Quercegrossa (Ricordi e memorie)
CAPITOLO I - LUOGHI E PODERI
(QUERCEGROSSA - CASE TICCI)
Cliccami per ritornare all'Indice luoghi e poderi
Vai all'Indice dei Capitoli
Quercegrossa - Vai a
Quercegrossa - Introduzione storica
Quercegrossa - Vai a
Villa
Quercegrossa - Vai a
Palazzaccio
Quercegrossa di Sotto Case Ticci
Quercegrossa - Vai a
Casagrande
Quercegrossa - Vai a
Quercegrossa di Sopra
Quercegrossa - Vai a
Nuove costruzioni
Quercegrossa Ticci ossia Quercia di Sotto
Quello che potrebbe essere il nucleo abitativo più antico di Quercegrossa si presenta come una costruzione a larga facciata che evidenzia due corpi ben distinti risalenti a diverse epoche, con numerosi rimaneggiamenti e aggiunte. Il complesso, posto di fronte ai due edifici detti Villa e Casagrande, chiude lo spazio della piazza e costringe la strada ad un secca svolta. Da secoli ospita l'ambiente dell'osteria e le terre dietro di essa facevano parte di un piccolo podere coltivato dagli osti o da altre famiglie. Nel Novecento tutto l'insieme del fabbricato venne indicato col nome di "Quercia di Sotto".

La parte sinistra si evidenzia come la più antica, costruita a muraglie di pietre e sassi su due piani, con cantine, alla quale è stata addossata in epoca molto recente una stanza ad uso stalla e sul retro una capanna. La parte centrale doveva essere l’osteria vera e propria detta in antico "caupona" ossia luogo di sosta dove si mangia e si passa la notte. I due grandi archi ancora visibili sulla facciata erano probabilmente l’ingresso alle stalle e all’osteria e furono murati in seguito, forse nel Settecento, ad opera delle monache. Una profonda ristrutturazione e trasformazione dei preesistenti stabili deve essere avvenuta negli ultimissimi anni del Cinquecento quando l’oste Mastacchi risiede per qualche tempo nell’Ospitale di Quercegrossa, e ciò fa pensare che l’osteria sia inabitabile per i lavori in corso. La tabella votiva, all’interno di un tabernacolo che sovrasta l’ingresso, rappresenta il martirio di S. Lorenzo e vi è stata posta senz’altro dalle monache dell’omonimo monastero, proprietarie nel Settecento.
 La parte di destra ha tratti molto diversi da quelli dell’osteria e si nota facilmente il diverso stile costruttivo che la pone in tempi più recenti del Seicento anche se i muri a Est dimostrano tutta la loro antichità. Nata quindi dalla ristrutturazione di più antiche case, con la parte Nord a seminterrato con discreto dislivello rispetto alla piazza, accoglieva i servizi agricoli come la cantina, il granaio, le stalle e, come viene definito nel contratto di acquisto dei Ticci nel 1784, " un edificio da oliviera con attrezzi". Questo ci fa pensare che l’oliviera dell’osteria servisse anche ai poderi vicini, data la modesta produzione di olio del piccolo podere che raggiungeva appena il mezzo quintale. Il catasto del 1825 presenta l’intera costruzione come casa padronale di 1508 bq., pari a 512 mq., e, come abbiamo visto, è proprietà Ticci, osti e mezzaioli del podere quando apparteneva alle monache di S. Lorenzo. Andando a ritroso nel tempo troviamo le proprietà Tantucci e Lottorenghi nel Seicento e poi degli Amidei dal 1695 circa.
A questi subentrano, forse nel 1710, le monache di S. Lorenzo, padrone per quasi tutto il Settecento, e dopo di loro i detti Ticci. La proprietà nel 1825 è in mano a due cugini Ticci, Angiolo di Antonio e Antonio di Luigi. Nel 1859 va tutto a quest’ultimo. Vent’anni dopo alla morte di Antonio ereditano i suoi figli Celso, Giovanni, Raffaello, Luigi, Cesare e Giuseppe. Ma l’anno successivo Cesare è l’unico padrone e l’abitazione è articolata su due piani e 17 vani. Il 12 luglio 1889, la proprietà intera passa al fratello di Cesare, Giuseppe, che vi fa eseguire lavori di ristrutturazione. Infatti, nel 1891 si registra un notevole cambiamento interno con importanti modifiche e la casa padronale, sempre su due piani, ha ora 16 vani mentre una casa ad uso da pigionali consiste in due vani su due piani, infine, l’altra casa per uso colonico ha cinque vani su due piani. Vi abitano i Ticci al numero 4, un logaiolo, il Boddi al n° 5 e un pigionale, il Bartalozzi. Il 20 novembre 1895 ancora un passaggio e tutto va per successione a Ticci Arturo fu Giuseppe che nel 1911 divide la proprietà fra i due figli Giuseppe e Alessandrina.
 Dieci anni dopo, il 15 luglio 1921, si arrivò ad un accordo tra fratello e sorella per una definitiva separazione delle due parti. Quella di sinistra con l’abitazioni e la bottega passa a Giuseppe mentre l’altra di destra, quello che sarà il palazzo di Giotto, passa ad Alessandrina, moglie di Giotto Fontana, che immediatamente nello stesso atto viene venduta al Fontana che ne diviene così il proprietario; da quel giorno le due proprietà seguiranno strade diverse. Appena divenuto padrone, Giotto dà il via a lavori che lo terranno impegnato per vent’anni e inizia con l’innalzamento del palazzo di un piano e una completa ristrutturazione interna per ricavarvi cinque appartamenti per ospitarvi piccoli nuclei familiari, con tre latrine, una ad ogni piano.
