Home

Introduzione e arruolamento

La guardia Civica e Nazionale

Sabatino Carli

Leva militare nel Regno d'Italia

La guerra di Libia

La Prima guerra mondiale e i combattenti

La Seconda guerra mondiale

Soldati in guerra

Seconda guerra: argomenti diversi

CAPITOLO III - ARRUOLAMENTO E GUERRA

La Seconda guerra mondiale
Sembrava che "l'inutile strage" della Grande guerra, con le sue montagne di cadaveri e il suo seguito di tribolazioni, avesse fatto comprendere agli uomini e ai politicanti che non era servita a niente e a nessuno. Ma ciò si rivelò pura illusione. Appena vent'anni e l'ottusità degli uomini riprese il sopravvento col furore delle armi che risuonò di nuovo. Questa volta la guerra non si limitò alle zone del "fronte", ma si estese a tutto il paese portando rovine e lutti tra i civili. Il Secondo conflitto mondiale, voluto dalla Germania nazista guidata da Hitler, assecondata poi dall'Italia fascista di Mussolini, venne a rompere ancora una volta la tranquilla e operosa esistenza delle famiglie italiane. Esso portò, oltre al suo carico di lutti e rovine, anche una ventata di novità che modificò in maniera irreversibile le condizioni di vita negli anni a venire e in particolare nei distretti rurali di tutta Italia, Quercegrossa compresa. Dalla dichiarazione di guerra del 1940 il clima nel paese cominciò a mutare. Partirono i primi richiamati, si smorzarono feste e balli e le vicende belliche presero il sopravvento nelle conversazioni. Si parlò di fronte e di vittorie, di prigionieri, di morti, anche se tutto arrivava attenuato e falsato dalla censura del regime. Per i primi tre anni ciò sembrava distante, innocuo; la Grecia, l'Africa, la Russia erano solo parole mitizzate ma che non rivelavano ancora la tragedia del soldato italiano.
Infine la guerra, la vera guerra, fino ad allora vista al cinema di propaganda e considerata un evento lontano, arrivò anche a Quercegrossa con tutti i suoi rischi e pericoli e purtroppo anche con qualche violenza verso la popolazione, ma fortunatamente non si ebbero morti civili nel nostro popolo per cause belliche. Mentre negli adulti suscitò tanto allarme e timore specialmente durante il passaggio del fronte, per i giovani furono tempi straordinari, carichi di novità come appare dai loro ricordi. La lenta ritirata delle truppe tedesche verso nord fece sì che per qualche giorno Quercegrossa e zone limitrofe si trovassero in prima linea. Si videro movimenti di truppe e comandi installati nelle sedi più diverse del paese e della campagna. Combattimenti interessarono la zona di Petroio-Poggiagrilli e di Passeggeri e le cannonate, a centinaia, caddero un po' dappertutto.
Grande spazio è riservato nei ricordi di chi era presente ai rapporti spesso di amicizia con le truppe di passaggio: prima tedesche poi alleate. Casi di tentativi o di diserzione tra le truppe germaniche sono descritti con tutta quella comprensione e commiserazione verso chi, in pericolo di vita, rifugge la violenza e la morte. E poi il mangiare, che finalmente con abbondanza si riversò nel paese sotto forma di scatolette americane, cioccolata e ogni ben di dio che gli alleati distribuivano generosamente, specialmente ai bambini: "per noi finì la fame" è stato detto a conferma di ciò. Meno gradevole fu la presenza delle truppe marocchine che anche da noi, ma in misura molto minore, lasciarono una scia di violenze e tanta paura.
Mettiamo ora dei punti di riferimento storici per capire cosa avvenne prima dell'arrivo degli alleati a Siena e subito dopo a Quercegrossa. La fede nella vittoria finale, sbandierata tanto dal Duce, subì un durissimo colpo il 10 luglio del 1943, quando gli americani sbarcarono in Sicilia e misero un piede nel continente. La certezza cominciò a vacillare nelle alte sfere e il 25 luglio successivo Mussolini fu messo in minoranza dal Gran Consiglio Fascista e costretto a dimettersi con conseguente caduta del regime, ma … la guerra continua. Segue l'8 settembre del 1943 l'armistizio con gli alleati. Alle ore 19,45 il commentatore dell'EIAR annunciò che "... conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza". Sembrava la pace tanto attesa ma mai messaggio fu così male interpretato da tutta la popolazione e soprattutto dall'esercito che si sfasciò completamente: un equivoco pagato assai caro. Il 9 settembre altro sbarco americano a Salerno e il fronte di guerra si muove verso nord. Il 22 gennaio del 1944 gli americani mettono piede sulla spiaggia di Anzio, preludio alla liberazione di Roma (4 giugno). Gli alleati avanzano ora su più direzioni: a ovest lungo la costa tirrenica, al centro lungo la direttrice Bolsena-Radicofani-Siena in quello stretto corridoio delimitato dai fiumi Orcia e Ombrone, ed a est su Perugia e Arezzo.

Francesi e marocchini
Il 10 giugno 1944 i francesi sono al confine con la Toscana. Ma perché furono i francesi a liberare Siena? Perché vide la presenza fra gli alleati di soldati arabi, algerini e marocchini o marrocchini come venivano chiamati? La Francia libera al comando del generale De Gaulle collaborava con le sue unità alla lotta di liberazione contro la Germania in attesa di liberare il territorio nazionale. Le loro divisioni composte da truppe delle colonie agli ordini di ufficiali francesi avevano combattuto valorosamente a Cassino risultando decisive per lo sfondamento del fronte. Il 20 novembre 1943 erano sbarcate a Napoli le prime unità del Corpo al comando del generale Alphonse Juin e vennero messe all'ordine del generale Clark comandante della V armata americana. Poi la 2° divisione marocchina venne messa a disposizione del VI corpo d'armata americano. Il primo gennaio 1944 terminò lo sbarco della 3° divisione di fanteria algerina che entrò subito in linea. Questo insieme di truppe verrà chiamato "Corpo di Expedition Francais" o C.E.F. e come detto si rivelerà decisivo il suo intervento nella battaglia di Montecassino. In quel frangente il C.E.F. doveva avanzare a sud-ovest di Montecassino, sui Monti Aurunci in direzione delle città Ausonia ed Esperia, poste sulla strada che va da Gaeta a Cassino. Fino a quando i marocchini rimasero in montagna impegnati nei combattimenti contro le truppe tedesche, dimostrandosi valorosi soldati, tutto filò liscio, ma quando scesi al piano entrarono nei paesi e nelle città, cominciarono le vergognose violenze ai danni della popolazione senza distinzione di sesso, di età e condizione. Talmente efferati furono i delitti e le violenze che un grido di sdegno si alzò dall'intero paese, Repubblica Sociale compresa. Proteste si levarono contro l'atteggiamento tenuto dagli ufficiali francesi che non si mossero di fronte a tanto. I mesi successivi e fino al loro ritiro dal fronte italiano le violenze continuarono, seppur in quantità molto minore, anche perché le popolazioni allarmate vigilavano e i francesi iniziarono a punire severamente i marocchini rei.
Per l'avanzata sulla Cassia venne costituito il Corpo di inseguimento al comando del generale francese Larmat, composto di due divisioni di attacco, una algerina e l'altra marocchina, e due divisioni di seconda linea, tutte di fanteria. A queste unità combattenti vennero affiancati reparti di artiglieria e carri americani. Per comprendere la velocità dell'avanzata basterà sapere che il 15 giugno liberarono Acquapendente e il 2 luglio erano in periferia di Siena. La notte tra il 2 e il 3 luglio i tedeschi abbandonarono Siena. L'attacco a tenaglia degli alleati risultò vincente. Il giorno 2 luglio l’artiglieria francese giunta da Sud-Est è all'Osservanza e mette Siena sotto tiro. Altre truppe avanzano dalle parti di San Rocco e Ampugnano dove i tedeschi oppongono una maggiore resistenza per consentire un ritiro ordinato alle truppe schierate a Est sulla nuova linea di difesa che comprende Poggibonsi e le alture di Castellina e Vagliagli.

La ritirata tedesca
La sera del 2 luglio dal poggio della Ripa due giovani, Pierugo Buti e il cugino Elio osservano emozionati, in lontananza, i movimenti di un carro armato in avanguardia spintosi fino a Vico Alto. Presi dall’entusiasmo iniziano a sventolare uno straccio bianco come bandiera in segno di saluto. Vedono il carro arrestarsi e la torretta armata del lungo cannone girare lentamente, parte una cannonata dal carro che forse non ha compreso bene il loro messaggio e che li fa desistere e rinviare i saluti ad altra circostanza. Alle ore 6 della mattina del 3 luglio 1944 le truppe francesi liberavano Siena entrando da due direzioni. La notte precedente qualche centinaio di mezzi tedeschi tra cui molti cingolati, ripiegando dalla città erano transitati da Quercegrossa verso Castellina e girando alla curva in paese avevano ricoperto la bottega del Brogi di terra fino a mezza porta. Dopo questo passaggio, si prepararono a far saltare i ponti per ostacolare l'avanzata alleata. Infatti, la notte seguente, tra il 3 e 4 luglio, a Quercegrossa là dove oggi sono le case dette “del Monte", una potente esplosione echeggiò nella notte e una voragine cancellò la strada e il ponticino tra il Leccino e la chiesa. Silvano Socci e Gosto Torzoli, svegliati come tutti dal gran botto, incuriositi decidono di andare a vedere. Passano dietro i campi del Mori e guardinghi si affacciano dal greppo proprio davanti al Leccino Nuovo. Le finestre sono illuminate, aperte; c'erano sempre i militari tedeschi in casa Mencherini. Sentono bene parlare tedesco e vedono delle ombre muoversi e affacciarsi. Improvvisamente un soldato li scorge. Non è molto lontano, un mitra viene caricato. Annusato il pericolo, i due audaci, schiacciati ventre a terra, col fiato sospeso, cominciano a indietreggiare mentre alcune raffiche sono sparate nella loro direzione e sibilano sopra le loro teste. Il terreno per fortuna declina e spariscono di corsa alla vista dei tedeschi. Fini lì e non andò male.
La cabina della luce fu l'unico edificio ad essere demolito e fu un'esplosione paurosa: "Minarono la cabina e la fecero saltare.. il cielo divenne rosso per venti minuti".
Era loro intenzione far saltare anche il palazzo dei Mori per ostruire la strada principale. Le mine erano gia predisposte ma, non si sa come, i tedeschi furono convinti e rinunciarono o forse si convinsero dell'inutilità dell'operazione. Gli ultimi soldati tedeschi in ritirata poi, il giorno 4 luglio, piazzarono quattro mine sotto il ponte del Mulino e lo fecero saltare per aria mentre si ritiravano lentamente nella parte di Petroio minacciati dalle prime avanguardie di marocchini, ma protetti dall'artiglieria e dai carri armati piazzati in ordine sparso. Il 2 luglio è segnalata un'altra colonna tedesca in ritirata e all'imbrunire questi tedeschi apparvero inattesi al Mulinuzzo con una camionetta: "Non avere paura" dissero agli spauriti coloni Bruttini. Precedevano una colonna di corazzati che nella nottata sostarono nei paraggi. "La mattina dopo erano spariti tutti. Ci lasciarono una moto che aveva il serbatoio forato da una pallottola ... piano piano si smontò tutta". Ancora a Petroio, e sono le nove di sera, una numerosa mandria di vitelli razziati, che riempiva tutta la strada per qualche centinaio di metri "avranno avuto 200 bovi", viene guidata dai tedeschi verso Vagliagli e le ragazze del Carli e del Manganelli che si trovavano sulle scale esterne dell'abitazione di quest'ultima famiglia a Pietralta li osservavano in silenzio, passare, ignorate da soldati sempre più scoraggiati. Chissà che tra queste bestie non ci siano stati anche i due vitelli razziati al pievano di Lornano, dei quali denunciò il furto chiedendo il rimborso come danno di guerra? A Viareggio un drappello di tedeschi passò con un rimorchio fatto a V tipo carro breccia trainato da un gippone e puntavano verso la Casanuova della Torre. Infine un carro armato, sempre tedesco, un Tigre, si piazzò accanto a un testucchio e i fanti piazzarono la mitragliatrice nella camera al primo piano e "portare via bambino", dissero alla mamma; di lì a poco sarebbero arrivati gli alleati.

