Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO V - MINIERE
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  Introduzione
  Miniere di Lilliano (Storia)
   Miniere a Quercegrossa
  Il complesso minerario di Lilliano
  Minatori
  La Cooperativa minatori



L'ambiente

Nelle gallerie, un ambiente surreale illuminato soltanto dalla luce biancastra delle acetilene, si muovevano le luci e le ombre dei "cavini", tormentati dal caldo pesante della profondità, dall'umidità, dall'acqua o dalla polvere; molti giovani si toglievano la gravezza degli abiti lavorando completamente “gnudi”, col solo elmetto in testa. Solo i più anziani per pudore non si spogliavano. Per prendere coscienza e avere un minimo di percezione delle difficoltà ambientali con le quali convivevano i minatori, lascio la parola a loro stessi, che meglio di nessun altro possono descrivere adeguatamente quelle gallerie percorse avanti e indietro per tanti anni nelle diverse mansioni svolte. Dai ricordi di Silvano Socci: "Ma in galleria, e solo chi ha provato tale lavoro ne conosce gli enormi sacrifici, che si doveva sopportare! A 200 metri sotto terra l'aria è irrespirabile; solo con l'aiuto di forti aspiratori sulle bocche di entrata si riusciva a malapena a sopportare questo disagio. Le pareti grondavano acqua e il suolo era un acquitrino perenne , talvolta le rotaie erano completamente immerse tra acqua e fango. I pericoli erano sempre presenti: massi che si staccavano dalle pareti, carrelli che potevano travolgerti, scoppio del grisù, sempre presente. Quanti compagni di lavoro hanno perso la vita per questi incidenti. Si lavorava completamente nudi perché qualunque indumento dopo pochi minuti sarebbe stato da strizzare per la temperatura esistente nelle gallerie. Autentiche visioni infernali dantesche" . Nello Rossi parla non tanto di stanchezza fisica, che mai raggiungeva limiti estremi, ma del pericolo del gas e degli incendi, del caldo, delle polveri che si diffondevano nelle gallerie allo scoppio delle mine e che ti soffocavano, dell'umidità e dell'acqua che ti tormentava. Lapidarie ma significative invece le parole di Piero Rossi: "Il lavoro in miniera non si può spiegare" . Lui lo sa meglio di tutti essendo stato addetto all'abbattimento dei banchi di lignite; un minatore vero e autentico, quello col piccone e il maniscure. Dalla lettura di questi ricordi prendiamo lo spunto per approfondire gli argomenti accennati.
L'acqua

L'acqua filtrava dalle pareti e dal soffitto di alcune gallerie. Alla bocca 6 a tratti sembrava piovesse e a fianco dei binari c'era un fossetto di scorrimento che portava l’acqua nei pozzi che venivano svuotati dalla pompe. Erano pozzi armati perché la creta non li sfacesse e misuravano 4x4 metri. Realizzati dai muratori nei punti di raccolta delle acque, si riempivano senza sosta e gli addetti alle pompe tutti i giorni, persino la domenica, li dovevano svuotare. Il loro era un lavoro importante per evitare pericolosi allagamenti. Le grosse pompe in numero di tre o quattro all’interno delle gallerie, funzionavano a elettricità. Alla Bocca 8 galleria 17, ti cascavano le gocciole bollite addosso, si lavorava senza panni e spesso si camminava sull'acqua. "Solo a Monteo, lavoravano vestiti" .
Il gas e l'aria morta

miniere_34 Il mortale pericolo era rappresentato dal gas grisù. "Il gas si sviluppava dalla lignite, aria morta, se era umida c'è n'era più tanto" . Il nemico invisibile temuto in tutte le miniere e dal quale ti dovevi guardare le spalle perché colpiva a tradimento. Più la lignite era umida più sviluppava gas. Ma non solo: "Capitava anche che facendo le gallerie laterali a un certo punto dovevi smettere perché mancava l'aria. C'erano in miniera dei punti più caldi, altri senza aria e ci se n'accorgeva con lo spengersi dell'acetilene.

Lampada per il controllo della presenza del pericolos gas. La fiamma interna si alzava o abbassava in conseguenza.

C'era poi il gas e si avevano le lampade "apposta" per controllare la presenza. Quando lo sentiva la fiammella interna reagiva e si alzava un po' come il termometro. Allora si prendevano i tubi di aria compressa dall'esterno che facevano spostare il gas e portavano aria fresca"
. L'aria dall'esterno entrava forzata da un motore attraverso dei tubi metallici lungo il piano inclinato per poi arrivare alle dirette con tubi di gomma.


L'acetilene

miniere_35 Come già detto, solo l'argano funzionava con l'elettricità. All'interno delle gallerie prive di elettricità e quindi anche di illuminazione elettrica (per motivi di sicurezza ben comprensibili) ci si spostava con la fedele "acetilene" a carburo che ogni minatore possedeva e teneva sempre a portata di mano attaccata alle pareti armate o deposta semplicemente in terra. Il carburo miscelato con l'acqua produceva appunto un gas chiamato acetilene che infiammato dava una luce forte e biancastra. Quando si sentiva bene la presenza del grisù veniva consegnata ai minatori l'acetilene a pile che durava 8/10 ore e che era ricaricata giornalmente.

Un modello di acetilene a carburo per minatori

Il piccone

Lo strumento per eccellenza dei minatori insieme alla pala e al maniscure (altro tipo di piccone con una lama a taglio) era il piccone. Certo, il grosso del lavoro lo svolgevano le mine, ma il piccone rimase insostituibile fino alla fine. Per alleviare il lavoro ai minatori o forse per aumentare la produzione, fu fatto un tentativo di introdurre il martello pneumatico con i compressori, ma non trovò favorevole accoglienza e fu subito abbandonato.