Foto sopra: Casa Castagnini - Tacconi vista di Ovest con l’alto muro che delimitava il giardino interno. In primo piano Anna Tacconi,1940 ca.
 |
Podere di Giotto
Conclusi i lavori nel palazzo mette mano alla costruzione di un fabbricato per uso colonico, dietro il palazzo, coi suoi annessi più capanna e castri a fianco, che lo occuperanno per quasi tutti gli anni Trenta, dopodiché si rivolge a Est e innalza un edificio per pigionali attaccato ai castri del podere Casagrande. In questa struttura, con scala esterna, vi troverà posto un pigionale al primo piano, e al pian terreno una stanza adibita poi per molti anni a macello con accanto un quartierino che ospiterà il Travagli.
 |
Abitazione e vecchi macelli
Questo grande fervore edilizio cessò con la vendita del palazzo a Lodovico Barucci nel 1944, e del podere al dr. Pucci di Siena che lo tenne fino al 1958 quando lo passò ai Lazzeri. Giotto, l’8 giugno 1931 aveva dato la proprietà ai suoi tre figli Lea, Lia e Dino, riservandosi l’usufrutto, ma dopo la loro morte tutto il patrimonio ritornò a lui che, come abbiamo visto, decise di lasciare Quercegrossa e vendere tutto. La ristrutturazione da lui fatta fece vivere al palazzo i suoi anni migliori e vide la presenza di tante famiglie che vi abitarono dal 1930 ad oggi. Nel censimento del 1931 risultano Fontana Giotto all’ultimo piano, Giovanni Tognazzi e Cesare Bianciardi inquilini e il Manganelli come colono. Il Bianciardi abita nelle stanze a terra che saranno della Cooperativa nel dopoguerra. Al piano terra in una stanzetta sulla piazza, Armido Taddei vi aprì la bottega del barbiere, chiusa negli anni Ottanta. Nel 1936 abbiamo Giotto, ancora il Tognazzi, il Bianciardi, Adriano Socci e Gosto Torzoli come pigionali. Vi tornano poi i Vettori che sostituiranno i Forni e i Tanzini nel podere, Rino Sanleolini, Settimio Mugnai, il Pallassini col Volpini, e il Berni. Anche i Palazzi, prima di tornare all’Olmicino, hanno abitato nelle case di Giotto. Dopoguerra vi troviamo il nuovo proprietario Lodovico Barucci, Giovanni Bandini, Guido Tognazzi, Torzoli, Angiolo Pallassini, Socci, Mugnai e l’ultimo arrivato Guido Brogi che abita al pian terreno. Si contano poi negli anni Mario Rossi, Mario Valiani e Fedora Mecacci, Nello Rossi, Egisto Francioni, Ademo Ciampoli, i Bencini, Scoiolo, Armando Schiatti e qualche altro inquilino dimenticato. Nel case ad Est si ricorda la grossa polemica fra Giotto e il Travagli perché quest’ultimo aveva anticipato dei soldi per tornare nel quartiere al primo piano che invece Giotto vendette il Cappelletti che vi rimase per molti anni, sostituito poi dal Pucci e dal Mannini. Gino Travagli si arrangiò nel quartiere al piano terra. Nel podere i Vettori vennero sostituiti dai Vannoni nel 1958, che furono gli ultimi mezzaioli, e dopo di loro i Rinaldi. Oggi nel Palazzo vi risiede la figlia di Lodovico con la sua famiglia.
La parte che alla divisione del 1921 spettò a Giuseppe Ticci subì dopo poco tempo una nuova modifica in previsione della vendita e vi vennero realizzati tre quartieri. Lo stato di cambiamento venne così registrato al catasto:
Al n° civico 54 Casa padronale di 2 piani e 6 vani (n° 1).
Al n° civico 54 Casa padronale di 2 piani e 4 vani (n° 2).
Al n° civico 54 Casa padronale di 2 piani e 6 vani (n° 3).
Questi tre appartamenti vennero venduti il 28 gennaio 1924 alle famiglie Tacconi la n° 1; Castagnini la n° 2 e Brogi, l’esercente della bottega, la rimanente n° 3. In tutti i contratti rimase la clausola della comproprietà a eventuali figli nascituri di Giuseppe e Rosa Ticci. Questa clausola decadde nel 1939 con atto di rinuncia dei Ticci che diede così la piena proprietà ai tre acquirenti. Molti anni vi rimasero queste tre famiglie, ma soltanto i Castagnini mantengono oggi il possesso del quartiere da loro acquistato. I Tacconi vi abitarono fino al 1963 poi lo misero in vendita, e il Brogi cedette gli ambienti della bottega e l’appartamento superiore ai gestori Ciampoli. Il 15 luglio del 1935 vennero registrati due nuovi vani sopraelevati costruiti dal Brogi.
Casa Rossi
Poco prima della ristrutturazione interna del fabbricato erano stati effettuati da Rutilio Rossi nel 1922/23 lavori esterni sul terreno da lui acquistato tra il fabbricato e la strada principale che portarono alla nascita della sua abitazione su due piani. La casa del Rossi rimase a lungo proprietà della famiglia che vi dimorò fino al dopoguerra per affittarla poi a varie famiglie e infine venderla.
Pigione del Brogi
Sorge anche, pochi anni dopo, un quartierino di due stanze realizzato nel retro della bottega, sopra il forno, dal Brogi nel 1929, destinato ad ospitare una piccola famiglia. Vi lavora il "Cillo", un Olmastroni, muratore di Castellina in Chianti e vi torna subito Giuseppe Bartali con la moglie, e dopo di lui Vasco Volpini.
Inizio pagina
Vai all'Indice dei Capitoli
|