Un passo indietro con i tedeschi in casa
Spariti i tedeschi che stanno ripiegando frettolosamente sulla nuova linea di difesa, le nostre genti vigilano nei rifugi in trepida e timorosa attesa. Si aspettano da un momento all'altro i liberatori. Si parla di americani, di francesi, si mormora dei marrocchini, ci sono anche voci di violenze e la paura rimane. Lasciamoli per il momento in questa attesa e facciamo un passo indietro per rivivere nei fatti gli storici avvenimenti che dagli ultimi mesi del '43 incisero emotivamente e materialmente sulla vita quotidiana di ognuno e ne modificarono, per qualche mese, usi e abitudini. Caduto il Fascismo e firmato l'armistizio, si cominciò a registrare il passaggio di piccoli gruppi di soldati tedeschi che, come in un crescendo, aumentò fino ad avere il pieno controllo del paese e l’occupazione delle abitazioni poderali nei giorni che precedettero la liberazione. Le memorie su quei soldati sono senza data ma sono concentrate soprattutto negli ultimi mesi quando il fronte, bloccato a Cassino, provocò un eccezionale via vai di truppe, sbandati e disertori che si muovevano a gruppi o isolati, incolonnati o con mezzi di fortuna. Con la costituzione della Repubblica sociale o di Salò poi si ebbero le prime diserzioni e renitenze alla leva con conseguente costituzione di formazioni partigiane più o meno organizzate che combattevano i tedeschi alla macchia. Con il ritorno "tutti a casa!" di tanti militari italiani dopo l’8 settembre e che di fatto erano considerati al pari dei disertori, si ebbero numerose presenze di persone che seminascoste vivevano nell'incertezza e sempre in guardia a causa dei tedeschi e della milizia. Si incominciò poi a parlare di deportazioni in Germania e molti uomini furono costretti a nascondersi e dormire nei boschi quando il pericolo si faceva reale. Inoltre il 9 settembre '43 c'era stato, improvviso come un temporale, il primo degli oltre cento bombardamenti di Poggibonsi, importante centro ferroviario e stradale per il passaggio di truppe e mezzi nemici e per questo preso di mira dagli alleati. E insieme a Poggibonsi fu presa di mira l'intera rete ferroviaria e soprattutto i ponti risultarono gli obiettivi preferiti. Tra questi il "Pontottarchi" che tradotto significa "Ponte a otto archi" sovrastante la strada che da Basciano conduce alle Badesse. Ben visibile da Quercegrossa dove appare netto sotto Monte Maggio, i suoi bombardamenti divennero dopo i primi momenti di paura un vero e proprio teatrino. Alcune giovani del paese, quando suonava l'allarme salivano sul tettino dello Stanzone per osservare meglio e assistevano divertite alle evoluzioni dei cacciabombardieri, ai fragorosi scoppi delle bombe che innalzavano al cielo alte colonne di fumo nero. Non bastavano le urla dei grandi per farle scendere. Appena si spandeva nell'aria l'allarmante voce della sirena da Fontebecci molte persone prendevano la via del Dorcio dove si trovava il rifugio di Quercia. Alcuni a passo svelto, altri si precipitavano di corsa lungo la discesa suscitando l’ilarità delle giovani. Qualche minuto e vedevi arrivare dalla Ripa Tono del Castagnini in bicicletta, che a tutta velocità in discesa, senza freni, correva a mettersi in salvo. Lui capiva il pericolo. Era stato a Firenze e lavorava alla Galilei quando sentì le prime bombe e l'effetto che facevano. Avveniva anche che, finito l'allarme con la gente che rientrava nelle proprie case, si risentisse chiaro e forte il suono della sirena che ridava l’allarme. Allora tutti facevano dietro front e ripartivano a corsa verso il rifugio. Vicino a Quercia un babbo portava la piccola figlia sulle spalle e correva. Inciampò e la bambina fece un volo di alcuni metri prima di ricadere pesantemente al suolo.
Tutto era cominciato quando "era una domenica mattina poco prima dell'ora di pranzo. All'improvviso un rombo pauroso di motori di aeroplano. Parevano sopra di noi. Poi le esplosioni, nuove, forti. S'era tutti impauriti. Poi s'andò a vedere". Erano state alcune squadriglie di aerei alleati composte ognuna da tre apparecchi che avevano bombardato il Pontottarchi per la prima volta. Fu forse da quel momento che la popolazione acquistò la consapevolezza che la guerra era vicina, molto più vicina di quel che si pensava.
Con l'avvicinarsi del fronte divenne sempre più pericoloso muoversi in gruppi numerosi e anche il viaggiare a bordo di auto e camion poteva risultare fatale. Tutto a causa della famosa "Cicogna". Non il volatile, ma l'aereo leggero di osservazione alleato che dall'alto, come un falco, spiava ogni movimento e se c'era bisogno chiamava i Caccia. Già dal 7 febbraio del 1943, il giorno del suo matrimonio, Bruno Sestini ricorda che per tornare a Gaggiola dopo la cerimonia, verso le nove e mezzo, i familiari fecero i turni: tre persone per volta perché in alto volteggiava la Cicogna ... e quella sera che tre camion cisterna tedeschi pieni di benzina si fermarono a Quercia e sostarono sotto il tiglio del Mori con la Cicogna che girava sopra? "Erano sotto gli alberi e non li videro, sennò si saltava tutti". Il paese si spopolò. Quando poi le autorità decretarono il coprifuoco e fu vietata ogni forma di illuminazione notturna, in mancanza di candele si ricorse all'uso di ciotolini pieni di nafta con uno stoppino: "Facevano un puzzo, un fumo, certi nasi neri a stargli vicino". Oppure si tapparono tutte le finestre con cartoni e manifesti con le foto di Mussolini come in casa di Egisto Rossi nel Palazzaccio e quando vennero i tedeschi e videro l'immagine del duce alla finestra dissero: "Qui essere fascisti!".
Rimanendo alla guerra dell'aria è rimasto scolpito nelle menti di tutti lo spettacolare e al tempo stesso tragico e mortale duello che si consumò sopra i nostri cieli e che vide l'abbattimento di un aereo tedesco da parte di un caccia inglese o americano. Tante le testimonianze e non tutte concordano nei particolari. Alcune notizie è evidente che sono state raccolte nei giorni successivi dalle molte voci che commentarono il fatto e che in seguito si sovrapposero e si fusero. Il tutto si può riassumere così: una squadriglia di aerei alleati che andavano a bombardare Bucine venne attaccata da uno o due aerei tedeschi. L'ultimo della squadriglia alleata si staccò e affrontò un tedesco. Si ebbe allora il famoso duello aereo visto da molti e da più parti, ma i ricordi discordano sulla durata. C'è chi parla di un paio di giri con provenienza da Est: "Il duello aereo un minuto ... una cinquantina di scariche ... a semicerchio dall'aretino", e chi invece afferma decisamente che il combattimento durò "diversi minuti" con varie fasi di inseguimento. Dedo lo vide dalla strada di Fonterutoli mentre tornava a casa, altri dal paese. Ilda Nencioni è all'Arginano, corre sulla strada per osservare. Il su’ babbo le grida forte: "Stai giù! Stai giù!" mentre in cielo crepitavano non molto lontane le mitragliatrici. Il tedesco ebbe la peggio. Colpito, con una scia di fumo cadde nel bosco sotto Basciano. Dopo essersi schiantato al suolo continuarono le esplosioni delle munizioni, poi saltò tutto per aria nell'ultimo boato. L'atmosfera irreale che aveva coinvolto gli improvvisati spettatori svanì immediatamente. Fu allora una corsa generale da tutti i posti d'intorno a Basciano. Chi aveva assistito o chi l'aveva sentito dire, in gruppi numerosi si misero in marcia verso il luogo della caduta. I più vicini furono naturalmente i primi e lo spettacolo che si offrì loro fu raccapricciante. "Momo (Vigni Aldo) di Santo Stefano, tra i primi a giungere sul posto, vide che una parte di tedesco era attaccata a una pianta, trovò la gamba con lo stivale dentro e gli tolse lo stivale, uno di quelli stivali lucidi ... cercò anche l'altro, ma inutilmente". Il gruppo di Quercia arriva poco più tardi, ma fa in tempo a vedere Momo che portava in spalla la gamba del pilota con lo stivale e un cane che mangiava parte del cervello che si era appiccicato sul fusto di un albero. "La Bodda (Anna) raccolse parti dell'aereo". "Anna Aprea raccontava che col paracadute in seta queste citte si fecero tutte il vestito". La fusoliera si era conficcata al suolo, scoppiando poco dopo, e il pilota ormai morto era stato lanciato fuori a pezzi. Ines Losi vide il corpo ignudo che mancava di una gamba e a pochi metri il cuore fuoriuscito dal petto. Il corpo era di schiena ed era stato come lessato dal calore dell'esplosione e lei incuriosita cercò con la scarpa di girargli la testa mezza staccata dal busto per osservarne il viso. Spinse la punta della scarpa contro quel cranio spaccato e sentì un suono provocato dall'aria che fuoriusciva dal cadavere come plufffffff. Lasciò subito perdere. Intorno c'era una camicia color aviazione macchiata di sangue, alcune lettere sparse e altre cose del pilota che dovevano stare in una valigetta. Il Mosca le tradusse dicendo che il pilota era tornato da poco da una licenza e per questo aveva dietro tanti effetti personali nella valigetta. Ines portò a casa la camicia e le lettere. Molto più tardi o il giorno dopo arrivò la Milizia. Recintarono il posto, raccolsero i poveri resti e impedirono a tutti di avvicinarsi alle lamiere bruciacchiate dell'aereo che si dice sia stato uno Stukas e Spitfire il suo cacciatore. Da ricordare che l'aeroporto di Ampugnano era divenuto una base per gli Stukas e tutto lascia pensare che gli intercettori tedeschi siano partiti di là. Alcuni giorni più tardi avvenne qualcosa di incredibile, di paranormale. Ines, che aveva riposto lettere e camicia nel suo comodino, incominciò la notte a sognare il pilota "che mi scappava da dentro il comodino". Impaurita, voleva buttare tutto e ne parlò anche con don Luigi. Il pilota le appariva e le diceva di andare a prendere il suo orologio che doveva cercare in un posto a destra passata la buca causata dalla sua caduta. Cercò inutilmente con le sue amiche, ma l'orologio non fu mai trovato. Se un giorno qualcuno alla ricerca di funghi vedrà un vecchio orologio arrugginito e bruciacchiato, sappia che apparteneva a un pilota dell'aviazione germanica caduto in combattimento.
Il nuovo contributo datoci da Giuseppe Fusi di Basciano chiarisce alcuni dubbi e smentisce altre generiche testimonianze. Egli si trovava con la sorella sotto Basciano al momento del duello e per sicurezza la mise nel vicino rifugio; poi si avviò subito al bosco dove era caduto l’aereo. Fu il primo ad accorrere e fortunatamente non si era ancora avvicinato all'aereo quando questi esplose. Giuseppe ricorda: “Il combattimento durò pochissimo e l'aereo tedesco cadde nel bosco delle "Franate. Il pilota lo vidi attaccato a un querciolo con un buco nella pancia: avrebbe tentato di gettarsi col paracadute. Dopo mezzora arrivarono i tedeschi e avvolsero il corpo nel paracadute. Era un aereo che portava della posta. Si vedeva la carlinga infilata in terra”.
Il giorno dopo gli si presentò una signora elegante con un ufficiale tedesco, la quale aiutata da Giuseppe, con un pinzetta stacco tutti i pezzi di carne attaccati agli alberi e per l'aiuto gli donò 100 lire. “Tra la Staggia e il ponte era tutta una buca. Nei giorni seguenti era tutto calmo e con la carretta presi alluminio e cuscinetti a sfera dell’aereo, e col trapelo portai tutto nell'orto per poi venderlo. Anche i numerosi bossoli del 105 in ottone, dietro la villa del Parigini, furono venduti”.