Organizzazione del lavoro

Da quanto detto fino ad ora ci siamo già fatti un'idea di come era organizzato il lavoro all’interno della miniera al fine di scavare e trasportare il minerale all'esterno. Esistevano vere e proprie specializzazioni e ognuno aveva il suo incarico preciso, sia sotto che sopra. Sentiamo ancora da Nello come visse i suoi primi giorni di miniera. Lui sapeva fare il fabbro ma il posto era occupato: "Ce l'avevano di già il fabbro e mi dissero di andare dentro a spalare la lignite via via che avanzavano; ero con Scoiolo e Giangio di’ Carletti e per due giorni mentre loro scavavano col piccone io caricavo la lignite sui carrelli. Poi mi misero a mettere i binari per i carrelli: li prendevo fuori e facevo le linee. Tornato dal militare mi ripresero, facevo l'idraulico: accomodavo le pompe, mettevo i tubi per svuotare le gallerie d'acqua e andavo ad aiutare quelli che mettevano i binari" . In queste poche righe ci sono alcuni dei compiti che venivano svolti sia dentro che fuori della miniera. Ma vi sono da aggiungere altre mansioni che vedremo seguendo il cammino della lignite appena trasportata dai carrelli all'esterno della bocca.
Il corbellino

C'era però, prima di tutta la manovra di raccolta, un intervento di giovani operai che avevano il compito di recuperare scarti di lignite. Quando si avevano carichi misti di lignite e terra, per lo più scavi per la realizzazione delle dirette, i carrelli sia a Monteo che alla Bocca 6 erano rovesciati giù per un pendio e l’azienda cercava il recupero dei pezzi di lignite, frammisti alla terra. Questo lavoro era svolto da ragazzi e come vedremo non era affatto un buon lavoro. Piero Rossi ricorda: "Nel 1940 a 13 anni entrai in miniera a scegliere la lignite con i corbelli. C'erano 5/6 persone, tutti ragazzi. La collinetta col corbellino era alta 7/8 metri. In tutto 15 metri per andare fino in fondo al campo" . Se Piero ci dà sinteticamente la dimensione del lavoro, Silvano lo rende umano: "Arrivato alla età di 14 anni, fui assunto alle dipendenze della miniera. Era il 15 Settembre 1939 e questo fu il mio primo giorno di lavoro in miniera. Era pesante recuperare i pezzetti di lignite su e giù negli scarichi e portare i corbelli pieni nei piazzali, non era lavoro leggero per noi; ma si guadagnava bene, 10 lire e 70 al giorno erano compensi che facevano gola. I sacrifici erano tanti, portare i corbelli carichi di lignite su e giù per la discarica, sotto il sole cocente d'estate e il freddo pungente d'inverno, i detriti bruciavano per auto combustione così il terreno bolliva e un fumo denso e acre ci toglieva il respiro. D'inverno poi le mani si arrossavano e in continuo contatto con la terra si aprivano e talvolta sanguinavano. Andare a piedi altro tormento: al mattino i piedi gonfi e doloranti dai geloni mentre dopo il lavoro della giornata tornare a piedi costava sacrifici che solo chi li ha subiti può giudicare" .
Ambiente esterno

Nelle strutture esterne della miniera, oltre la stanza dei generatori, si trovava anche l’officina dove accanto a quattro forge sempre accese lavoravano fino a cinque fabbri. Vi si trovava tutta l'attrezzatura indispensabile alla realizzazione degli scambi dei binari, dei sostegni per le gallerie, ecc. C'era inoltre il magazzino dell'elettricista: il capo elettricista era un Rossi di Siena. Si trovavano poi gli uffici e altri edifici. In uno di questi si posteggiavano le biciclette ad attacchi alle pareti e per chi voleva poteva servire anche da spogliatoio. A Cignan Rosso vicino alla Bocca 6 si trovava la chiesa di Santa Barbara con le case dell’ingegnere, del padrone e quelle degli operai che venivano da lontano, i quali avevano a disposizione dei vagoni ferroviari che lì stazionavano in permanenza. Tutte le strade di comunicazione verso e fra le Bocche e le strutture di servizio erano mantenute dall'Azienda mineraria che provvedeva a brecciarle a sue spese. Un altro importante servizio, il telefono, si trovava soltanto alla Bocca 8 e ciò mise a rischio la vita stessa dei minatori feriti assistiti in ritardo.
La fornace

Non lontano da Cignan Rosso funzionava una fornace con due addetti. Doveva rifornire le miniere di mattoni, indispensabili per armare le volte, costruire muri e tanti altri usi. "Il Tilli di Fonterutoli e il Corsi delle Badesse facevano mattoni alla fornace della miniera con la creta che estraevano dalla miniera stessa. Si dice che uno di questi fornaciai portando a casa la sera 3/4 mattoni alla volta ci si sia fatto la casa" .
Minatori: orario, servizi e salario

Di quel lungo periodo durato un secolo in cui si ebbe l'escavazione della lignite è difficile, se non impossibile, calcolare il numero degli operai impiegati. Dopo il boom della Prima guerra mondiale seguì un calo nella produzione e di conseguenza nel personale, ma proprio dagli anni Trenta siamo in grado di fare nomi e cognomi dei minatori di Quercegrossa grazie ai ricordi personali e al registro parrocchiale di don Luigi Grandi. Un elenco incompleto ma soddisfacente. Vi lavorarono a più riprese o con continuità Giovanni Bandini, Ludovico Barucci, Guido Brogi, Angiolo e Spartaco Carletti, Gino e Luigi Carletti, Corrado Castagnini, Adamo Fabbrini, Lucesio Gennai, Giuseppe Giachini, Corrado e Alfio Marchetti, Giuseppe e Mario Merlotti, Settimio Mugnai (il Vespa), Ezio Nencioni, Ruggero e Aldo Riversi, Nello, Piero e Gino Rossi, Rutilio Rossi, Rino Sanleolini, Adriano e Silvano Socci, Giovanni e Guido Tognazzi, Alduina Torsoli, Gino Travagli, Vasco Volpini. Vi trovarono lavoro insomma, con qualche eccezione, tutte le famiglie di salariati e artigiani di Quercegrossa e qualche contadino come il Taddei che vi perì. "I contadini c'erano in tempo di guerra anche per l'esonero, poi tornarono ai campi" . Tra questi numerosi coloni prestati all’industria si ricordano un Taddei dei Bosconi, due contadini di Campalli e due del Canale. Gli altri operai venivano da posti più lontani, perfino da Abbadia S. Salvatore. Si ricorda un certo Primo Bagnoli con il fratello Osvaldo che furono a retta a Campo dei fiori da un certo Bargagli. Altri provenivano da Chiusdino e Montieri ma "i più fra Castellina e Poggibonsi" . Da Tregole arrivavano Valentino Fiaschi detto Scoiolo e i suoi amici, il Granchio e lo Scorpione. Adamo Fabbrini, prima di tornare a Quercegrossa nel 1943, veniva da Corsignano a piedi o in bicicletta passando dal Poggio di Vagliagli e tante volte la bici con i "cerchioni" perché non c'erano soldi per le gomme. Anche il Corti scendeva da Vagliagli a Quercegrossa a piedi, attraverso le scorciatoie dei campi. Di S. Leonino era Alfredo Salvini. Alcuni che abitavano lontano trovavano alloggio presso famiglie per poche lire, come Lucesio Gennai detto Luce che prima di andare a Passeggeri era ospite dei Rossi al Palazzaccio. La miniera però non garantiva la continuità dell'occupazione e spesso nel dopoguerra gli operai venivano licenziati con facilità; l’unico rifugio era l'agricoltura, soprattutto a fare le fosse per le viti e buttare giù boschi uniti a un po' di manovalanza in quelle pochissime occasioni che forniva l'edilizia. Piero Rossi rammenta: "Ogni tanto mi licenziavano ...quando c'era un po' di crisi... perchè c'era già un fratello e io ero il minore. Dopo il primo licenziamento sono stato a Passeggeri più che altro a fare la fossa col mio fratello Mario" . Spartaco Carletti: "Nel 1947 lavoravo alle miniere alla nuova Bocca della Cannicchia con Giovanni Bandini. Ci rimasi per due anni fino al 1949, poi mi licenziarono e andai a fare le fosse" . Alfio Marchetti in un periodo di disoccupazione era a fare il manovale ai Poggioni col Castagnini. Anche Silvano Socci partecipò allo scasso per il podere dei Poggioni, "ma dopo il passaggio del fronte, la miniera fu riaperta. Ormai il lavoro era solo in miniera e lì andai"
Orario

