e fattorie. Portavano anche quattro bestie due le menavano e due le pintavano. Ci provò un contadino, ma fu la prima e l'ultima volta dal mal di piedi che ci prese”. - “Era un problema quando le bestie erano stanche. All'Arginano durante la guerra, quando c'era l'obbligo di consegnarle, molti le lasciavano perchè non ce la facevano più”. - "Si andava a pigliare le bestie a piedi a Buonconvento, trasportate a piedi con i cambi dei mandarini. Al massimo un singolo mandarino ne portava quattro, se erano domate; se non era domato un vitello alla volta e quando si buttavano “a diacere”, non si sapeva che fare". - “Gino Barucci andava col Guarducci a comprare le bestie. Andavano in Maremma e a Castel del Piano da dove tornavano a piedi con una mandria di bestie anche ciuche o pecore fermandosi alle poste lungo la strada”. Domatura I giovani vitelli non avvezzi ad essere attaccati al carro o al coltro dovevano essere domati per piegarli al lavoro. Due efficaci testimonianze rendono chiaro il daffare. A Casagrande di Petroio: "La stalla comprendeva fino a 8 bestie con un paio di bovi, uno di vacche e fino a quattro vitelli. Compravano i vitelli o quelli che nascevano erano da domare attaccati al carro con due tre persone davanti ai lati con bastoni e uno alla martinicca e richiedevano un po' di tempo. Poi si dovevano abituare al coltro e fino a che non avevano fatto il collo l'untavano con la sugna. Quando poi passavano le poche macchine, avevano paura". Domatura dei vitelli nel racconto di Maurizio: “Ci volevano più uomini per tenerli, e poi gli mettevano il giogo e ogni giovenco “a traverso per conto suo”. Poi li portavano nei campi a tirare il quarantadenti e si calmavano. I più duri li accoppiavano ad una vacca. Poi venivano abituati alle macchine e alla Sita col carro”. Monta Da ricordare che i nostri vitelli, come si osserva nelle varie foto, erano un incrocio tra bovi di razza maremmani e vacche chianine. In antico vi erano altre razze meno potenti che duravano pochi anni di lavoro. Il vitellino non castrato diveniva un toro, e naturalmente per ottenere vitelli e vacche si doveva procedere alla monta di giovenche e vacche. Questa operazione, detta “attoratura”, era effettuata in fattorie specializzate dove un contadino esperto sovrintendeva e guidava il toro. C’erano famosi tori da monta come quello di Vignaglia che serviva fattorie e poderi di tutto il circondario; non occorrevano attrezzature. Un’altra sede di monta, sempre per tori e verri, era al Giardino. Un interessante documento amministrativo del 1933 ci dà l’elenco dei clienti, poderi e fattorie, che ricorrono al toro e al verro di Vignaglia per la monta delle proprie bestie. E’ una attività economicamente vantaggiosa essendo il ricavato di fine anno una cifra importante, pari a lire 10.619, in 73 clienti. Una attoratura costava lire 35,10, mentre l’avverratura veniva lire 15,05. Trascrivo i dati che ci interessano maggiormente:
Castratura Il bove, animale non fecondo, si otteneva con la castratura del vitellino. Si impediva lo sviluppo dei suoi organi sessuali, creando così un animale molto diverso dal toro. In sintesi l’operazione viene così descritta: "La castratura dei vitelli avveniva nella stalla quando ancora il vitellino pocciava. Infatti, mentre pocciava, gli stringevano i testicoli con una specie di tenaglia e la tenevano per alcuni minuti in modo che seccasse i testicolo e bloccasse la circolazione e i nervi”. - "Per la castratura il vitello cadeva a terra e gli spruzzavano un po' di vino con la bocca secondo le antiche abitudini. Operazione