Fra le tante missioni effettuate dagli alleati sopra il Pontottarchi, alcune furono efficaci e causarono l'interruzione della linea ferroviaria, altre fallirono con sganciamento delle bombe anche lontano dall'obiettivo. In una di queste: "Ricordo un bombardamento ... ma non presero niente ... si sbagliavano spesso ... presero lo Staggia ... la Muraglia ... dove ammazzarono una persona". In altra circostanza Milena Losi "sorpresa da un bombardamento e in particolare da una bomba che gli esplose vicino, si prese la meningite e non ce la fece". Il tremendo scoppio, a pochi metri, tramortì la dodicenne Milena mentre guardava le pecore ai Cipressini. Tornata con fatica a casa con la faccia stravolta, si ammalò gravemente di meningite, per morire pochi giorni dopo il 9 maggio 1944, e tutti hanno sempre detto che la causa della sua morte sia stata la paura di quelle bombe. Comunque, se si considerano i frequenti errori di mira, anche macroscopici, commessi dagli aerei alleati durante la guerra in tanti casi, fu un vero miracolo che nessuna bomba abbia colpito il nostro paese. Un altro duello aereo fu vissuto da Ilda Nencioni e suo fratello mentre si portavano col carro a Gaggiola a governare le bestie messe al sicuro. A ciel sereno, nella tranquilla serata un rombo assordante li schiaccio sul carro e fecero in tempo a vedere, prima di gettarsi nel fosso, due aerei che si inseguivano e sentire la mitragliatrice sparare a raffica. Un attimo e scomparvero all’orizzonte. I due Nencioni ripresero la loro strada con le gambe tremanti.
Per riparare i danni arrecati alla linea ferroviaria e al ponte, il comando tedesco aveva stanziato una compagnia del Genio al Castellare. "Formata da circa 20 genieri che dormivano anche sui camion e partivano sempre il giorno dopo di buon'ora per riparare i danni alla ferrovia. Un giorno, per fare manovra, buttarono giù una delle colonne d'ingresso al viale del Castellare che fu ricostruita da cinque soldati austriaci". Furono le prime truppe acquartierate a Quercegrossa e i loro rapporti con la popolazione erano del tutto amichevoli e si può dire affettuosi verso i bambini dei poderi vicini. I ragazzi del Losi dell'Arginanino, Dedo e Armando, conservano un eccellente ricordo e persino alcuni nomi di questi soldati: "... (Dedo) venne una SS e mi rubò una gallina. Ero amico del capitano Franz ... andai da lui ... che mise il ladruncolo sull'attenti"; "... i tedeschi compravano le caramelle da Dante e ce le davano la mattina".

Il rifugio
L'inizio dei bombardamenti alleati e l'avanzare del fronte che minaccioso saliva dal sud, con la preoccupante prospettiva di ritrovarsi in mezzo ai combattimenti, consigliò alla popolazione di ricorrere al più elementare, semplice e antico strumento: il "rifugio". Un luogo dove concentrarsi per evitare minacce dall'alto e soprattutto rifugiarsi per salvarsi dai cannoni, dai mitra e dalla truppa. Nel rifugio c'era gente e questo dava sicurezza e tranquillizzava coloro che vi entravano. Un requisito fondamentale erano le due bocche collegate che davano la possibilità di fuggire dall'altra parte in caso di necessità, altrimenti era soltanto una buca dove si rischiava di fare la fine del topo. Infatti al Castello: "Il rifugio andavano a quello del Dorcio perchè avevano costruito il loro sotto il Castello e lo chiamavano la "buca del tasso"; aveva una sola entrata e quando ci caddero davanti le prime cannonate e lo riempirono di fumo si accorsero del pericolo che correvano e si rifugiarono in quello del Dorcio, che tra l'altro avevano contribuito ai lavori". Non mancavano certamente i manovali in quegli anni e fin dai primi mesi del '44 tutti si misero al lavoro per realizzare i rifugi. Alcuni poderi unirono le loro forze per scavare il proprio, ricorrendo all'opera di braccianti e minatori, e in paese si realizzò con concorso di tutti quello al Dorcio a 50 metri dalla sorgente dell'acqua, lungo la strada che portava ai Sodi e al Mulinuzzo. La bocca di entrata, dalla strada penetrava nella collina a forma di sperone, per fuoriuscire dalla parte opposta con la cosiddetta seconda bocca, alta una decina di metri rispetto alla strada che continuando il suo percorso dalla prima bocca, svoltava a sinistra e scendeva avvolgendo a metà il contrafforte naturale. La realizzazione fu guidata dal mi' babbo che riuscì a superare la difficoltà maggiore che consistette nel calcolare lo stesso livello delle due bocche e la direzione. Ci riuscì brillantemente e le due squadre di lavoro si incontrarono al centro della galleria perfettamente allineati e allo stesso piano. Usò, o meglio, usarono un metodo rudimentale: una livella e una tavola, che spostata in piano lungo il fianco della collina, fornì l'altezza dove praticare la cavità. Al rifugio di Gardina, sotto il Poggio di Gardina, che costruirono il Tognazzi, Vespa, Ruggero e i contadini, si ricorda che per trovare la direzione ci furono dei problemi. Era formato da ambienti interni con due uscite. Fu il primo a essere costruito. In poco tempo ognuno ebbe il suo rifugio e intorno a Quercegrossa se ne realizzarono almeno otto.
Guerra_1

Il rifugio di Quercegrossa, oggi quasi invisibile è completamente franato. Si trovava al Doccio, sulla strada per i Sodi. Si scorge l’ingresso sulla sinistra.