L'orario della miniera era strutturato in tre turni per i gli operai interni e due turni per quelli esterni. Ogni turno durava otto ore. Un mese comprendeva 24 giorni di lavoro. Il primo turno iniziava alle 7 della mattina fino alle 15 del pomeriggio, il secondo pomeridiano dalle 15 alle 23 e il terzo di notte dalle 23 alle 7 della mattina. L'orario di lavoro veniva scrupolosamente osservato e ogni prestazione straordinaria veniva puntualmente pagata. Si diceva che il lavoro della miniera fosse invidiato dai contadini, non per i soldi ma per l'orario a turni che lasciava ai minatori tanto tempo libero. Da Quercegrossa per il turno della mattina partivano in bicicletta verso le 6,15, ma quando c'era la neve (e capitava spesso) andavano a piedi. Nel 1956 nevicò per un mese intero. Il giorno nevicava e la notte ghiacciava. Si aspettavano da Damino nella stalla, c'erano il Gatto, Luce, il Fabbrini, il Giachini, il poro Vespa, i Socci, Vico, il Tognazzi, il Coccheri, il Riversi Aldo, Aldo Marchetti, ecc.. Una bella squadra. Quando la strada lo consentiva il Gattino di’ Rossi (Piero) imboccava la strada delle girate con la sua bicicletta e con le mani nella tasca del pastrano la pilotava fino al ponte del Mulino. E non era il solo a fare la discesa senza mani. Dal Mulino prendevano la strada sterrata delle Quattro Vie e poi verso il Giardino. Superato il ponte, in fondo alla ripida discesa giravano a sinistra e poco dopo giungevano a Monteo. Quando andavano a piedi passavano da Topina. Dai piani prima di Monteo prendevano la Maremmana che li portava alle altre bocche. Era detta "la Maremmana" questa strada di collegamento tra i campi; l'origine del nome è sconosciuto ma senz’altro è collegato alla transumanza delle greggi. Entrati nel magazzino adibito a deposito, posteggiavano la bicicletta e ogni minatore spostava il proprio medaglione numerato da una tavola all'altra o lo rigirava per segnalare la sua presenza al lavoro. Col sistema dei medaglioni numerati controllavano anche la produzione dei singoli operai: ognuno di loro aveva un numero e lo attaccava al carrello che veniva poi pesato all'esterno. Naturalmente c'erano dei caporali che controllavano il normale svolgimento del lavoro e tutte le operazioni e servizi ad esso collegato. Si ricordano il Saracini e anche Rutilio Rossi di Quercegrossa. Il suono della sirena esterna avvertiva dell’inizio e della fine di ogni turno. "Alle sette si doveva imboccare il piano inclinato a piedi, si scendeva e si faceva una veloce colazione con una fetta di pane" . Prima di colazione si cambiavano: "I vestiti si portavano in miniera e ci si svestiva o si attaccavano alle armature, secondo i posti dov'eri a lavorare. Quando andavi a lavorare avevi vestiti con le toppe, a casa vestiti senza toppe". Da sottolineare il fatto che la Direzione passava un paio di scarpe all'anno. Alle 11 una pausa più lunga per il pranzo: "Si mangiava una mezzora e si mangiava nella pentolina col tegamino la pasta e il secondo". "Si mangiava dall'11 alle 11,30, mezzora di pausa" . Nel periodo bellico della Seconda guerra mondiale quando era in vigore la tessera venne riconosciuto ai minatori il supplemento di pane e minestra. Un camioncino portava le grosse pentole chiuse che venivano trasferite all’interno delle gallerie con i carrelli e qui distribuite ai minatori. “Vicino alle tre, una mezz'ora prima, alle due e mezzo ma a volte anche prima, si smetteva di lavorare, si sistemava l'ambiente di lavoro e ci si cambiava” . Nelle otto ore quindi era compreso il cambiarsi e il mangiare “che si portava nel tascapane insieme alle bottiglie dell'acqua e del vino" . Lavorando in condizioni di umidità o di calore vicino ai 40 gradi, grande era la sudorazione e occorrevano litri d'acqua per quelli dentro le gallerie. Per sopperire a questo vitale bisogno si provvedeva con i carrelli: "L'acqua veniva portata con barilotti messi sopra i carrelli e da qui attingevano i minatori" . Dopo aver sistemato l’ambiente di lavoro e riposto gli attrezzi, "appena finito ci si lavava in quei fossetti e fontanelle piene d'acqua" che certamente non mancavano. I servizi igienici non c'erano, c'era soltanto lo spogliatoio dove venivano messe le biciclette e tutti i posti erano buoni in caso di necessità “corporali”. Alle 15 entrava il secondo turno e gli altri prendevano la via di casa. I "cavini" salivano a Quercegrossa in bicicletta o a piedi dalle girate. C'era sempre qualche donna che avvertiva: “Arrivano i cavini!” . I vagliaglini si fermavano chiassosi in bottega e le massaie di Quercia correvano tutte svelte a preparare la cena “come ci volesse del tempo a fare il brodo d'erbe o la minestra di pane o la farinata o la pappa” . Quasi tutti impiegavano utilmente quelle ore di libertà soprattutto prestando aiuto nei vicini poderi in cambio di prodotti agricoli. Gosto Bruttini ricorda: "Minatori e operai la sera venivano a prendere poponi, cavoli o altro in cambio di qualche ora di lavoro; erano il Tognazzi, il Bandini, Vico, il Carletti, il Rossi Nello (Gatto)" . Alfio di Marchetti ebbe l'incidente sul carro in un pomeriggio dopo aver lavorato nel turno di mattina. Il Gatto invece ricorda così anche negli ultimi tempi della Cooperativa: "Dopo l'orario di miniera s'aveva un orto in Val di Lama e si coltivava. S'aveva un maiale dal Losi. S’andava dai contadini in tribbiatura. Sono stato anche quindici giorni senza tornare a casa. Ti davano da mangiare e ti riempivano il tegamino per il turno del giorno dopo. Si andava a rimettere insieme le manne, oppure a segare. Col Piuma s'andava sempre di notte alle Quattro Vie e si mangiava. La notte Veniva il Finetti col camion si caricava e si faceva la mucchia nell'aia" . Era questa la storia di tutti. La sera poi prima di cena ci si rilavava a casa nel catino nel gabinetto, oppure nell'acquaio. A “stagion bona” d'estate il bagno completo nel fiume; a casa, di sabato, nelle altre stagioni. Il dopocena, tutti o quasi tutti alla bottega o al circolo.
Salario