inutilissima e il veterinario Morelli gli diceva: Bevetelo voi! che è meglio". - "Alcuni contadini li castravano, ma tanti preferivano comprarli già bovi". Questa, che a prima vista appare un’operazione crudele, si rivelava necessaria per ottenere le robuste e miti bestie dal lavoro, e non era un’invenzione degli ultimi tempi, ma praticata probabilmente da millenni, quando l’uomo divenne allevatore. Nel medioevo la castratura non era diversa dall’intervento che si praticava fino a non molto tempo fa nelle nostre stalle, presentava solo alcune varianti che non dovevano far piacere al giovane animale. In quei lontani tempi era consigliato castrare il vitello di due anni, di maggio o giugno. Legato e gettato per terra gli si stringevano i testicoli con le mani e, usando una riga di legno come segno, si tagliava la borsa con un solo colpo netto di una scure infocata o, ancor meglio, con un coltello di ferro arrovito. Con ciò si tagliavano i testicoli e si “abbruciavano”, ossia si cauterizzavano vene e pelli, impedendo così il flusso sanguigno emorragico. La cicatrice prodotta si ungeva con cenere e con una non ben precisata “schiuma d’argento”. Un secondo metodo, non meno cruento, consisteva nel premere i testicoli, dopo averli legati, per farne uscire i nervi, e ciò impediva l’uscita di molto sangue, e legare “la fessura con peli” fino a far uscire tutto il sangue. Dopo tre giorni si consigliava: “con diligentia sono da ognere le ferire con pece liquida” e metterci cenere e un poco d’olio. Se avveniva che “imputridisca”, ossia vi entrasse infezione, si doveva bruciare e metterci la cenere. Il terzo metodo assomigliava a quello usato di recente, legando stretti i testicoli e schiacciandoli col “mazo” o con la scure. Al castrato si doveva dare poco bere e poco mangiare nei tre dì seguenti, e “gli si diano le tenere sommità degli arbori e li morvidi sterpi e le dolci cime delle herbe verdi”. Di tre anni sono da domare, secondo quell’antica memoria. Somare e cavalli La somara chiamata da noi "la ciuca" era un animale da soma e da traino. Animale indispensabile nei secoli passati cominciò a diminuire la sua presenza con l’arrivo di mezzi motorizzati e pochi poderi, ormai, ne tenevano un esemplare. Si ricordano nel 1940 soltanto quelle di Viareggio, Molinuzzo e Casalino per il segato, e quella di Attilio per il campo della parrocchia. Di grande utilità trasportava piccoli carichi al mulino, al mercato ecc. Trainava carretti per i più svariati servizi oltre a far girare ruote da segato e macine da frantoio. Di indole strana questi animali spesso creavano difficoltà quando s'impuntavano e ciò avveniva spesso. Nel dopoguerra rimasero soltanto quella del Bernardeschi e di Viareggio. Il cavallo, animale più nobile, serviva a padroni, fattori e sensali per i loro spostamenti, a sella o col calesse, ma fin dall'antichità era stato impiegato in tutti i lavori da soma e da traino compreso l'aratro. I famosi barrocciai avevano in prevalenza il cavallo come mezzo di locomozione. Al Mulino di Quercegrossa al tempo del Masti Angiolo si usava il cavallo per trasportare la farina. Dall'Arginano, il babbo di Ilva Buti andava al Castellare a governare il cavallo dei Bindi, e lo custodiva: "La cavalla doveva figliare, ma aveva lo spavento. Non stava ferma con le gambe di dietro. Memo stette 15 giorni a vegliare la cavalla che doveva figliare. Una volta salì in casa e proprio in quel momento nacque il puledro". Il mulo, quasi assente da noi era generato da una monta tra asino e cavalla, viceversa incrociando cavallo e asina si aveva il bardotto.