Oltre a quello del Dorcio che ospitava tutto il paese si rammentano quello "sotto la greppa che guarda il Casalino" per le famiglie delle Redi e di Poggiagrilli; un terzo sotto Viareggio, al Bozzone per l'Olmicino, il Casino e Gaggiola; un quarto sotto Macialla "alle querci, alla fine del campo del Carusi"; un quinto per Petroio "al borro, al tombolone", "era al tombolone, un'entrata, una grotta, rinforzato con travi di legno ... il mi' nonno stette sempre a sedé sull'uscio di casa, non ci venne mai"; un sesto sotto il Castellare "nel bosco del Losi"; il settimo era il già ricordato di Gardina che serviva anche i Bruttini del Mulinuzzo e per finire quello nel bosco di Passeggeri simile a una buca. Inoltre, nella zona della Ripa si contavano tre rifugi per la popolazione, poi c'erano quelli di Basciano, Badesse ecc.. Tutti questi ambienti erano per lo più armati con travi e pali di legno che davano sicurezza ed evitavano piccole frane. Di forme diverse che andavano dal buco nella collina, al corridoio, al ferro di cavallo vennero scassati con picconi e badili e con tante carrette per portar via la terra. Furono lavori importanti che coinvolsero e aggregarono una popolazione che si accingeva a vivere insieme esperienze difficili. Ci si può domandare se svolsero il loro compito per il quale erano stati creati. La risposta è sì. Se prendiamo in esame la nostra zona, vediamo che in una sola occasione la concentrazione di persone attirò i marocchini che riuscirono a compiere i loro misfatti, come al rifugio di Gardina, ma in altre lo stare insieme protesse la popolazione dagli stessi: "Alcune sere vennero dei marrocchini ma gli uomini armati di falci e zappe li scoraggiarono".
In generale il rifugio si rivelò veramente un ricovero che offrì protezione e solidarietà e attenuo tante paure, specialmente fra le persone più deboli come le donne e i ragazzi. Naturalmente al rifugio, specialmente nei giorni che precedettero l'arrivo degli alleati e l'inizio dei cannoneggiamenti tedeschi, si portarono anche stoviglie varie e alimenti e arredi come reti e materassi, tavolacce e panche e cassette per depositarvi le varie cose: "Ci si cucinava, ci si dormiva su brande e reti". Vico del Barucci pensò bene di portarvi una damigiana di vino e un sacco di farina in previsione di passarvi qualche settimana. Arriva al rifugio col suo carretto: ma chi ci trova? I tedeschi che, senza fiatare, gli portano via tutto.
Come conseguenza dell'avvicinarsi del fronte si accrebbe la presenza di militari tedeschi. Tutto il territorio di retrovia si animò e i tedeschi installarono comandi locali e il passaggio di rifornimenti verso e dal fronte si fece sempre più intenso. La situazione a Quercegrossa e dintorni si fece più delicata e tante precauzioni e riguardi furono necessari da parte di tutti, per non suscitare reazioni di una truppa sempre più insofferente e aggressiva nella sua sconfitta che ogni giorno che passava si faceva sempre più evidente. A qualche tentativo di violenza di gruppo o personale si affiancarono piccole azioni come furti di oggetti e soprattutto ruberie di piccoli o grossi animali, di prodotti alimentari e la ricerca di tesori o cose nascoste. Di contro, in alcuni casi lasciarono alimenti, strumenti vari e anche benzine che furono molto apprezzate. Si capì anche che i tedeschi razziavano e rubavano in un posto, in una abitazione per donare ad altri o abbandonare poi gli oggetti o prodotti razziati. Tante sono le testimonianze raccolte per documentare quanto accaduto nei mesi fra marzo e luglio 1944, prima del ritiro tedesco da Quercegrossa. Sono piccoli episodi ma rivelatori importanti di quei giorni decisivi per la storia. Un camion di una colonna composta da una decina di mezzi forò una gomma nella salita dell'Arginano. Non avendo il ricambio, due tedeschi a piedi raggiunsero l'Arginanino (dai Losi): "Macina rotta" disse uno di loro ubriaco e barcollante che fece intendere di voler andare a letto. E ripeteva: "Esercito tedesco dormire a letto". Chiamarono il Mosca (parlava tedesco) che li convinse a dormire nell'uliviera. La mattina dopo passata la sbornia diventarono trattabili. Incominciarono a scambiare la benzina che avevano in fusti con prodotti alimentari e nei tre giorni che rimasero mangiarono e bevvero e quanto partirono quasi ... quasi ... “La benzina in fusti, dei quali uno toccò a noi, la rivendemmo al Mariani di Castellina”. In altra circostanza si rivelarono meno accondiscendenti: "Entrarono i tedeschi nel pollaio ... il babbo di Ginetta gli disse qualcosa e loro gli puntarono la pistola alla testa". Le genti dell’Arginano e dell'Arginanino, trovandosi sulla strada principale, oltre ai fatti citati si trovarono spesso a contatto con i soldati, i quali si diedero da fare nel derubare continuamente e nel distruggere: "I tedeschi ci portarono via 7/8 maialini". "Tutti i caratelli nella casa del Mosca furono stappati e versati che il vinsanto arrivò alla capanna". Vada per i maialini, ma il vinsanto? Un atto di guerra veramente coraggioso. Arrivò all'Arginanino un soldato tedesco armato, che gridò: "sipòle, sipòle". Entra in casa e per accattivarselo la nonna gli offre cinque uova. Parla italiano e dice: "Per le uova ripasso". Va alla bottega torna più tardi mezzo brillo e chiama da fuori: "Folere cinque uova". La fame incominciava a farsi sentire anche nel valoroso esercito tedesco. La notte i Losi dormivano nella stalla del Buti, quella interna nel chiostro. Sentirono bussare con insistenza alla porta dell'Arginanino grossi colpi; impauriti, "non si dormì quella notte". La mattina vanno e li trovano a letto: erano tedeschi e italiani. Poi vogliono cucinare maiale fritto: “In cucina fecero un troiaio. Avevano un camion pieno di vettovaglie tra cui molto zucchero e ce l'offrirono. Erano disertori e contavano di raggiungere il Brennero. Ci lasciarono anche da mangiare".
Una notte all'Arginano i tedeschi occuparono la casa e misero tutti, Buti e Nencioni, in una stanza. C'era Giulio di’ Nencioni piccino e gli prese la sciolta, ma per andare al gabinetto dovevano passare dalla cucina dove dormiva la truppa. Allora la fece in un vaso e l'aria divenne irrespirabile. Aprirono una finestra con precauzione per il grande timore che li sentissero i soldati. Gina Rossi ricorda quel giorno che alcuni soldati si acquartierarono a Quercegrossa e in particolare in casa sua nel Palazzaccio: Anna Masti li ricorda così: "A Petroio c'erano i tedeschi ma non erano cattivi, venivano in casa (a Casagrande) e quando andarono via ci regalarono un sacchetto di zucchero". Un giorno si sparse la voce che i tedeschi avevano ammazzato un bove e distribuivano la carne allo Stanzone. Piano, con circospezione si fecero avanti, era tutto tranquillo e l'animale ucciso era proprio nel mezzo del piazzale e i tedeschi ridendo e scherzando offrivano a tutti. Inutile aggiungere che il bove fu fatto a pezzi e che servì da nutrimento per diversi giorni e per tante famiglie. Uno di quei giorni in casa Oretti irruppero i tedeschi. Se li videro entrare in casa all'improvviso. Erano in due e trasportavano a spalla un palo con attaccato un’enorme oca. La buttarono sulla tavola. "Poi si seppe che l'avevano rubata all'Olmicino".
A Gardina tenevano il mangiare pronto per i tedeschi così non portavano via niente.
Accanto a questi piccoli, curiosi e se si vuole banali episodi, si affiancarono però anche momenti rischiosi che potevano avere conseguenze nefaste se fossero stati gestiti nella maniera sbagliata. Il più imprudente fu l'episodio del soldato tedesco ignudato e legato a Macialla. Non fu un'azione di guerra, ma una bravata che poteva costare cara e come sempre ci avrebbe rimesso la popolazione inerme: “Un'azione sconsiderata, senza nessun vantaggio militare. Avevano gia messo la popolazione in piazza. Grazie all'intervento di Elio Mori e altri fu scongiurata la rappresaglia”. “Stampone venne nei nostri campi al confine con Gaggiola, s'era a segare. Piangeva disperato: “Ci portano via tutti ...”.
Anche a Petroio in casa Carli: "Un giorno entrano i tedeschi in casa nostra ... non si sa cosa cercassero ... misero tutti al muro ... con i mitra spianati ... e poi se ne andarono". Quando avvenne il fatto della morte del partigiano Bonci a Vagliagli i tedeschi iniziarono un rastrellamento allargato in cerca di partigiani. Un camion scoperto carico di soldati con i mitra spianati arrivò anche a Petroio e passarono più volte osservando e scrutando. I Carli erano lì fuori insieme ad altri ma non gli fu detto niente. La lotta partigiana si svolse altrove e non viene mai rammentata la presenza di partigiani a Quercia e dintorni nè occasionali violenze contro i tedeschi, a esclusione del fatto di Macialla.
Da aggiungere che molti furono gli episodi anonimi e secondari vissuti da molte famiglie ma tutti risolti senza violenze. Si racconta di una ragazza che fu presa e sequestrata da tedeschi. Non le fecero niente. Ma rimase il terrore.
In casa Barucci a Quercia: "I tedeschi ci entrarono in casa e spaccarono porte e finestre ... s’avevano delle uova sulla tavola, presero anche quelle".
Forse era maggio, arrivarono con due calessini e cavalli. Erano due SS in licenza dal fronte di Cassino: “... tremavano sempre”. Presero quartiere in casa Mori e "rimasero a Quercia circa 15 giorni. All'inizio fecero la faccia da duri, poi strinsero amicizia con tutti. Quando giunsero in paese s'era tutti chiusi in casa, impauriti. Uno era biondo l'altro moro, avevano 19/20 anni, giovanissimi, si intrattenevano a discutere con Rita Bonelli che stava in casa Mori col marito, oppure con le altre ragazze di Quercia". Chissà che fine fecero? Sempre in quei mesi arrivarono alla zitta altri due militari. Questi erano di nazionalità austriaca. Restarono in casa Mori per due giorni, senza dare nell'occhio. Avevano tutta l'aria di essere due disertori. A Petroio c'era un tedesco col camion prima che ci si installasse il comando e diceva: "Io buttare camion nel borro e venire con voi". "No", gli diceva Luigi Carli, "perché poi vengono i tuoi e ci ammazzano tutti". “Arrivò un camion carico di benzina; la volevano sotterrare e rinunciare alla guerra, i due tedeschi che quando partirono piangevano come ragazzini". Il dramma di tanti soldati ci fa riflettere, se mai ce ne fosse ancora bisogno.
Un’importante testimonianza degli ultimi giorni con i tedeschi ce l'ha data Giulio dei Carli di Petroio. Giulio è del 1927. Quindi è un giovane testimone diretto di diciassette anni che dimostrò leggerezza e nello stesso tempo furbizia nel suo contatto con i militari. Sembravano soldati che avessero rinunciato a ogni marzialità e spento in loro lo spirito bellico. Ma era tutta un'illusione. Il comando tedesco occupava la Fattoria di Petroio e la fureria si trovava nella capanna del Lusini. La mensa per la truppa era nel capanno e parte dei soldati alloggiavano in casa Carli. I tedeschi avevano camuffato il comando da ospedale e dipinte due grandi croci rosse in campo bianco sul capanno e sulla villa. Alcuni soldati, quando volava la Cicogna, uscivano all’aperto e, finti feriti, passeggiavano nei piazzali, fasciati di bende o trasportati su barelle, ingannando così i nemici che volavano girando intorno, forse poco convinti, ma poi sparivano all’orizzonte. Dino, il fratello, era fuggito nei boschi per paura di essere deportato mentre Giulio pensava di non correre pericoli a causa dell'età. Giorni tranquilli e la guerra pareva lontana. La mattina mungevano le pecore e rifornivano la mensa per i soldati dentro il capanno e i tedeschi non toccavano niente, ci rimise soltanto una povera pecora del Masti che fini arrosto. Avevano un camion sotto il Paradiso con casse piene di banconote. Uno dei soldati si chiamava "Veli" e comandava: "Voi andare a letto... fare noi". Avevano anche delle brande sotto la loggia: "La mattina, per uscire di casa bisognava spazzare dai rifiuti che c'erano". Avevano con loro una donna, una certa Giuseppina di Bolzano che era l'amante di un tedesco. Una mattina comandano a Giulio: "Vai alla cucina a prendere un bricco di caffè". Va, fa la fila, gli riempiono il bricco e lo riporta. Sta per consegnarlo quando Giuseppina, in vena di scherzi, arrivando dalle scale gli dà una botta sotto e gli versa il caffè bollente addosso. Aveva solo una maglietta e il caffè bruciava: "La chiappai per i capelli, la strapazzai un poco e la scaraventai con forza sulla brandina e me ne andai". Il giorno dopo lo cercavano per pulire la capanna. Volevano ballare, era tutta una scusa. Cercavano Giulio, ma Giulio era già nascosto a Cavasonno, dove lo avevano mandato i vecchi. Ma lì, dai mugnai Masti, non può restare perché non hanno niente da mangiare. Viene via e si riavvicina a Petroio. "C'era un noce al pianetto delle caselle ... mi videro e pensando che fossi un partigiano, incominciarono a sparare. Più tardi venne Argia, la mi' mamma, con la scusa di dar da mangiare alla chioccia che era lì. Non ti muovere ... ti cercano... c'e sempre quella donna". Allora Giulio ritorna a Cavasonno. Rincasò quando seppe che erano partiti. "Ma prima volevano dar fuoco alla casa". La storia aveva preso una brutta piega ma finì bene; molta gente morì per molto meno. L’unico a rimetterci fu il grosso noce che ebbe il gambo mondato dai proiettili.