Mentre sappiamo che i salariati agricoli scambiavano le loro prestazioni con prodotti alimentari, che al tirare delle somme ben poche lire entravano nelle loro tasche e che tra i contadini notoriamente non circolava denaro, il minatore era fra i pochi operai a disporre di denaro contante. Non solo, ma nel dopoguerra la Commissione interna vigilava anche sul puntuale e corretto pagamento degli stipendi e garantiva così una totale giustizia. Certamente, a questa premessa segue immediata la domanda se il salario possedesse un potere di acquisto tale da consentire un discreto livello di vita oppure se fosse paragonabile a quello dei poveri operai agricoli. Non avendo dati attendibili, per i primi decenni del Novecento ci viene in aiuto il parroco di Tregole che riflette in un questionario sulle condizioni dei suoi popolani nell'anno 1910: "Non vi sono industrie, c'è soltanto degli operai che vanno alle miniere di Liliano distanti diversi chilometri e la loro condizione non è brillante, appena appena riescono a far pari". In altro punto ribadisce che "hanno poca possibilità di farle dire (le Messe) essendo la maggior parte poveri" . Il quadro presentato non è certamente incoraggiante e anche i ricordi personali dei minatori rammentano quegli anni per la diffusa povertà che assomigliava tanto alla miseria. Ma per fare dei conti più aderenti alla realtà ci dobbiamo riferire agli anni immediatamente precedenti la guerra, al 1938/39 dei quali abbiamo dati, e al periodo post-guerra con una documentazione indiscutibile delle buste paga dei minatori Adriano e Silvano Socci. Paga giornaliera prima della Seconda guerra: adulti 15,70 lire, ragazzi 10,70 lire per turni di 8 ore per 24 giorni. Se diamo credito alle memorie sappiamo che la paga era "ottima". Passiamo ora al dopoguerra e vediamo che nel settembre 1947 (dati della busta paga nella foto) Adriano Socci godeva di una paga giornaliera di 316,80 lire per 23 giorni. A queste si sommavano 10.097 lire di contingenza, tre ferie pagate per 2.267,40 lire più una indennità di "Caropane" di 276 lire. Il tutto faceva un imponibile di 19.226 lire. Tolte le ritenute rimanevano in tasca ad Adriano 18.822 lire. Ma quel mese riscosse solo 8.822 a motivo di un acconto di 10.000 lire ottenuto dall'Azienda. Esattamente due anni più tardi, nel settembre 1949, il figlio Silvano con una paga giornaliera leggermente inferiore, di 286,80 lire, considerato tutto riscosse 17.730 lire per 18 giorni di lavoro. Aveva un’indennità "Sottosuolo" di 1.224 lire. Un attento esame delle buste paga di Silvano ci mette di fronte al problema di quegli anni: difficilmente la paga era intera. Mancava sempre, per cause diverse e quasi del tutto dipendenti dall'Amministrazione, qualche giornata di lavoro che riduceva anche sensibilmente l’importo totale da riscuotere. Alle 17.730 lire riscosse nel settembre 1949 fanno riscontro le 22.600 del mese successivo e le 23.950 nel novembre del 1950. Ma ecco che a febbraio 1951 si scende a 14.250 lire riscosse per soli 15 giorni di lavoro. Facendo un confronto con gli stipendi e i prezzi di quegli anni vediamo che la famiglia del minatore poteva contare su un reddito sufficiente per mangiare e vivere decorosamente nella poco esigente società del tempo a patto che potesse contare sulla regolarità del salario e non sopraggiungessero costosi imprevisti.