Maiali Da sempre il maiale o suino è stata la fonte di proteine per la famiglia contadina. Si ingrassavano uno o due magroni: uno al padrone e uno al contadino. Se la parte padronale non lo richiedeva il contadino pagava la metà del suo al padrone. Ogni contadino aveva una "troia o ciora" che a sua tempo figliava da otto a dodici maialini. Una parte veniva venduta e gli altri si ingrassavano. Cresciuti nei castri a "broda", ossia un pastone di semola con barbabietole, frutta, zucche, e altri prodotti, i maiali venivano lasciati liberi nei boschi per il ghiandio e nelle prode, guardati da garzoni e ragazzi di casa. La famosa cinta era allevata in alcuni poderi, ma la maggioranza sceglieva il maiale bianco che raggiungeva pesi considerevoli. La montatura delle troie era fatta in quelle fattorie che avevano il verro. "Le scrofe figliavano 8/12 maialini, 2 o 3 volte all'anno, con una gestazione di 3 mesi". A novembre iniziava la stagione dell'ammazzatura dei maiali e la loro lavorazione. Molti contadini ammazzavano personalmente il maiale, ma per la lavorazione alcuni chiamavano il più esperto norcino. A Quercia c'era Dante del Brogi, il bottegaio: ammazzava e lavorava i maiali. La castratura dei piccoli maialini era un'operazione fatta dal castrino o dal veterinario e lo stridio dei maialini si sentiva da lontano: "Per la castratura dei maiali il veterinario disse: "Tenete le troie lontane, eh". Ma quella volta non lo fecero, e il veterinario Morelli le vide arrivare di corsa minacciose. Per difendersi andò a prendere una pertica al pagliaio, ma lì c’era legato il cane che lo morse". - “Le ghiande per i maiali si raccoglievano e si mettevano in una fonte a purgare e poi al mulino a macinare per il pastone dei maiali”. - “Le bietole rosse da dare ai maiali venivano tagliate e bollite insieme al pastone di semola”. Un maiale di 140/150 kg, peso morto, bastava a una famiglia di cinque persone ricavandone 2 spalle, 2 prosciutti, 2 soppressate, buristo (cuffia e 3/4 pezzi), 2 rigatini, capocollo, 5/6 salami e 2/3 salamini, un centinaio di salciccioli freschi o conservati sottolio. Filetti d’arista, strutto per friggere. La grascia o sugna, parte della groppa, due rotoli per ungere ruote di carri, corna di bovi, scarpe ecc. - "Quando si ammazzava il maiale si doveva pagare la metà al padrone". - "Il maiale a Petroio l'ammazzava lo zio Gigi, poi veniva il Brogi a lavorarlo. Arrivava alle quattro della mattina, anche accompagnato da un aiutante e spesso lo lasciava lì a lavoro avviato e andava da altri a spezzare il maiale”. - "Un maiale bastava tutto l'anno". All'ammazzatura seguiva la sporcellata ed era un'occasione di festa: "Quando si faceva la sporcellata si invitavano tutti i lavoranti, più Brunetto e anche i viandanti".
In basso: una “figliata” di 13 maialini.