I nascondigli
Chi ha letto i Promessi Sposi ricorderà il passaggio dei lanzichenecchi nelle terre lombarde e il conseguente nascondere sottoterra e in altri luoghi sicuri della roba e dei preziosi da parte delle popolazioni impaurite. A distanza di tre secoli il fenomeno si ripeté anche a Quercegrossa e l'esito non sempre fu felice, come vedremo. Se da una parte la preoccupazione per le poche cose possedute e per il bestiame portarono i nostri padri a ricercare in modo spesso ingegnoso un nascondiglio, dall'altra si ebbe una truppa che aveva fatto della razzia il proprio mezzo di sostentamento e della rapina un metodo facile anche se illusorio per arricchirsi, e si ingegnò per scoprire ogni possibile nascondiglio. Non sempre però furono i soldati a rapinare, capitò anche che la scomparsa di roba nascosta fosse attribuita a persone del luogo. E passati i tedeschi, anche i marrocchini si diedero da fare specialmente con polli, pecore e maialini che potevano essere consumati sedutastante. Il più grande timore veniva dal bestiame di stalla, che in quei tempi rappresentava un capitale vitale per le famiglie. Nei giorni cruciali della presenza e del passaggio delle truppe tedesche si pensò bene di togliere bovi e vitelli dalle stalle e condurli nei boschi o nei poderi lontani dalle principali strade e mimetizzarli in qualche modo tra la vegetazione. Alcuni di quelli che non presero nessuna precauzione furono derubati e un senso di rabbia impotente deve averli feriti, mentre osservavano allontanarsi un gruppo di soldati sguaiati che trascinavano le proprie giovenche o pecore o altro. A Gaggiola invece tennero vacche e vitelli nelle stalle e a loro andò bene. Fabio Losi ricorda che "portarono le due vacche e le pecore alla Casanova della Torre con la biancheria dei corredi ... ma la biancheria spari ... e sembra che non siano stati i tedeschi". Fabio, Alda e Damino andavano poi a governare le bestie. I Finetti di Macialla mandano Adelmo nei boschi di Passeggeri: "Andai solo io, s'era fatto una specie di stalla nei boschi per il giorno mentre la sera si riportavano nelle stalle di Monastero". I contadini dell'Olmicino e di Viareggio condussero gli animali nel bosco di Poggiagrilli in ripari occasionali, oppure: "...a Viareggio il bestiame, le giovenche giovani, fu portato, in quei giorni di ritirata dei tedeschi, nei campi e legato alle viti lontano da casa, protette da ramaglie e piante verdi, legate strette e rifornite di acqua e foraggio in modo che non muggissero". I Buti dell'Arginano vi portarono alcune vacche e anche la cavalla. A Maciallina portarono tutte le bestie a Poggiobenichi e le tenevano nel bosco. "Il Giulianini di Macialla non li volle portare e glieli razziarono i tedeschi, un bel paio di bovi". Quando si ritirano i tedeschi, i Carli del Paradiso prendono i bovi e vanno a portarli alle Rocchine dal Brogi. "Un tedesco era nel campo a prendere le patate e un francese gli sparò e l'ammazzò nella piaggia di Montarioso. Ci tirarono delle cannonate, c'erano gli americani, a uno gli portarono via una gamba, io (Giulio Carli) ero a Ficareto e vidi tutto". In paese si ricordano le scene di disperazione di Nanni del Guarducci quando i tedeschi "gli portarono via il cavallo".
Minor fortuna ebbe in genere il bestiame minuto. Sempre a Viareggio: "Due di queste pecore se le papparono i tedeschi; le cossero e me le fecero assaggiare. Si papparono anche una decina di coniglioli". Quelli della Magione costruirono il loro rifugio per gli animali nel bosco di Campalli dentro un macchione. Vi fecero un recinto nascosto dalla vegetazione e vi tennero le bestie per tutti quei giorni di pericolo; li governavano e custodivano. Ai maiali fu data la via e si spersero nel bosco, dove vennero recuperati successivamente. Ma il montone che aveva Mauro del Sarchi non si salvò: "Il montone me lo portarono via i marrocchini. Lo cossero a Campo dei Fiori e se lo mangiarono". Al Castello: "Sotto la lecceta avevano fatto un pianerottolo e lì avevano legato le bestie per timore di razzia da parte dei tedeschi".
Oltre al bestiame, anche tutto quello che poteva avere un valore economico o alimentare venne sepolto o nascosto in ambienti camuffati e resi invisibili da pareti posticcie o portato in abitazioni lontane. Il metodo più usato fu quello della buca in terra. Alla Magione i Sarchi fecero una buca vicino alla casa e vi avevano nascosto dieci damigiane di vino, una d'olio e una di vinsanto. Ci cascò sopra una bomba e scoprì le damigiane rompendole. Poche rimasero intatte ".. arrivarono i marrocchini ... e finirono anche quelle rimaste intatte.. erano tutti ubriachi". Un fatto che suscitò sospetti e accuse fu quello che riguardava una famosa cassa contenente oggetti diversi di un certo valore che era stata nascosta nel bosco dai Mori. Questa cassa fu vuotata e non si sa da chi. Gli ori di famiglia invece furono messi in un calderotto, coperti da una macia di pietre e lì furono recuperati. Al Mulino di Quercegrossa i Bonelli e Duilia misero tutta la biancheria dei corredi in bauli e li celarono alla meglio in una stanza un po' nascosta. Sfollarono poi a Cavasonno e in quei giorni per il colmo della sfortuna un proiettile d'artiglieria colpì il tetto e il muro e scoprì la stanza. Poi arrivarono i soldati che portarono via tutto. Non erano né tedeschi né marrocchini, erano italiani. Poteva capitare e capitò anche che... ma sentiamo ancora Duilia Losi al Mulino. "Quando si stava al Mulino passavano squadre che portavano via gli uomini ... il mi' marito non tornava più ... si erano nascosti nei boschi di Riccieri. Avevo 50.000 lire, tutti i soldi di casa Bonelli, li portavo in seno non so da quanto, allora si nascosero in un fiasco e si sotterrò, e dopo non si ritrovava". Naturalmente il fiasco fu ritrovato, ma dopo diverse ore di affannosi scavi. I Mori avevano seppellite due damigiane di olio: una nel pollaio e una in fondo al giardino e ve le tennero per diverso tempo. Ma l'olio serviva in cucina e allora Sandro costruì un originale tubo a stantuffo per tirare su l'olio, “ ... e come funzionava”.
Nella cantina del frantoio avevano nascosto tutti i quadri, il vinsanto e una bicicletta di Alfiero; ma lì c'entrarono i tedeschi e si salvò poco. La mobilia delle camere, per evitare che venisse sciupata, fu posta nella grande cantina di casa, in uno dei cunicoli, dietro a un muro coperto da un monte di carbone. "C'era anche un quadro della parrocchia". Un soldato tedesco, evidentemente acuto osservatore, preso un piccone in mano gridò: "Avere molti muratori" e giù picconate. Ma sfondato il muro non toccarono niente, ben altri oggetti cercavano che non i pesanti mobili in noce. Gli Oretti avevano sotterrato alcuni beni come ceramiche di valore e simili in fondo al giardino dei Mori, ma tutto questo fu inutile perché i tedeschi individuarono il luogo e scavarono anche loro. I Rossi avevano portato le poche cose di valore e la biancheria a Coschine dalla Zia Giuseppa, ma fu un'idea sbagliata perché i tedeschi arrivarono anche lì e fecero razzia. A Poggiagrilli, i Bianciardi nascosero tanto grano in una stanza. In quella stanza stessa vi alloggiarono i tedeschi ma non si accorsero di niente. I Carli a Petroio: "...dentro le barche di grano, nel campo, ci s'era messo una damigiana d'olio e una di vino. Un carro armato la spostò ma rimase lì". A Viareggio si pensava che arrivassero pochi militari, perché era fuori mano e là "vi avevano seppellito tanti valori le famiglie di Quercegrossa". Nella capanna, i Bindi in una profonda buca avevano occultato gli ori di famiglia e lì sopra ci mangiarono i tedeschi. L'avessero saputo...
Più difficile si rivelò nascondere oggetti ingombranti o macchine ma anche qui non mancò la fantasia. Al Castellare sotto il viale dei cipressi fecero costruire dal Castagnini un grande ambiente murato alla meglio dove nascosero le macchine. Murata la porta d'ingresso e ricoperto il tutto con la vegetazione, era impossibile scoprirlo. A Viareggio sotto una parata, il Mosca aveva posteggiato il Topolino: tolte le quattro ruote e reso vecchio e sporco con un trattamento in modo che non attirasse le voglie dei militari di passaggio. Infatti nessuno lo degnò d'uno sguardo.
Curiosa è la storia della macchina di don Luigi Grandi, una Balilla acquistata pochi anni prima e in qualche modo "vittima di guerra": "La macchina Balilla era di Don Luigi e gli faceva da autista Dino Mori. Quando questi partì per il fronte la macchina rimase in garage tutta lustra. I tedeschi portarono via le ruote e dopo passato il fronte gli furono messe e aggiustate delle ruote d'aereo ... ma lo zio Dino, prigioniero in Germania, non tornava, e la Balilla fu venduta".
Ancor più curiosa e scalognata fu la sorte di alcune cose che Dante Oretti tentò di salvaguardare: "Il Moro aveva un motorino... i tedeschi requisivano... c'era una concimaia nell'orto, la vota e ci sistema il motorino ben coperto. Nell'orto ci caddero tre bombe e una di queste colpi concimaia e motorino". Gosto Bruttini ricorda che "Dante il Moro era sfollato anche da noi ... aveva portato un maialino ...lo teneva legato sotto una tettoia ...vicino al castro”. Quando poi i marrocchini inseguirono e persero Ruggero nei pressi del Mulinuzzo, se la presero col povero maiale: “I marrocchini gli tirarono una fucilata e lo trapassarono da parte a parte.... rimase inginocchiato per diversi giorni prima di morire.. per la disperazione del Moro". C'era un caporale francese che viaggiava con due fedeli compagni: una capra e un canino. Si chiamavano Aisha e Bubu. Chissà dove l'aveva presi.

Sfollati
Oltre che pensare ai beni materiali molte famiglie decisero di salvaguardare la propria incolumità personale portandosi là dove sembrava minore il pericolo. Si ebbe perciò il fenomeno degli "sfollati". Messe al sicuro le proprie cose, si incamminarono per Siena o verso i poderi più nascosti sperando di evitare le violenze della guerra.
I Socci per il passaggio del fronte, ma soprattutto dopo il fatto del rifugio della Magione, vanno a Siena dallo zio, fratello di Adriano. Il Dr. Pallini, allora Segretario Generale dello Spedale Psichiatrico di Siena, amico di famiglia le cui figlie avevano in passato goduto dell'ospitalità di Dina e Lea, le accolse in casa sua insieme alla zia Dina di Berto e la piccola Luisa. I Mori, almeno quello che c'era rimasto cioè Settimia e la zia Maria, dopo che per diversi notti avevano messo panche e mobili a ridosso del portone principale per difesa contro eventuali intrusi, erano sfollati a Faule. Ma quando Elio andò ad avvertirle del pericolo reale dei marrocchini, esse si portarono a Bucciano presso Siena, dalla zia Isolina "... e si passò tra ciurme di marrocchini". Dalla zia Isola rimasero rintanate in casa per diversi giorni. "Non andate fuori ... si piglia la falce ... si hanno paura della falce! ... e noi si moriva di fame. Aveva delle mele di campo e si mangiava quelle". I Bonelli del Mulino con i Merlotti risalirono la Staggia fino a Cavasonno: "Sfollai a Cavasonno. Si dormiva sotto il mulino, c'era anche la Merla (la moglie del Merlotti) che aveva Marcella piccola e teneva i panni stesi ... passavano le cannonate... glieli conciavano". Anche i Losi con tutte le loro donne, esclusi Damino e Maria, ripararono a Siena presso parenti nei giorni difficili dei marrocchini. All'Arginano la notte si riparavano nella stalla con le sue rassicuranti mura e poi facevano numero: "Anche la mamma del prete bello dormiva all'Arginano; s'era in tanti". C'erano anche gli sfollati dell'Arginanino, i Losi, che vi trascorsero tante notti. Giorni di paura e di angoscia, spesso isolati dal mondo. Non c'era famiglia poi che non avesse soldati al fronte. Alcune non avevano notizie già da molto tempo e anche questo contribuiva ad accrescere lo sgomento di quei giorni.