Le tragedie della miniera

Come tutte le miniere anche la nostra ha preteso il suo tributo di sangue. Le condizioni di lavoro e l'escavazione del minerale producevano situazioni di altissimo rischio che purtroppo in diverse circostanze si trasformarono in disgrazie mortali: vere e proprie tragedie. Si ricordano a memoria d'uomo numerosi incidenti dei quali una quindicina mortali e fra questi il grande disastro del 1952 che causò la morte di due minatori; occorsero due mesi per il recupero delle loro salme dalle gallerie allagate. Ma accanto a questi lutti ci sono incidenti minori più o meno gravi che hanno causato malattie e mutilazioni a chi li ha subiti. Ad esempio di come funzionavano le cose basti pensare a quello accaduto a Silvano Socci nel 1953. L'infortunio avvenuto di notte nel terzo turno mentre lavorava con una sega circolare lo ha privato dell'uso di una mano, ma poteva andar peggio a causa della mancanza di assistenza e del totale abbandono degli operai nelle ore notturne. Faceva dei picchetti di legno. Uno gli scivolò e... "fu terribile. La mano completamente tranciata con i diti per terra, un dolore insopportabile, il sangue che usciva a fiotti. Era febbraio, il 3 del mese, un freddo intenso, e forse questo mi salvò da una pericolosa emorragia perché si formò un enorme coagulo di sangue raggrumato dal gelo della notte. L'auto ambulanza arrivò dopo 4 ore. Appena sdraiato sul lettuccio della ambulanza persi i sensi, rinvenni per strada. Passammo da Quercegrossa senza fermarsi. Erano le 2 di notte, un operaio era dovuto andare a Castellina Scalo per telefonare alla Misericordia (il telefono della miniera era chiuso di notte) . Arrivai all'ospedale la mattina alle 6. Verso le 9 mi portarono in sala operatoria, ritornai in corsia, mi dissero, alle 13. La funzionalità della mano era ormai compromessa per 85%. Dopo venti giorni tornai a casa, poi mi ricoverarono a Firenze al Centro di chirurgia riabilitativa. Non ci fu niente da fare, la mano era persa" . Un racconto davvero impressionante ma che è stato raccontato. Minor fortuna ebbe quel giovane di Siena, un ex barista che morì nel suo primo giorno di lavoro. "Lo fece morire il caporale che non lo istruì per niente. Gli disse: “Vai su per quella dritta da Curvale e aiutalo a spalare la lignite”. Questo giovane s'incammina lungo la galleria. Arriva un carrello sulle rotaie, lui si scansa e si appoggia alla parete, ma non si abbassa come doveva e il carrello con la parte superiore lo colpì alla testa" . Morì sul colpo. Si chiamava Gennai. Sono episodi che mettono tristezza e rabbia. Ancora, un certo Piombo di Monteriggioni era in piedi sul carrello, ci fu un deragliamento e lui morì. Capitò anche che i carrelli tirati dall'argano si sganciassero diventando proiettili mortali. Molti si salvarono per puro miracolo. Ma la principale causa di infortunio e di morte era il fuoco che d’improvviso divampava nelle gallerie. L'incendio del gas era talmente repentino che non riuscivi a evitare le fiamme. Una volta si bruciò il Tognazzi detto Fulmine che fece davvero il fulmine per salvarsi gettandosi di sotto "quanto di qui in giù" . Si ruppe una gamba "ma la vita è salva" , come ebbe a dire. Poi il Coccheri, un certo Gennai di Vagliagli, tutti ustionati, "ma ne morirono sette o otto col gas che improvvisamente si incendiava" . Oltre agli incidenti e infortuni diversi e manifesti la miniera come tutti sanno produce tante malattie professionali, difficilmente diagnosticabili ma di chiara origine: Adriano Socci si ammalò di asma in miniera e andò in pensione. Accanto a lui tanti altri che hanno visto minata e ridotta la loro salute. Ma fra tutti gli incidenti della miniera di Lilliano il più impressionate e che ebbe vasta rinomanza anche nella stampa si ebbe nel 1952. Fu un episodio doloroso nella storia della miniera a motivo della difficoltà nel recupero delle salme dei due muratori, che rimasero nel fango per circa due mesi. Apprensione, pietà, sgomento, commozione e una generale e sentita partecipazione si susseguirono tra il giorno della disgrazia e quello dei funerali delle due vittime nella chiesa di Quercegrossa. Le cause della disgrazia apparvero subito evidenti: "Erano andati a forare dove c'era una vecchia galleria antica, piena d'acqua" , sono le chiare parole del minatore che spiegano appieno cosa accadde. Una galleria dimenticata da forse mezzo secolo, scomparsa dalle carte e che Settimio Mugnai e Ademo Taddei non potevano conoscere. Sembra che avessero cercato scampo su una montante, ma la montagna d'acqua allagò completamente ogni cunicolo negando loro qualsiasi possibilità di fuga. Quella fu la loro tomba. Lavoravano nel turno di notte, in solitario: "Il terzo turno di notte era a riparazione, dove ci mori il poro Vespa" . Ma se per caso l'incidente fosse avvenuto durante il turno normale della mattina il tributo di vite umane sarebbe stato tragico. La sciagura ebbe vasta eco anche nella stampa e l'articolo pubblicato dalla Nazione del 22 gennaio 1952 è un documento di grande interesse che ci riferisce con tanti particolari che cosa realmente avvenne. Lo riportiamo per intero: "Gravissima sciagura nella miniera di Lilliano - Un fulmineo allagamento sommerge due minatori in un pozzo - Il racconto di un sopravvissuto che ha visto crollare la parete della sua galleria sotto un impressionante getto liquido - Impossibile recuperare le salme. Siena, 21 - (G.V.) Una gravissima sciagura si è verificata verso le 16,15 nella miniera della S. A. Ligniti e derivati di Lilliano. A quell'ora tre operai del turno di notte stavano attendendo ai lavori di manutenzione delle gallerie prima di procedere alla loro armatura. Due degli operai e precisamente il quarantasettenne Settimio Mugnai da Quercegrossa e tale Ademo Taddei di 41 anni da Monteriggioni (podere Gardinina) si trovavano nell'ultima galleria, a circa 112 metri dal livello del suolo: il terzo, il quarantenne Vitto Vitti da Lilliano, stava lavorando nella galleria immediatamente superiore e cioè 30 metri sopra gli altri due. All'improvviso il Vitti, come successivamente ha narrato, ha visto apparire sulla parete un'infiltrazione di acqua. Subito dopo il fianco della galleria è crollato rovesciandogli addosso un pauroso getto liquido. In pochi istanti l'operaio si è trovato sommerso fino alla vita: ha gridato aiuto ed è fuggito verso la galleria centrale, chiamata comunemente "discenderia", quella attraverso la quale si torna alla superficie. L'acqua con irruenza sempre crescente è precipitata nella galleria sottostante dove si trovavano il Mugnai e il Taddei, che si sono visti così precludere ogni via di salvezza. Appena il Vitti, stremato di forze è comparso alla superficie, immediatamente si è provveduto a chiamare i vigili del fuoco di Siena, che sono partiti col loro automezzo più adatto. Purtroppo ogni soccorso è stato inutile. I motori delle autopompe non sono stati sufficienti a prosciugare la galleria allagata. Il livello dell'acqua si trova al momento in cui telefoniamo a circa 80 metri dall'imbocco della "discenderia" e non accenna, per ora, né a salire né a scendere. Il prosciugamento è reso ancor più problematico dal fatto che il motore che normalmente aziona la pompa di sicurezza trovasi anch'esso sommerso: perfino l’uscita di sicurezza è rimasta bloccata dall'acqua. Si stanno approntando tutti i mezzi per recuperare i due cadaveri. Si spera che il rinvenimento possa avvenire al più presto, sempreché le armature non abbiano ceduto rendendo ancora più difficile la penosa opera di recupero delle salme. Verso le 22 alcuni operai hanno effettuato un nuovo sopralluogo, riuscendo quasi a portarsi al livello dell'acqua. L'aria a quella profondità è irrespirabile; ma essi hanno assicurato che l'acqua non accenna a salire. Sul posto, subito dopo la sciagura, si sono recati anche i carabinieri di Castellina in Chianti. Molti congiunti degli operai delle miniere, alla notizia dell'incidente, si sono recati sul posto per attingere notizie. Il Mugnai lascia la moglie