Pecore L'allevamento ovino, praticato da tutti i contadini di Quercegrossa, cominciò a venir meno nel secondo dopoguerra e in quel decennio del Cinquanta, salvo qualche eccezione, scomparve del tutto. Ogni podere ne possedeva mediamente una decina di capi e costituiva una piccola fonte di reddito con la lana, gli agnelli e formaggi come la ricotta e il marzolino. Sulla tavola del contadino appariva soltanto a Pasqua, quando un agnello a mezzo col padrone veniva macellato e arrostito o fatto in umido. Raramente si allevava qualche capra, e se avveniva era soprattutto per il latte, quando c'era un malato in casa o quando la mamma non aveva latte. Era molto digeribile. La pecora nostrana era di una razza non definibile, ma robusta e adatta ai nostri terreni; purtroppo dava lana di scarsa qualità. Durante la dominazione francese, ai primi dell'Ottocento, si tentò di importare montoni di razza merinos su consiglio di tecnici francesi; iniziativa alla quale aveva aderito anche Girolamo De Vecchi, proprietario del Mulino di Quercegrossa. Ma l'esperimento fallì perché richiese un aggravio di opera al mezzadro in quanto gli agnelli dovevano essere nutriti più a lungo con maggiori costi e con riduzione della produzione del formaggio. Il risultato fu che nel giro di un anno sparirono tutti i merinos. Ricordi istruttivi: - “I Fabiani alla Casanuova avevano 6/7 pecore. Cessano l'allevamento nel 1960/62”. - "Il formaggio, una del padrone e l'altra si vendeva". Giulia Carli: “Per la Festa di Petroio si ammazzava un agnello del peso di oltre 20 kg. Si allevavano al chiuso con i lupini ed avevano un bel pelo giallo e uno toccava al padrone. Mangiavano anche olivastri secchi con un po' di sale”. Masti Anna: "I Masti hanno tenuto le pecore fino in fondo. Gli si faceva la foglia di querce quando era appassita, non secca, sotto il capanno, e quando pioveva e non potevano uscire gli si dava un fastello di foglie. S'apriva le pecore anche la domenica, ma si usciva controvoglia: "Voi mangiate anche la domenica", ci diceva il mi' babbo. A lavare i panni si andava al tombolone del borro e prima della tosatura ci si lavavano anche le pecore. Il mi' zio entrava nel tombolone e lavava e strizzava la pelle delle pecore che poi scappavano gocciolando. Poi gli si legava le gambe davanti e di dietro a croce e si tosavano con le forbici da stoffa e qualche pizzicotto gli toccava; si tosavano e si rigiravano sul carro tenuto in piano da un palo in cima al tiro. Per mantenere il formaggio già secco si metteva nello ziro. Ci si metteva un po' d'olio e si girava: "Gliela date una girata a quel formaggio", ripetevano spesso gli uomini”. "A ogni agnello per abituarlo a mangiare si dava lupino e sale". Fabiani: "Quando Corradino Grassi lasciò la Casanuova gli erano rimaste 10 pecore e ce le diedero a noi". - "Le pecore di Damino del Losi venivano lavate al tombolo del ponte e poi le tosavano. - Facevano il formaggio, il marzolo e avevano la stalla delle pecore". Ilio Taddei a Gardina: "Verso aprile figliavano le pecore. Mungere 40/50 pecore era un lavoro". Si ricorda che i contadini spruzzavano aceto sul muso delle pecore per costringerle a leccarsi e leccare gli agnellini appena nati. I Pistolesi al Castello avevano 4/5 pecore: “Le tenevano volentieri per la lana; metà al padrone. Il Pagni ne aveva 10 e insieme si portavano a pascolare in Carpinaia e nell'inverno nei campi”. - "Anche il latte di vacca dopo che aveva figliato per l'emergenze di malattie o si comprava una capra quando la mamma non aveva latte". - “Per la potatura dei pioppi ogni anno veniva Gualtiero di Sornano. Si facevano fastellini non grossi e si davano agli agnelli con i lupini (tipo veccie o fave). Prima un si buttava via niente”. Pollame Il pollame in genere aveva la sua importanza nell'economia contadina. Riserva alimentare e piccola fonte di guadagno. Importante la produzione di uova, usate come mezzo di scambio con i treccoloni. Una quota dell'allevamento e delle