La liberazione
Si parla sempre di "liberazione" di Roma, di Siena, di Firenze ecc. come è giusto che sia, ma io parlerò della liberazione di Quercegrossa da parte delle truppe francesi e americane. Purtroppo non si conosce il giorno preciso di questo avvenimento che è quasi sempre stato sottaciuto rispetto agli altri fatti ricordati. Successivamente, alla pubblicazione, riprendendo l'argomento con Armando Losi, egli dichiarava che l'arrivo delle truppe alleate a Quercegrossa avvenne il 4 luglio. Inutile anche aggiungere che la liberazione non segnò la fine della guerra, anzi il peggio per molti doveva ancora venire. Vediamo dunque cosa successe dopo che abbiamo lasciato i nostri paesani in trepida attesa nei rifugi e c'è da dire che in quei giorni precedenti e nei successivi si vide poca gente in giro.
L'arrivo degli alleati però avvenne in un periodo vitale per l'agricoltura: la mietitura. Inevitabile quindi per i contadini continuare il lavoro e recarsi nei campi esponendosi a qualche rischio.
Conquistata Siena, immediata è la ripresa degli attacchi alleati che puntano celermente al Nord. La 2° divisione di fanteria marocchina ha il compito di attaccare in direzione Monteriggioni-Lornano-Quercegrossa-San Giovanni a Cerreto. Viene divisa in quattro gruppi di combattimento e per quanto ci interessa il gruppo "Platte" su Lornano e Quercegrossa e il gruppo "Turbet-Deloff" doveva dirigersi su Quercegrossa e San Giovanni per proteggere il fianco destro della Divisione. Il giorno 4, il gruppo Platte occupa Lornano e, senza incontrare resistenza, supera di poco Quercegrossa (forse percorrendo la strada di San Leonino si immette nella statale). L'altro gruppo, il Turbet-Deloff, supera San Giovanni a Cerreto e si spinge vicino alla Canonica mentre una parte di esso dovrebbe essere quello che è giunto a Quercegrossa accolto da una popolazione festante. Nel frattempo iniziano i cannoneggiamenti di artiglieria tedesca dalle alture di Vagliagli e da sopra Fonterutoli su tutto quello che si muoveva a Quercegrossa e dintorni, causando il ferimento di civili e anche morti nei campi di Basciano e delle Badesse. Ma la scelta tattica effettuata dal comando alleato, che puntò a sfondare il fronte a Poggibonsi e non nelle alture del Chianti, risparmiò a Quercegrossa quei combattimenti che potevano distruggere totalmente il paese e arrecare molti più danni e lutti. Gli alleati, infatti, effettuarono un grande sforzo militare sulla Cassia verso Poggibonsi, ma tra le mine, l'artiglieria tedesca e la resistenza della fanteria, la città spopolata sarà liberata soltanto il 18 luglio. Dopo questa data l'esercito tedesco ripiegherà verso la linea gotica per una ulteriore resistenza. L'artiglieria tedesca abbandonerà le alture circostanti Quercegrossa e le truppe francesi con i loro marrocchini si muoveranno verso nord per essere richiamate poco tempo dopo e impiegate sul fronte francese. E così cesserà per sempre ogni minaccia di guerra e quel triste capitolo delle violenze.
La sera del 3 luglio, intorno alle 22, alla Ripa arrivò il Fosi di Belvederino e chiamò Augusto. C'erano anche dei capitani francesi e il Fosi li avvisò che i tedeschi erano al Capanno fra la Torre e Vagliagli e al viale di Petroio. Fece questo per far del bene ai civili. I francesi pretesero da Augusto e altri di sgombrare la strada nel tratto dalla Ripa fino alla strada statale, interrotto dai numerosi alberi tagliati da tedeschi e fatti cadere sulla sede stradale. I francesi rimasero tre giorni intorno alla Ripa prima di avanzare su Quercegrossa, e furono tre giorni di scaramucce. Quando erano arrivati, un colpo di fucile era esploso tra la truppa e in questo incidente perì un marrocchino.
Finalmente, dopo i primi giorni che si possono definire di studio per saggiare la resistenza nemica, gli alleati con i loro corazzati si mossero in direzione Quercegrossa.
Venne don Bruno Franci ad avvisare che le truppe si dirigevano al paese e in breve la voce raggiunse tutti nelle case e nei rifugi. All'Arginano quando arrivarono gli alleati, la gente “fece come al giro”. Si schierarono lungo la strada e accolsero i militari con evviva e applausi e offrirono ai soldati prodotti come uova e altro, come se gli alleati non ne avessero. Appena si diffuse a Quercia la voce dell'arrivo dei soldati, Giangio del Losi chiamò a raccolta nel Palazzaccio e disse tutto agitato: "Oh gente! Andate tutti al rifugio". “Ci si andò, ma non ci si sentiva di stare laggiù in un momento importante come quello, e si tornò, e si prese la strada verso Siena proprio mentre arrivavano le avanguardie. Si incontrarono al Leccino”, rammenta la zia Gina,“C’era un nero ... io l'abbracciai e gli dicevo ... meno male che siete arrivati". I cannoni tedeschi, fortunatamente e inspiegabilmente, tacquero. Arrivarono anche i carri armati, erano americani, una quindicina. Ma al Leccino Nuovo, dove era la cabina della Sirti, sulla strada dove era saltata la mina tedesca, si fermarono. Fecero dietro front e si accamparono nel campo del Castellare. Messi in circolo con gli altri automezzi fungevano da confine dell'accampamento dove i soldati americani passavano poi le loro giornate a giocare a poker. La buca del Leccino venne ricoperta parzialmente da una ruspa dei francesi in modo da far passare gli automezzi. I giorni seguenti Damino del Losi, che si levava alle 3.30 per governare i bovi dopo aver fatto il segato e si metteva a sedere nella sua pietra a fianco della porta della stalla, osservava tutto e quando i motorizzati alleati incominciarono a dirigersi verso il ponte del Mulino, Damino diceva loro tutto preoccupato, come se lo capissero: "Tanto non passate, ritornate indietro, non passate". E dopo mezzora, quando tornavano indietro era sempre lì a dire soddisfatto: "Ve lo dicevo che tornavano indietro". I tedeschi, come si sa, avevano fatto saltare il ponte. Una scenetta che si ripeté, ma che durò poco. Gli americani furono sbrigativi, portarono i caterpillar, spianarono la strada e gettarono un ponte provvisorio; così Damino smise di dirgli che non passavano.
Anche se priva della veemenza dimostrata in altre occasioni, l'avanzata alleata procedeva seppur lentamente e i tedeschi, che controllavano ancora la zona di Passeggeri e di Petroio con tutto il retroterra verso Vagliagli, opponevano una debole resistenza preferendo ritirarsi dopo i primi scontri. Truppe della fanteria marrocchina spandendosi verso i suddetti centri vennero a contatto con i nemici. Alle Redi, dove poi fu fatto il pozzo, c'era un pagliaio e il Ferrozzi da dietro vide dei marrocchini che facevano capolino dal borriciattolo lungo il campo. Aveva dei tedeschi in casa che stavano scrutando col cannocchiale i campi intorno per avvistare nemici. Ma non li videro, fortunatamente non si videro, e tutto fini lì. Poi i tedeschi partirono. A Passeggeri avvenne uno scontro violento fra tedeschi e alleati nei campi e alla Torre, ma la mattina non c'era più nessuno. Così avvenne anche tra i boschi che vanno dalla Catena a Sornano, ossia il bosco del cimitero, dove per l’intera notte si scontrarono i fanti dei due eserciti. I tedeschi da Sornano sparavano facilmente e Giulio Carli quel pomeriggio si trovava nel bosco di fronte quando cominciò a veder cadere ramoscelli e foglie dalle piante, senza capire cosa succedeva; erano le pallottole tedesche che le recidevano. “Ma che sei matto” gli dissero in casa “Non devi andare nel bosco”.
Si narra di un fatto visto alla fonte della Torre che non è nuovo nelle cronache di guerra: "Un tedesco e un francese caddero lottando nella fonte ... gettarono via le armi ... e si abbracciarono; come andò a finire non si sa". Inoltre ho sempre sentito parlare di scontri nei campi di Poggiagrilli, ma niente d'importante.
Una colonna motorizzata di francesi e marrocchini si diresse dal Castellare ai piani del Mulinuzzo, diretti alla Magione per occuparla. Passarono dai campi tra Gardina e il Castello dove vicino si trovava il rifugio detto "della Magione". Come poi vedremo, furono queste truppe che, conosciuta la posizione del rifugio, vi ritornarono nottetempo e commisero la violenza, ricordata da tutta la popolazione fino ad oggi, per l’impressione che fece e per l’allarme che creò.
Gli attacchi di fanteria erano supportati da Carri che prendevano posizione a ridosso dei combattenti. A Petroio ne piazzarono uno al fico. Ma prima l’enorme carro si era mosso avanti e indietro tra Petroio e il cimitero rischiando anche di capovolgersi alla fonte, poi entrò nell’aia davanti alla capanna del Lusini e la rivoltò solcandola e passando tra le due cantonate delle capanne le demolì entrambi. In quei momenti di confusione, mentre truppe alleate si erano attendate nel campo del Moro, avvenne un episodio incredibile. Dalla strada del Casino sbucò improvvisamente un carro Tigre tedesco puntando verso Quercia. I soldati americani appena li videro, presi di sorpresa, come quando si stuzzica un formicaio cominciarono a sparpagliarsi e sparare con le armi leggere a più non posso. Il carro come se niente fosse passò e se ne andò verso il Mulino di Quercia imboccando lo stradone. Solo pochi videro questa scena.

Le artiglierie
Ridotti al minimo i combattimenti terrestri, il fronte si stabilizzò con tutto il territorio di Quercegrossa sotto controllo alleato. Ma dai poggi di Vagliagli, minacciosi, puntavano le loro bocche i cannoni tedeschi. In questa situazione la prima cosa che fecero gli americani fu quella di installare numerose batteria d'artiglieria nei posti più riparati e nello stesso tempo utili per il loro tiro verso il nemico e colpire tra Vagliagli e Castellina. Una batteria era nel fondo della Ripa. Sotto il Castello ne posizionarono una da 105 con diversi pezzi, senza pausa martellavano i tedeschi verso Fonterutoli: la torre della Leccia fu completamente distrutta. Altre, sempre americane, erano nascoste alle fonti di Macialla e sparavano verso la Stella e una era piazzata nel campo della Cornacchia. Altre ancora ve ne erano: fu un duello incessante e sembra siano stati sparati 13.000 colpi. La massa dei bossoli rimasti era imponente e non è raro trovarli anche oggi, belli lucidi in qualche famiglia usati come portafiori. Il continuo cannoneggiamento servì soltanto a limitare i movimenti dei soldati alleati causando loro qualche lieve perdita e per quanto ci riguarda i numerosi proiettili danneggiarono case e beni in maniera leggera e provocarono il ferimento di alcune persone. Se i cannoni avevano taciuto al momento dell'incontro con i liberatori, più tardi, in serata, una serie di cannonate cadde nei pressi del rifugio del Dorcio e Iolanda Giannini venne ferita da schegge. Il momento divenne tragico, era il primo sangue di Quercegrossa. Silvano Socci corre dai francesi che hanno l'infermeria in casa Mecacci a Casagrande e alla richiesta di intervento perché c'è una ferita la risposta è negativa, "Appena soccorriamo i nostri", fanno capire. "La guerre c'est la guerre" gli dice un tenente, ormai avvezzo da tempo ai feriti. Ma gli danno una barella, di quelle di tela che si chiudono, e via. Iolanda ferita al fianco è in preda al dolore. Silvano cerca un aiuto, ma tutti si defilano mentre continuano a cadere proiettili, solo Dante del Brogi si presta. Si avviano faticosamente su per la salita del Dorcio. Le bombe cascavano fitte e scagliavano intorno schegge, sassi e terra. Al riposo rimasero fermi, schiacciati a terra per cinque minuti. Quasi trascinano la barella con la ferita che si lamenta e ogni pochino si fermano. Infine la consegnano ai francesi che la caricano su un'autoambulanza di quelle grosse, e subito all'ospedale.
Quel pomeriggio cadde l'inferno nei campi tra il Castello e il rifugio di Quercia. Una compagnia someggiata di marocchini, lì accampata, fu presa di mira e il tiro dei cannoni si rivelò mortale. Due marocchini ci rimisero la vita e insieme a loro una decina di muli. I corpi dei due soldati, insanguinati, furono lavati dai loro commilitoni nella fonte del Castello. Pulirono e lavarono anche alcuni pezzi di mulo che certamente devono essere poi finiti arrosto. Le carcasse di questi animali rimasero sul terreno due o tre giorni poi furono bruciate. Pochi giorni dopo, sempre al Dorcio, anche Mario Rossi sarà colpito da una scheggia di una cannonata. Il suo ferimento avvenne in circostanze del tutto casuali che meritano di essere ricordate: "Il babbo Egisto aveva nascosto due balle piene di scarpe e un bel paio di stivali regalategli dai tedeschi". Decise di recuperare il tutto e chiamò Maria e Mario. Maria la condusse con sé e a Mario ordinò di prendere il sacco poco lontano celato lungo il ruscello. Poco dopo la partenza un diluvio di proiettili si abbatté sulla zona: il babbo e Maria si proteggono a vicenda, impauriti, stretti l'uno accanto all'altro mentre scoppi e sibili si odono vicino. Presa la balla fecero ritorno al rifugio, ma ahimè trovarono Mario ferito ad una gamba da una scheggia: era sanguinante. C’erano anche dei militari feriti. Arrivò un camion militare, caricò Mario e i soldati feriti e tutti sono trasportati a Buonconvento, dove si trovava l'ospedale da campo centrale dei francesi. Mario però è un civile e viene rispedito all'Ospedale di Siena. In questa perdita di tempo l'emorragia si era fatta pericolosa. Giunse esangue all'ospedale e se la cavò per miracolo. E quando arrivarono i familiari "era bianco come un cencio". Le schegge portavano infezione ma non ci furono complicazioni, anche se un pezzo di ferro gli rimase nella gamba. Lo curò il prof. Bolognesi. E gli stivali? La sera, quando sul tardi Egisto Rossi al rifugio aprì la balla e ne tirò fuori un bel paio di stivali lucidi pronti per essere indossati, una voce risuonò nella grotta: "Ma quelli sono i miei stivali!". Era il Moro, ossia Dante Oretti, che riconosciutili si affrettò a riprenderseli lasciando il “poro” Egisto sconsolato e senza parole. I tedeschi razziavano e poi regalavano ad altri come in questo caso. Ma la vicenda non finisce qui. Alcuni anni dopo, mentre Mario dormiva, la scheggia di quella maledetta bomba gli uscì dalla gamba liberandolo dal dolore che lo tormentava e mettendo fine a tutta la storia.
Damino in piazza a Quercia, il giorno dopo disse a un contadino che andava a macinare al Mulino: "Digli al mi' genero che porti via quella citta che ce l'ammazzano laggiù". Non aveva torto. Un paio di proiettili colpirono il Mulino. Uno, come già detto, scoperchiò il tetto l'altro "rovinò le scale e abbrustolì le pecore" facendo grandi macerie. Ma questo avvenne nel tempo in cui i Bonelli con Duilia Losi erano già sfollati. Un caso che ha del miracoloso e che viene raccontato da chi c'era, proprio per la sua eccezionalità, avvenne in casa Giulianini a Macialla. Arrivò il proiettile della solita cannonata da Vagliagli ed entrò dalla finestra andando a colpire la cassa della farina senza esplodere. Il proiettile difettoso e la farina che attutì il colpo, fatto sta che questa bomba non esplose e rimase incastrata. Pierino si trovava a due metri con altri familiari e la strage fu evitata. Nessuno ebbe il coraggio di toccarla e furono chiamati gli artificieri che arrivarono alcuni giorni dopo. Nel frattempo i Giulianini andarono a dormire dai Carusi e dai Finetti. I militari di passaggio entravano a vedere il proiettile e dicevano "avere bomba in casa". Fu predisposta una buca lontano dall'abitazione e vi calarono il pezzo e lo fecero esplodere. Nel sentire il botto ai Giulianini deve essersi accapponata la pelle.
Don Luigi Grandi in quelle giornate di pericolo era spesso al Mulinuzzo. Quella sera era a sedere con i vecchi del Bruttini a chiacchiera. All'improvviso un lungo sibilo rompe la pace. Cade una bomba e colpisce l'angolo della casa con lievi danni, ma con grande fragore che fece saltare gli impauriti vecchi e anche qui la paura fece venire in cuore in gola. Nel campo dell'Arginanino un gruppo di donne era intento a raccogliere albicocche. Un sibilo e due proiettili esplosero nell'aia, poco distante da loro. Passato l’attimo di stordimento e paura si resero conto che per fortuna nessuna era stata ferita. A Petroio i Carli sono nel rifugio e si deve andare a prendere la cena. Fuori è tutto un esplodere di granate. Parte Giulio, coraggiosamente striscia sulla collina come un serpe, qua e là rimbombano gli scoppi. Arriva in cima e si rende conto di essere rimasto completamente spogliato. In casa Carli al Paradiso quel pomeriggio si trovavano nella stanza delle pecore perchè non potevano trascurare il lavoro. Era in atto un cannoneggiamento e un proiettile colpi la casa, entrò dal tetto in cucina e cadde sulla tavola dove scoppiò con fragore. Ammortizzata dal piano di legno della tavola l’esplosione distrusse ugualmente ogni oggetto della stanza e causò danni ai muri e al pavimento; solo la statua della la Madonnina di Fatima rimase al suo posto attaccata alla parete. Dopoguerra i Carli ricevettero il danno di guerra. In paese oltre il proietto caduto nel campo del Moro si ricorda quello che cadde sull'angolo della casa del Losi, su Casagrande, e demolì parte del tetto della camera di Maria. Un mulo che trasportava piccole munizioni nel campo dell'Arginanino fu ucciso da una scheggia e fu seppellito con il carico di cartucce. Qualche tempo dopo Dante Oretti, saputo del fatto, riesumò il mulo per prendere le cartucce che avrebbe usato per la caccia. Le prese, ma a caro prezzo per il puzzo e il fetore della carogna in decomposizione.
"Alla bocca Sud del rifugio s'era apprestato tutti le pentole e piatti per mangiare. Una bomba cadde vicino facendo saltare tutto per aria ... ". Armando aveva nove anni e i ricordi sono ben impressi nella sua memoria: "Un francese mi portava a giro con la jeep ... appena si partiva l'artiglieria tedesca iniziava a sparare ... una volta una cannonata cadde nell'aia dell'Arginano ma noi s'era già al riparo. Poi mi fecero smettere di andarci”. Era finito il pane all'Arginano nessuno ne aveva. Un cuoco francese disse: "Stanotte si fa il pane". Detto fatto, “ma appena acceso il forno i tedeschi iniziarono a spararci con l'artiglieria. L'oscurità impedì loro di vedere e smisero e così si fece il pane". Ezio Mecacci di Quercegrossa aveva fissato il matrimonio proprio in quei giorni e si sposò, a San Leonino. Nel ritorno con il Becciolini di Castellina furono bersaglio di una lontana mitragliatrice tedesca ... "e scesero alla svelta dalla macchina".
Chi si reca a Petroio può, ancora oggi, osservare un proiettile inesploso rimasto conficcato nel muro della villa e lì lasciato arrugginire. Ma la storia di questo proiettile è più complessa di quanto sembra. E’ vero che colpì la villa e non esplose, ma cadde a terra spezzato in due e il Pallini dopo averlo recuperato comandò che fosse murato proprio lì dove aveva colpito. Nei dintorni di Quercia si registrò la morte di Gino Fiaschi della Staggia, che morì nel bombardamento mentre faceva la mucchia nel campo: una cannonata e una scheggia. Dopo tre o quattro giorni Annina, la moglie, viene violentata dai marrocchini.