incinta di sette mesi, e una figlia di 18 anni; il Taddei la moglie e un bambino di 12 anni". Dall'articolo appare chiaro che non ci sono più speranze di ritrovare in vita i due minatori stante il completo allagamento delle gallerie e parte del piano inclinato. Comincia la trepidante attesa. Il giorno successivo, il 23 gennaio, appariva il secondo articolo sulla Nazione: parla di "Febbrili ma inutili ricerche a Lilliano" e ci dà alcune informazioni sulle attività dei soccorsi mentre ci si interroga sulle cause che hanno provocato il crollo. "I cadaveri dei due minatori ancora in fondo alla galleria allagata. La tremenda attesa dei parenti, mentre la pompa si rivela incapace di vuotare rapidamente la grande massa d'acqua che stagna nei pozzi. Siena, 22 - (N. 1). Fin dalle prime luci dell'alba di stamani, dopo una interminabile veglia notturna, tecnici e operai sono scesi continuamente nella galleria principale delle miniere di lignite di Lilliano che penetra nel terreno con una pendenza del 72% per 160 metri nel tentativo di far funzionare la pompa per il prosciugamento dell'enorme massa d'acqua che ancora tiene prigionieri i cadaveri dei due operai Taddei e Mugnai. Il lavoro si presenta quanto mai difficile, occorre anzitutto, visto che non è possibile trovare una pompa che possa funzionare con un tubo di pescaggio di oltre 80 metri, portarne una a mezzo di carrelli, lungo la "discenderia", il più vicino possibile al livello dell'acqua. E' stato appunto stamani verso le 10,30 che la speranza di poter recuperare in breve tempo le salme dei due poveri operai si è riaccesa: la pompa di prosciugamento, piazzata lungo la galleria centrale, funzionava. Ma la speranza ha avuto vita breve poiché, dopo che il livello delle acque era sceso appena di un metro, la macchina si è fermata. Si è parlato di un guasto nel tubo di pescaggio, e il lavoro di riparazione è iniziato a ritmo febbrile. L'azione della pompa poi diventava più difficile per il fatto che l'acqua era già mista ad argille: più che di liquido si poteva parlare di fanghiglia. Ma gli uomini non hanno disarmato; hanno lottato disperatamente contro i guasti, contro i pericoli della miniera che tiene racchiusi i due loro compagni di lavoro. Nel buio profondo della galleria, dalla superficie si vedono muovere solo tenue luci: sono le lampade di coloro che chiedono alla pompa di fare l'impossibile. A 80 metri dal livello del suolo anche la respirazione è difficoltosa, ora che l'uscita di sicurezza è bloccata dalle acque. Si provvede a immettere in continuazione aria dall'esterno. Il pericolo che l'acqua faccia crollare parti delle gallerie inondate è sempre una grave preoccupazione di tutti. Alcuni segni farebbero pensare che il terreno si trovi in una fase di assestamento: si parla infatti di strani anche se per ora modesti avvallamenti che sono stati notati alla superficie. Ma come si può sapere cosa è successo a 110 metri di profondità, dopo che la violenza delle acque ha travolto i due poveri operai? Solo quando i lavori di prosciugamento e di recupero saranno terminati, allora si potrà stabilire quali siano le cause del disastro: e si chiarirà l'origine della formidabile polla d'acqua. Durante i lavori dei giorni e dei mesi scorsi (questa parte di miniera è in funzione solo da marzo scorso) nulla si era notato minimamente che facesse presagire la presenza di un deposito così cospicuo di acqua. Anche nei giorni scorsi, come di consueto, erano state fatte esplodere delle mine. Esse probabilmente avevano indebolito la resistenza delle pareti della galleria. Stasera gli sforzi per rimettere in funzione la pompa sono frattanto giunti a buon punto. Attorno all'entrata della discenderia sostano in continuazione minatori, operai, coloni delle vicinanze e anche parenti delle vittime. E' un'attesa tremenda: tutti sperano che il pietoso compito di recupero delle salme sia compiuto al più presto. Nella mattinata si sono recati sul posto il prefetto di Siena, il questore, il vice questore della provincia ed il sindaco di Castellina in Chianti". Una settimana dopo non sono stati fatti progressi, anzi alcune frane nel piano inclinato compromettono gravemente le operazioni di recupero delle salme e non è possibile stabilire quando ciò avverrà. Alla fine del mese la Camera del Lavoro di Siena, in concomitanza di alcuni tragici incidenti sul lavoro avvenuti nel senese a Piancastagnaio, a Lilliano e alle fornaci di Bettolle, apriva delle inchieste particolari per conoscere le cause degli incidenti il cui risultato riferiva in una conferenza stampa il 31 gennaio. Su Lilliano tanto è stato detto e non è il caso di soffermarsi ma possiamo aggiungere che i dirigenti della C. d. L. sottolinearono il fatto che per legge non era consentito far lavorare un minatore isolato (il Vitti, lo scampato) e che nei giorni precedenti la disgrazia non si era mai pensato a saggiare il terreno, pur essendo a conoscenza che nelle vicinanze si trovava una miniera abbandonata. Intanto ha inizio la gara di solidarietà verso le famiglie colpite dal grave lutto. Il Sindaco, accompagnato da alcuni membri della Giunta e del Consiglio comunale di Monteriggioni, portò a casa Taddei le condoglianze dell'Amministrazione e della popolazione e furono consegnate alla vedova lire 20.000 quale contributo del Comune stesso. L'altro disperso apparteneva al Comune di Castelnuovo. Anche tra gli operai fu aperta successivamente una colletta per il sostegno delle due famiglie rimaste senza entrate. Passarono le settimane tra speranze e delusioni e l'attesa si prolungò per due mesi interi. Finalmente il 17 marzo la prima salma veniva recuperata. Il corpo che appariva completamente affondato nella melma era irriconoscibile e, chiuso in un sacco di gomma, venne depositato nella cappella del cimitero di Lilliano a disposizione del procuratore della Repubblica per l’identificazione. Si trattava di Settimio Mugnai. Il corpo del Taddei venne recuperato la notte stessa dalle squadre di turno che avevano intensificato la ricerca. Entrambi i corpi furono trasportati dalla Misericordia di Siena nel cimitero di S. Leonino. Immediatamente sparsasi la notizia del ritrovamento, tanto attesa da due mesi, una moltitudine di gente si riversò nel piccolo cimitero di S. Leonino. In preghiera e in un religioso silenzio attesero che le salme dei poveri minatori piantonate dai carabinieri di Castellina ricevessero il benestare al seppellimento da parte dell'autorità giudiziaria. Dopo le constatazioni di rito, in mattinata giunse il nulla osta e nel pomeriggio due fratelli della Misericordia di Siena coadiuvati da persone del posto lavarono dal fango e rivestirono le due salme e le deposero nelle casse. A quel punto la gran massa di persone che attendeva fu fatta sfilare alla loro presenza: "Il dolore era visibile in quelle facce e gli occhi apparivano bagnati" . Il dolore dei familiari rese la scena ancor più tragica. Il sindaco di Castellina e il parroco di S. Leonino tentarono di portare loro un po' di conforto e coraggio. Il giorno successivo si svolsero i solenni funerali accompagnati da un’enorme folla commossa. Don Ottorino Bucalossi, il nostro parroco, con Fabio Losi e altri sacrestani si recò al cimitero di S. Leonino da dove si mosse il mesto corteo funebre che, passando dal Poderino e dal Mulino, fece il suo ingresso nella chiesa di Quercegrossa. Ricordo la gran massa di uomini che riempiva la strada all'esterno della chiesa. Fu celebrata la messa funebre per le due vittime e dopo, col carro funebre, furono trasportati al cimitero del Laterino di Siena e ivi tumulati. Don Ottorino registrò la morte di Settimio Mugnai il giorno 21 gennaio, ore 14,30: "Morto per asfissia in miniera. Per una grave sciagura nella miniera di lignite di Lilliano, invasa da una massa di acqua e di acido carbonico in un quarto d'ora" . Si metteva fine a questa tragica storia che aveva colpito dolorosamente negli affetti due famiglie, intorno alle quali si era stretta la solidarietà e il cordoglio di tutto un popolo.