uova andava al padrone, secondo il contratto che stabiliva anche il numero di capi da tenere. A Casagrande di Petroio: "Al padrone si davano 4 polli, 4 capponi, 2/3 galline e una serqua (dozzina) d'ova. Il capoccio: "Dategli i meglio eh, i più belli" e si portavano a Mucenni in fattoria". Entrando in un podere ti accorgevi subito della presenza del pollame detto di "bassa corte o da cortile" che vagava intorno casa e sull'aia beccando continuamente insetti e semini. A Quercegrossa, dietro il podere del Losi si confondeva quello dei tre contadini e qualche gallina dei pigionali, e per riconoscerli venivano macchiati con una striscia di vernice rossa o verde o gialla. C'erano branchi di nane querule, qua, qua, qua, grossi paperi, qualche faraona e anche tacchini enormi dai rossi bargigli, poco raccomandabili per la loro aggressività. Alla Chioccia, quando aveva i pulcini, veniva legata una zampa con un filo ad un robusto paletto per non farla allontanare; questo per evitare che i pulcini si perdessero. La massaia, di mattina o verso il tramonto, col grembio tenuto alzato e pieno di chicchi di granturco o altro, chiamava a raccolta nel pollaio: “Bibi, bibi”, e gettava manciate di chicchi alle galline ammucchiate intorno a lei nella foga del beccare. Il pollaio poteva essere uno strumento di guadagno per le giovani contadine se trovavano la massaia ben disposta come dai Carli: "Quando si voleva fare un vestito Argia ci diceva: "Mettete la chioccia. Poi si vendevano polli di 1/1,5 kg al treccolone e andavi da Annita, con i soldi incassati, a fare il vestito. La cesta la mettevi in diagonale e la chioccia entrava nella cesta. Si mandavano all'aperto a beccare e da grossi tornavano da soli nello stanzino in fondo alle scale dove dormivano in terra o nei bacchetti (bastoni). I Carli allevavano paperi, luci e nane, tutte di razza maschio e femmina; avevano avuto anche 20 nane e 20 papere che facevano l'ova, e le vendevano". Marcello: "A Viareggio avevano anche una trentina di tacchini che venivano guardati come si fa con i maiali: li portavo a pascolare al Pianolungo dove andavano anche le citte di Bellavista o della Casanova e Isanna del Sestini di Gaggiola, con le loro pecore e maiali. Dopo poco non c'era più niente da mangiare o da brucare al Pianolungo". La zia Anna, qualche mese prima delle feste di Natale, castrava i galletti che diventavano capponi. Molte donne si rivolgevano a lei e arrivavano con canestri pieni di giovani polli. Li pelava dietro, e con una lama da barba faceva il taglio da dove levava i fagioli. Ricuciva la ferita col filo e sopra vi metteva olio d'oliva, un pizzicotto di cenere e qualche piuma. Gli tagliava poi la cresta e i bargigli, medicandoli nello stesso modo. Piccioni Allevati allo stato libero, i piccioni avevano la loro cassettina o piccionaia dove riparavano la notte. Sestini Bruno: "Si racconta che il nonno Angiolo tenesse una coppia di piccioni che vendeva tutti i mesi per comprare il sale. Quando l'allevamento andava a male non si comprava il sale". Coniglioli Rallevato per la sua carne, “il conigliolo” finiva spesso sulla tavola del contadino nei giorni festivi, ma serviva anche come merce di scambio col treccolone. - "I Carli avevano la stanza dei coniglioli, la conigliolaia; ebbero anche trenta coniglioli". - "L'erba ai coniglioli la mattina per il fresco e le altre stagioni la sera anche dopo mangiato". Giornalmente le donne andavano a fare l'erba per coniglioli e tornavano a passo lento portandola in grosse ceste che tenevano in spalla con una fune. Palazzi Lorena: "La sera andavo a fare l'erba vicino alla Staggia; quante ceste d'erba avrò portato in quella salita Dio solo lo sa". Dai Masti: "Dal sodo sotto Mucenni, le ceste d'erba si portavano a Casagrande. Dina non aveva voglia e quanti schiaffi ha preso da Dante. Si faceva l'erba ai coniglioli al Campaccio in tre/quattro ragazze. S'aveva 15/16 anni: "Oh babbo venite a prendere l'erba dei coniglioli col carro". "Meglio, si