Marrocchini
Oltre alle cannonate che potevano colpire ovunque, un’altra grande quanto impensata emergenza si prospettò al popolo di Quercegrossa: la prepotenza dei soldati. E' risaputo da tutti e la storia insegna che là dove sono soldati ci sono violenze a danno della popolazione, ma mai nessuno avrebbe immaginato che in pieno XX secolo il fenomeno dovesse assurgere a dimensioni così preoccupanti e sistematiche. Nessuno, né uomo né donna, né giovane né vecchio, si poteva considerare fuori pericolo. Con i tedeschi non ci fu male, anche se si mormorano storie di aggressioni e violenze la cui conoscenza è rimasta in ambito familiare. Ma con l'arrivo degli alleati e le truppe marrocchine al seguito, si manifestarono apertamente le tendenze aggressive di questi ultimi e non bastarono la prudenza e la forza per proteggersi. Il fatto che mise in guardia e impaurì tutti avvenne al rifugio della Magione e da allora la falce e la zappa, di cui si diceva che i marrocchini avessero paura, divennero compagni inseparabili di chi lavorava o si spostava all'aperto. Tornando alla colonna motorizzata che si sta dirigendo verso la Magione per occuparla passando dai piani del Mulinuzzo, i soldati si videro venire incontro delle donne che salutavano e poi li abbracciavano come liberatori. Si fermano e si trattengono vicino al borro tra il Castello e Gardina. "Le donne indicano loro il rifugio e i francesi dicono loro di mettere degli stracci bianchi vicino al rifugio per riconoscerlo nella notte. Tornano verso le dieci, ed erano marrocchini. Prima passano da Gardina dal Pizzichi, fanno cena e bevono, si ubriacano, vanno al rifugio, sono in 7/8. Piazzano una mitragliatrice davanti a una bocca, dall'altra gli uomini scappano, hanno paura della deportazione, restano solo vecchi, ragazzi e ... donne. Entrano i marrocchini, uno aggredisce Marina del Vigni, gli punta la pistola e quando cerca di metterle le mani addosso lei si divincola, lo prende per il collo e manca poco che lo strozza ... e fugge. Gli altri prendono la servetta del padrone di Gardinina, che veniva dal Castagno con la moglie, ma si era allontanato anche lui, ... e la violentarono per tutta la notte. Questa ragazza rimase al rifugio in gravi condizioni. La mattina arrivò una camionetta di francesi che erano alla villa Parigini, la portarono all'ospedale e non l'ho più rivista. I francesi presero due marrocchini responsabili dell'accaduto. Ad uno gli fecero mettere le mani sopra il pozzo di Masiero al Castellare e con una canna giù botte, l'altro fu inviato contro i tedeschi". Ho ricostruito il fatto attraverso la testimonianza di un ragazzo presente che era rimasto all'interno del rifugio mentre la famiglia si era allontanata poco prima con don Luigi Grandi e altri bambini piccoli. Assisté alla scena, non visto, da dietro una cassetta di legno. La grande ingenuità di quelle persone che nel momento non si resero conto del pericolo fu alla base della violenza che servì poi d'insegnamento per tutti. Nel linguaggio di quei giorni e successivi entrò in uso il detto "dare noia", oppure "gli diedero noia" e "i marrocchini davano noia". Parole significative che esprimevano un concetto chiarissimo ma per il quale non si potevano usare altri termini. Siamo a luglio e le donne devono andare nei campi e segare, allora..."Si andava nel campo a segare e il babbo ci metteva in fila con le falci in mano, lui davanti e lo zio di dietro ... i marrocchini venivano con noi nel campo a guardare". Quel giorno era particolarmente insistente la presenza di marrocchini nei paraggi e a Monastero ti inventarono un nuovo metodo per nascondere le giovani ragazze. Le fecero entrare in quei tini di cemento che erano stati costruiti sul posto, poi murarono lo sportello di fronte e ve le tennero alcune ore, al buio, con un filo d'aria. Entrarono nel tino le donne dei Cennini e a sera, passato il pericolo, uscirono. A tanta prudenza si contrappose anche un superficiale comportamento che probabilmente ebbe dei riscontri dolorosi ma che non ci è dato sapere e solo in alcuni casi sono documentati. Nei pressi di Petroio il Carli vide una ragazza che ridendo e scherzando con un gruppo di marrocchini si stava avviando verso il bosco. Comprese subito cosa stava succedendo e la chiamò a voce alta ordinandole di raggiungerlo. I marrocchini, che già pregustavano la loro violenza, non reagirono di fronte a tanta decisione e lasciarono perdere.
Come detto i marrocchini si presentarono anche al rifugio di Quercia ma la presenza di molti uomini li convinse a desistere. Questo fatto però mise in ambasce Egisto di’ Rossi che comandò alle sue figlie di andare a Siena dai parenti: "Dopo l'increscioso fatto dei marrocchini che avevano dato noia ad alcune ragazze in un vicino rifugio, il babbo ritenne più sicuro spedirci a Siena dalla Zia Pollini. Si partì per Siena con le mie sorelle. Al poggio un soldato ci disse: "Ma dove andate disgraziate", perché bombardavano. “Bisogna andare”, disse Gina, “perché ci sono i marrocchini che ci chiappano”. Il viaggio di andata, come al solito a piedi e vestite di pesanti cappotti inadatti per quel caldo mese di luglio, fu compiuto attraversando le formazioni francesi che, fortunatamente, le riempirono di scatolette e altri doni. “Giungemmo a Porta Camollia in condizioni di stanchezza totale con questo sacco di alimenti, si sembrava (perché s'era) degli sfollati; e la gente "Ma da dove venite?", "Dov'è il fronte?". Erano giorni al buio: tutti volevano sapere che succedeva perché non c'era nessun tipo di informazione. “Dopo un po' di tempo si decide di tornare per rivedere il babbo. Anche allora spuntavano marocchini armati, con dei musi, che ci puntavano: si limitarono a guardarci. Ma la paura fu tanta. Babbo Egisto si meravigliò nel vederci e disse: "Ma perché siete tornate? E’ pericoloso!". Il pericolo era l'assillo di tutti in quei giorni bruti. Adelmo Finetti visse la sua avventura così: "... al ponte di Castagnoli un marocchino e un francese di pattuglia mi presero l'orologio ... mi guardarono nel portafoglio e mi mandarono via. Feci venti metri mentre loro discutevano animatamente ... mi sento chiamare dal francese che mi restituì l'orologio (forse aveva capito la meschinità del suo gesto). Dopo alcune ore, quando passarono da Monastero, mi guardò e si mise a ridere, ma la paura era tanta perché si sentivano dire delle cose poco piacevoli. Avevo paura che mi portassero lungo il fiume ...". In un’altra circostanza il coraggio e l'astuzia salvarono il malcapitato: "Modesto Rosi della Staggia veniva a fare il barbiere dal Furino, a dargli una mano. Una sera mentre tornava a casa i marrocchini lo presero... si incamminarono e passarono sui bordi della gora del mulino piena di acqua .. era un passaggio stretto .. Modesto tentò il tutto per tutto, una spinta ai due marrocchini e giù nell'acqua ... lui svelto si riparò poco lontano sempre nell'acqua che gli arrivava fino al collo ...in posizione nascosta, al buio ...invano i due marrocchini inferociti lo cercarono per tutta la notte". Alla Magione con l'insediamento del comando francese nella casa del Soldatini la situazione migliorò. Tre o quattro marrocchini ubriachi trovarono Gosto di’ Sequi lì vicino.. "Ficche ... ficche", dicevano. "Ma che ficche ficche" disse Gosto e riuscì ad allontanarsi. Un altro episodio, abbastanza vivace vide Ruggero protagonista. Poteva avere anche un finale diverso, drammatico, ma ci rimise solo un povero suino di Dante Oretti, come gia detto: "A Quercegrossa, nel campo della chiesa e del Losi c'erano accampati i francesi con dei marrocchini ... alcuni di loro si diressero verso il Mulinuzzo ... strada facendo trovarono Ruggero e tentarono di prenderlo ... lui fuggì e si rifugiò nella nostra capanna al Mulinuzzo ... gli inseguitori iniziarono a spararci alle finestre mentre Ruggero si allontanava verso la Capannetta ... lo videro e fu nuovamente preso di mira dai marrocchini ... sparì tra i campi ... ma a farci le spese fu il maiale del Moro. Avevamo anche del suo pollame, del Brogi e del Curato, ma questo non lo toccarono. Mio cugino che aveva visto tutto, corse al Castellare a chiamare i francesi che vennero subito e presero i marrocchini che ancora indugiavano intorno alla casa ... e li tonfarono forte forte, bene bene".
Denunciare ai francesi le malefatte dei marrocchini serviva soltanto a far scattare, e non sempre, la giusta punizione ai rei. Forse era impossibile addirittura applicare delle misure preventive alle loro malefatte. Per questo l'unica ritorsione che essi temevano era la violenza nei loro confronti, che alcune volte ebbe qualcosa di fantasioso. S'è già ricordato che a Macialla un marrocchino fu picchiato selvaggiamente sulle mani e al Mulinuzzo furono pestati a sangue. A Quercegrossa invece nel giardino dei Mori "Due marrocchini furono seppelliti fino al collo perchè avevano tentato di dare noia alle donne e uno fu legato ai rami dell'alloro". Ce li tennero alcuni giorni. “Noi s'aveva paura perché si pensava fossero morti". Io ricordo i due avvallamenti nel terreno che si vedevano ancora negli anni Sessanta. In altra circostanza a Petroio "picchiarono a sangue un marrochino perchè rubava". In quei giorni si poteva anche rischiare di diventare vittime per un caso qualsiasi come ricorda Gosto di’ Bruttini: "Nel campo del Moro c'erano francesi e marrocchini. Ci incolparono di aver rubato un fucile a un soldato. Presero me, Sergio Losi, il Moro e il Bandini Giovanni, ci minacciarono. Meno male che il fucile fu ritrovato nel pozzo del Moro ... la paura fu tanta". A Vagliagli i tedeschi presero 10/12 persone e le volevano fucilare. C'èra anche Dino Finetti, ma ce la fece a sfuggire alla cattura. Era andato a Vagliagli per essere al sicuro: "Vai via, vai via" gli disse Berto Bruni. C'era stata la retata al Palagio con il fatto di Bruno Bonci.