Le lotte in miniera

In questo capitolo sulle miniere, dove abbiamo cercato con la massima scrupolosità di dare un’informazione più accurata possibile, non poteva mancare un accenno a grandi linee delle lotte dei minatori che si svilupparono in tempi diversi ma che sempre tesero al miglioramento delle condizioni di un lavoro che per la sua natura era ed è sempre stato il più ingrato fra tutte le attività umane. La ribellione nelle miniere si può dire sia nata con le miniere stesse. Le dure condizioni di vita e di lavoro dei minatori nell'Ottocento crearono pericolose tensioni sociali che sfociarono nelle grandi e famose rivolte dei minatori inglesi. In Italia, all’inizio del Novecento, si hanno i primi timidi tentativi di organizzarsi sindacalmente per controbattere lo strapotere degli industriali e ottenere salari minimi per vivere, uniti a giuste normative di previdenza. Infatti, in quegli anni l'assistenza sanitaria era quasi inesistente; gli infortunati e gli invalidi per lavoro venivano ripagati con poche lire e la malattia significava la perdita di quasi tutto il salario. Nei casi di infortunio mortale veniva fatta una colletta tra i minatori per la famiglia che rimaneva senza sostentamento. Ma le lotte si limitavano alle miniere più grandi e non uscivano dal proprio ristretto ambito locale. Con la Grande guerra poi ogni lotta cessò. Il primo dopoguerra portò il caroviveri e la disoccupazione e le lotte divamparono violente. Una data importante è il 1919, quando i minatori per la prima volta si associarono e si riunirono in convegno a Grosseto. C'erano i grossetani, i senesi e gli umbri. Furono rivendicati e ottenuti miglioramenti sanitari, di orario e di salario, ma la richiesta di formare una lega venne decisamente respinta dal patronato. Si diede il via, allora, ad un grande sciopero a oltranza che in certe miniere durò quattro mesi. Alla fine le grandi Società capitolarono. Ma proprio quando sembrava di aver raggiunto un’organizzazione capace di controbattere la controparte ecco che l'avvento del regime fascista mise a tacere ogni voce e per 25 anni circa il silenzio cadde sul movimento operaio: il Regime emanò disposizioni e leggi che regolamentavano tutto. Con la nascita della Repubblica il movimento sindacale riprese lena e nelle miniere gli operai si scontrarono con il potere delle grandi società che contrastarono con tutti i mezzi la lotta sindacale. Ai frequenti scioperi nazionali di natura economica e normativa si accompagnarono quelli proclamati dai sindacati locali contro i licenziamenti e gli incidenti nelle miniere. Attraverso le Commissioni interne il sindacato controllava la quasi totalità degli operai e la lotta assunse anche connotati politici; quella nelle miniere si affiancò alla protesta di tutti i settori produttivi della società italiana in preda alla lotta ideologica. A questo stato di cose non fecero eccezione i minatori di Lilliano che dal dopoguerra e per tutta la gestione del Serafin furono solidali con tutte le iniziative prese dal sindacato nazionale di categoria. La successiva costituzione della Cooperativa degli operai fece cadere ogni motivo di rivendicazione.
La festa di Santa Barbara

E' noto a tutti che S. Barbara è la protettrice dei minatori, degli artificieri, dei vigili del fuoco e di tutti coloro che maneggiano esplosivi e hanno a che fare col fuoco. Questa attribuzione alla Santa, vissuta in epoca romana, nasce dall'episodio dell’incendio che si scatenò nel carcere in cui lei era rinchiusa e dal quale si salvò passando indenne tra le fiamme. Un fulmine colpì poi il padre, nemico dei cristiani, che l'aveva decapitata. S. Barbara è il simbolo di coloro che affrontano il pericolo con serenità e coraggio. Il 4 dicembre dunque cadeva la festa della patrona e la domenica successiva veniva festeggiava come si doveva. A Lilliano c'era grande fermento e i minatori partecipavano alla S. Messa nella cappellina di S. Barbara alla presenza del proprietario Sig. Serafin e dell’Ingegnere. Faceva seguito a questa tradizionale cerimonia il pranzo "tutti insieme" a Castellina in Chianti: un anno dal Mariani e l'altro dallo Stiaccini; il tutto in grande allegria e familiarità accompagnate da canti e stornelli bagnati con generosi bicchieri di vino. Il proprietario per quella giornata metteva a disposizione un camion attrezzato con panche che portava i minatori prima a Castellina e poi "si andava a Vagliagli, a Fonterutoli, a Quercia e ci si fermava a bere alle case dei minatori" . Tutti possiamo immaginare come finiva la giornata.
Varie

Giunti alla fine del capitolo non posso fare a meno di riportare alcuni episodi che per la loro singolarità e piacevolezza sono rimasti impressi nelle memorie nei minatori e riproposti continuamente nelle serate “di veglia”.