viene a prendere l'erba dei coniglioli con le bestie". Concimatura "Lo stallatico (ossia lo sterco e la paglia del letto delle bestie) per concimare tutto, anche il grano, che spandevano col carro prima di coltrare e lo prendevano dalle concimaie, quello di casa, il bottino, veniva usato anche per gli ulivi. La pratica della concimazione con lo sterco fu poi vietata quando si diffusero i concimi chimici". Questo prodotto naturale, bovino, suino, ovino e anche umano, rivestì grande importanza in agricoltura prima dell’avvento dei concimi chimici del dopoguerra per la sua utilizzazione come concime di campi orti e piante. Erano questi resti organici nel passato definiti “sughi”, e si commerciavano come tutti prodotti perchè vi era sempre il podere che non ne aveva a sufficienza per la scarsità di animali nella stalla che non coprivano la richiesta, o per altri motivi. Il baco da seta La coltura del baco da seta è solo un vago ricordo, perché scomparve dalle nostre zone, come in tutta la provincia, nel secondo decennio del Novecento, con l'eccezione della famiglia Carli al podere del Paradiso di Petroio che continuò l'allevamento dei bachi fino agli anni 1936/37, come ben ricordano Giulio e Giulia Carli. Gli alberi del gelso, ossia i cosiddetti "mori" perchè originari della Morea, erano un tempo numerosi intorno ai poderi perchè fornivano le preziose foglie che alimentavano i bachi; oggi sono quasi del tutto scomparsi essendo diventati inutili a qualsiasi altro uso. L'ultimo a Quercegrossa lo si può notare a capo della strada del Doccio, là dove sorgeva la concimaia del Costanzi alla quale dava ombra e forniva a noi ragazzi saporite more bianche, il frutto delle piante, migliori rispetto ai mori neri. L'allevamento dei bachi era un'attività alla quale provvedevano prevalentemente donne e ragazzi dei Carli raccogliendo le foglie intorno casa, ma spingendosi anche a Sornano e all'Olmicino dove erano rimaste alcune piante di Gelso. Quando però i bachi erano grossi e famelici occorreva l'aiuto di sei, sette persone per far fronte alla voracità di questi animaletti. Quando poi questa attività non fu più redditizia i contadini furono i primi a chiedere di cessarla dato l'aggravio di lavoro che a loro comportava. Comunque i contadini osteggiarono sempre questa coltura che a loro rendeva poco o niente.
I bachi erano tenuti in ambienti al coperto, su un castello fatto di pali e cannicci. Venivano posti nel canniccio sopra una pagina di giornale. Qui, ben alimentati, crescevano, e al tempo giusto venivano "mandati al bosco". Si intendeva con ciò la disposizione sui piani dei cannicci di mazzi di scopi, ai cui rametti il baco si attaccava formando una ragnatela col filo da lui prodotto, entro la quale iniziava a formare il bozzolo. Velocemente se li attorcigliava intorno fino a chiudersi completamente nel detto bozzolo. Poi, prima che avvenisse la metamorfosi del bruco in farfalla, tutti i bozzoli venivano tolti dai graticci e messi in recipienti e balle per essere trasportati al centro di raccolta e inviati alla trattura della seta. Qui venivano immersi subito in acqua calda per fermare la trasformazione in farfalla, altrimenti, per uscire dal bozzolo, avrebbe danneggiato i fili di seta. Il contadino conservava in casa alcuni bozzoli e da questi uscivano le farfalle che si accoppiavano e deponevano le uova su un panno preparato dallo stesso contadino. Egli raccoglieva il panno delicatamente e lo conservava in un cassetto. Al tempo della schiusa delle uova, il baco si liberava e veniva deposto sul graticcio dando così il via ad un altro ciclo di produzione. La quantità dei bachi da allevare era dettato dall'esperienza. La coltura dei bachi da seta ebbe nel senese i suoi momenti di grazia nell'Ottocento. Diffusa anche l'industria per la trattura, gestita in condizioni di monopolio dall'aristocrazia agraria. Si ricorda un impianto a Sovicille di Girolamo De Vecchi, il padrone del Mulino e della Casanuova. |