La Guerra è finita
Con la caduta di Poggibonsi e il successivo arretramento del fronte iniziò un periodo di convivenza pacifica con le truppe alleate che stanziarono ancora per qualche mese nella zona di Quercegrossa e in questo tempo arrivarono anche i soldati del ricostituito esercito italiano, inquadrati nelle divisioni Mantova e Legnano composte da bersaglieri e alpini. I rifugi furono abbandonati e gli sfollati rientrarono velocemente alle abitazioni. In alcune, come nella villa dei Mori, si presentò uno spettacolo indecente causato dai tedeschi: la biblioteca, retaggio degli Andreucci, era stata completamente devastata e fu perso tutto il patrimonio librario. Alcuni mobili rovinati e molti canterani presentavano i cassetti pieni di escrementi. La stanza del vinsanto l'avevano presa per gabinetto ed era piena di m.... e non risparmiarono neppure l'elegante cappellino della sora Emilia perché vi avevano c.... dentro. Spettacoli simili si presentarono un po' dappertutto.
Un ricordo ancora vivo in tutti è il passaggio di un famoso personaggio inglese, verso agosto o settembre 1944. C'è chi dice sia stato Churchill e alcuni giurano di averlo visto col suo sigaro in bocca, altri dicono che fosse Montgomery o Chamberlain, in realtà si ebbe il passaggio del re Giorgio V d'Inghilterra diretto a Radda. Fatto sta che quella mattina i soldati inglesi costrinsero la popolazione a restare in casa con le finestre chiuse, mentre passava la colonna che portava l'uomo famoso... “e come puntavano col fucile!”. Ma quasi tutti erano a scrutare dalle persiane.
Sparì la paura ma i problemi rimasero. Molte occupazioni erano ridotte, la miniera era chiusa, le fattorie non prendevano ed era difficile sbarcare il lunario per chi non era contadino. Anche di questi mesi, vivi sono i ricordi della gente di Quercegrossa. Sul piano strettamente militare la nostra zona era divenuta terra di retrovia. Ai francesi e agli americani si sostituirono gli inglesi dell'VIII armata che comprendevano anche reggimenti coloniali come neozelandesi, indiani e australiani. Le truppe erano accampate al Castellare, a Quercia, all'Olmicino e al Mulino e le loro tende formavano vaste distese bianche. Se sul piano umano gli americani erano stati apprezzati, molto meno lo furono gli inglesi che si rivelarono dei "fetenti" secondo il parere di alcuni. Gli inglesi furono meno simpatici anche perché si scoprirono meno generosi degli americani. I rapporti furono deteriorati anche dalle frequenti scazzottate che avvenivano la sera nella Società fra civili, soldati italiani e inglesi, quando passato il fronte si era iniziato a ballare a Quercegrossa: "La sera ballavano a Quercegrossa ... cazzotti a non finire con gli inglesi". Silvano rammenta un fatto personale: "S'era in sala, un inglese mi chiama, "caman, caman". Mi vuole fuori. Appena mi avvicino mi aggredisce con una scarica di cazzotti. Tento di difendermi...era completamente ubriaco.. esce Stampone.. che quando capisce entra subito in lizza e comincia a colpire l'inglese. Dal di dentro sentono le botte e inizia una rissa generale.. tante donne scapparono dalle finestre .. un fuggi fuggi generale, in poco tempo la sala si votò". Dimenticavo di aggiungere che l'inglese voleva ballare con Lea: a quel punto Silvano l'aveva chiamata per andare a casa.
I neozelandesi si erano accampati all'Olmicino e ai Bosconi dove c'è la vigna che viene ai Selvolini. Silvano: "C'erano centinaia di tende.. e noi ragazzi con Spartaco e altri gli si portava il vino. Uno contrattava saponette e sigarette e gli altri due entravano ratti, ratti nelle tende vuote rubando quel che capitava. Qualche sera dopo si arriva e si vede un atteggiamento meno cordiale del solito senza saluti, anzi. Formano istintivamente un cerchio intorno a noi, ...si erano accorti ..ci presero a calci e ci rispedirono a casa". Erano tempi difficili e ci si ingegnava in tutto. Settimia: "Si lavavano i panni ai soldati francesi e inglesi. Ci pagavano e si era fatto cento scatolette di sapone. Chi non pagava in contanti ci dava scatolette di carne. Si mettevano tutti i nomi sui panni.. gli s'erano messi dei soprannomi: uno era "Pipetta". Quando andarono via ci lasciarono 2 balle di farina di riso".
Subito dopo il fronte verso il 20 luglio, gli alleati davano lavoro a sistemare le strade, ecc. Silvano va al comando alla Lizza: "Sono di Quercegrossa, è tutto chiuso, non c'è lavoro nè possibilità di lavorare" disse al neozelandese di turno. In quel mentre entrò un ufficiale indiano Vanno in altra stanza, parla in italiano e gli chiede cosa c'è. Silvano spiega ... l'indiano ribatte: "Quanto è lontano dalla Stazione di Castellina?... Stiamo costituendo un centro SURPLUS e c'è la possibilità di lavoro per 20 persone ... prepara la lista anche domani. Vengo a casa e trovo una ventina di persone tra le quali Ines Losi, Gina Rossi, Ida Fanetti e altre, oltre ai minatori. “Porto la lista ... Lei è responsabile ... La mattina alle otto e la sera alle cinque vi portano con i camion ... si dà tè e scatolette per mangiare”. Quando il fronte si bloccava gli americani costituivano dei grandi magazzini a ridosso delle truppe, poi avanzavano e creavano un nuovo magazzino e vi trasferivano tutto il materiale che era nel vecchio. Il lavoro consisteva nel caricare i camion del materiale selezionato: vestiario da sé, sapone da sé, telefoni da sé, ecc. Durò circa tre mesi. Chiesero anche se c'era qualcuno per servire a tavola e ci andarono alcune ragazze. "L'ufficiale veniva a trovarmi a casa mia. Ci propose anche di seguire il fronte sulla linea gotica ... ma non ci s'andò".
Quando partirono i neozelandesi e lasciarono il bosco di Viareggio dove erano accampati, fecero una grande buca di 3/4 metri in profondità e vi nascosero tonnellate di roba. Forse pensavano di tornare a prenderla, ma non si rividero. Dopo tre/quattro mesi gli uomini della zona si fecero coraggio e tentarono il recupero di questo materiale. Scavarono e rinvennero una grande cassa con dentro caratelli, scatolette di carne, una cassa di ferro, coperte militari di color verde, una cassetta e altre cose razziate chissà dove. Vi trovarono anche una scatola di legno decorata che conteneva cioccolata. Ma c'erano anche pistole, fucili e tante bombe a mano. Alla vista delle armi, sia per timore che per prudenza, decisero di non procedere al recupero delle altre casse e ricoperta la buca le lasciarono lì dove certamente ancora si trovano. Inoltre lasciarono a Viareggio tante tende. Numerosi anche i mezzi abbandonati nei boschi e nei luoghi più impervi che per anni servirono per i giochi dei piccoli guardiani o per cava di ferro ai contadini: "Un Carro Armato Tigre nella Serchia sotto Vagliagli, a San Giusto alle Monache, tenne il fronte per alcuni giorni. Si guastò, rimase lì e dopo fu smontato pezzo per pezzo".
Siamo già al dopoguerra e la vita riprende lentamente nelle fattorie e nei poderi ma ancora ci sono tanti residui bellici semisepolti nei campi e pronti ad esplodere al minimo urto. Anche la polvere residua fu usata dai ragazzi per fare giochi e fuochi artificiali. Beppe Mori, che era sordomuto e non aveva paura di niente, nel pozzo davanti casa aveva recuperato due bombe e le teneva in mano facendole vedere. Tutti scapparono, le donne del Mori si affacciarono alla finestra impaurite mentre Silvano Socci riparato dietro il portone berciava: "Beppe ... pericolo ... buttare ...". "Niente paura, niente paura", rispondeva Beppe e armeggiava pericolosamente i due ordigni che potevano esplodere con conseguenze mortali. Marcello ricorda uno spiritoso scherzo giocato a Livia: "Nel bosco presso il ponte del Bozzone erano rimaste delle bombe a mano. Una aveva ancora la spoletta intatta. Ero con Elio Nocciarelli. Che si fa, si tira o non si tira? Senza pensarci oltre, Elio tira la spoletta e senza contare come si doveva, la lancia. La bomba supera il greppo e rotola nel campo. C'era Livia con le pecore.. alcuni secondi e uno scoppio secco ma potente risuonò nel piano. Le pecore saltarono per aria dalla paura e si dispersero schizzando qua e là verso la Casanuova. La povera Livia per un attimo intontita dalla paura, borbotto fra sé: "Aiuto, è scoppiata la guerra" e poi incominciò a berciare aiuto".
Negli anni successivi si diffuse la voce che i funghi buoni raccolti in prossimità di schegge e ordigni fossero velenosi, cioè avvelenati dal piombo dei proiettili, ma non so quanto sia attendibile questa tesi. Il problema dei residuati bellici, che causò migliaia di vittime in Italia, sussiste fino agli anni Sessanta quando ancora leggevo alla scuola media manifesti che mettevano in guardia sul ritrovamento di bombe e proiettili. Tanti e incoscienti giovani si divertirono a provocare esplosioni lanciando bombe a mano o facendo brillare mine o altro. A molti andò bene, qualcuno ci rimise, chi una mano, chi un occhio, ma tanti incidenti furono casuali. Tra le sfortunate vittime di questi ordigni si registrò il caso dei due fratellini Franco e Mirella Papi nei boschi di Romito dove erano tornati da poco. Nati a Quercegrossa, all'Olmicino, da Arturo e Pia, otto anni Mirella, più piccolo Franco, erano dal 1943 a Romito. Ora riposano nel cimitero di S. Leonino "vittime entrambi di un relitto di guerra nella sera del 23 novembre 1944". Anche la vasta opera di bonifica continuata per anni dagli artificieri dell'esercito causò la morte di molti militari che meritano una parola di ricordo per la loro preziosa opera.
Ci rimasero anche alcune delle cosiddette "barchette", erano tipo jeep, con le quali gli alleati facevano le esercitazioni sotto Viareggio. Una fu lasciata a Macialla e servì poi per trasportare prodotti dei campi.
Col tempo e come è nelle cose, anche la guerra passò nel dimenticatoio. Restarono le esperienze più o meno negative, svanirono i fantasmi e le paure e rimasero soltanto i bossoli dei proiettili e le taniche della benzina che tagliate a metà servirono nei pollai come abbeveratoio. Qua e là spuntava ogni tanto qualche elmetto arrugginito gettato da un soldato tedesco e una sparuta croce di legno segnalava la morte di un militare. Ma per tutti coloro che patirono particolarmente a causa delle ferite o della prigionia, forse la guerra continuò per molti anni ancora.



Cliccami per ritornare all' Inizio pagina          Capitolo successivo Soldati in guerra