Il Focardi e la tessera

Nel tempo di guerra, quando c'era la tessera e precise disposizioni in merito, il Focardi delle Badesse, un minatore fascista ligio alle regole, si guardava bene di infrangerle. All'ora di pranzo gli imbandivano apposta sopra una tovaglia della roba che proveniva dal mercato nero. Lui sbirciava sottocchi e, con fare polemico e accusatore, sotto sotto borbottava: "Vorrei sapè da dove viene tutta questa roba?" . In altra circostanza, si trovava il Focardi in galleria che attendeva all'aggancio le pentole della minestra che un camion portava alla miniera come supplemento di tessera. Non persero l'occasione per uno scherzo: caricarono le pentole senza fissarle, mezze aperte sopra un carrello e le spedirono nel piano inclinato. Le pentole fecero un gran fracasso e arrivarono mezze vuote e sconquassate. Dopo poco apparve alla bocca della miniera il Focardi, nero come la lignite che scavava, e pieno di rabbia seppe soltanto berciare al vento: "Delinquenti!" . Nel ritorno a casa rimaneva vittima di altri scherzi tra i quali quello di svitargli il beccuccio dell'acetilene che regolarmente perdeva per strada.

Il diluvio universale

Inoltre si discuteva continuamente tra i minatori sull'origine che avevano la lignite e il carbone. La misteriosa presenza di quei grandi banchi di lignite, che spesso mostravano chiaramente resti di grandi tronchi di albero carbonizzati e altri particolari curiosi come lo strato di terra che divideva ogni banco unita all'ignoranza scientifica degli ingenui minatori, portava questi alle più strampalate teorie e conclusioni dove di solito entrava in ballo il "diluvio universale". Questo fece scattare in Scoiolo l’idea di uno scherzo a Ruggero Riversi. Ruggero stava scavando una galleria d'avanzamento e Scoiolo mise due grossi chiodi arrugginiti dentro la terra. Ruggero scavando li trovò e... "Vedi, poi dicono che non c'è stato il diluvio universale" . E così ebbe conferma del diluvio universale.

Sospeso nel vuoto

La teleferica, oltre che trasportare carbone, veniva anche utilizzata dal padrone Serafin per trasferirsi da Monteo alla Bocca 6. Manovratore della teleferica una mattina era il Burroni, che non perse l'occasione per uno scherzo alquanto pesante al principale. Mentre il carrello viaggiava sospeso sopra i campi col Serafin accovacciato, lui fermò la teleferica fingendo un guasto. Ce lo tenne mezzora a tentennare nel vuoto. Da allora il Serafin, che aveva capito, chiedeva: "Chi c'è alla manovra?". "Il tizio". “Allora vado con la teleferica”. Il Serafin era il padrone ma aveva un rapporto aperto e schietto con gli operai che corrispondevano volentieri. Si intratteneva, colloquiava con loro e quando lo invitavano non mancava anche ai loro matrimoni, come a quello del sindacalista Silvano Socci con Lea Oretti nel 1953, dove si presentò con un servito di porcellana come regalo di nozze che ancor oggi fa bella mostra nella vetrina del loro salottino.

L’ingegno del Corti

Durante uno scambio di vedute con gli operai, di tipo politico e sindacale al tempo degli scioperi, si tenne un batti e risposta tra il Serafin e il Corti di Vagliagli che è rimasto negli annali. Mentre il secondo argomentava sui problemi sociali e proponeva soluzioni di tipo marxista per superare ogni disuguaglianza, il primo rispose con un breve e significativo esempio che puntava alle conoscenze e qualità personali di ogni individuo per ben figurare nella vita. Ma il Serafin non aveva fatto i conti con la scaltra logica del Corti. "Vedi" , disse alla fine e bonariamente il Serafin al Corti, "Se oggi si divide fra tutti quello che possiedo, fra qualche anno io ho rifatto i soldi e te hai finito tutto" . Pronta la risposta del Corti che senza esitare e con slancio replicò: "Si ridivide" . Nessuno ci avrebbe mai pensato e dopo un attimo di riflessione l'allegra risata dei presenti chiuse la discussione.

Le due ruote

Andando alle miniere con la strada a sterro, sia in bici che in motorino, occorreva molta prudenza nella guida. Una mattina il Giachini l'aveva presa troppo veloce e finì di sotto al Ponte della Cannicchia. Gli altri, che sopraggiunsero qualche minuto dopo, sentirono “certi berci" . Era il Giachini che invocava aiuto disperatamente "perchè ci aveva il motorino sopra e non si poteva muovere" .
Al tempo del Mosquito, negli anni cinquanta, alla fine del turno della mattina, giunti al ponte del Mulino, il Coccheri e il Tognazzi davano il via ad una tacita, speciale gara che finiva in piazza a Quercia. Nessuno dei due voleva restare indietro e con il Mosquito a tutto fuoco pedalavano con lena e accanimento per non arrivare secondi. Una corsa durata anni.

Il cinema

Anche il cinema del periodo verista si interessò delle miniere di Lilliano. Ma fu una comparsa fugace e senza seguito: "Quando fecero i saggi sotto Topina, venne un regista con la sua troupe per fare un film, vennero più volte, poi non si rividero" .

Solidarietà

La mutua solidarietà tra i miniatori non venne mai meno e si attuò tante volte verso i colleghi bisognosi sia a causa delle malattie, che provocavano lunghi periodi di assenza, che in altri casi. Ora, un minatore si ammalò piuttosto seriamente e in famiglia rimasero senza stipendio per diversi mesi. La colletta, subito aperta, diede buoni risultati e il denaro venne consegnato al malato. A guarigione avvenuta, il minatore, con questa piccola somma ci comprò il Mosquito e finì che lui andava alla miniera in motorino e gli altri a piedi, come ebbero a rimarcare i più maligni dalla lingua lunga: “Vedi, ci ha comprato il motorino e noi si va a piedi” .

Conclusione
Sono passati quarant'anni dalla chiusura delle miniere e ormai pochi sono i sopravvissuti. Nella nostra frazione erano rimasti in quattro, citati all’inizio del Capitolo. Si deve a loro se è stato possibile rivivere la stagione della miniera.

Pagina del libretto di lavoro del manovale Gino Rossi che documenta la sua temporanea assunzione nel 1960 e 1961 da parte della Cooperativa Minatori Operai di Lilliano - Campalli.





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