Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Scarpe nuove
Gina Rossi volle fare un paio di scarpe alla sorella Piera. C'erano in casa due vecchi stivali di Guido, di pelle morbida e ormai usurati. Per risparmiare li portò a un giovane lavorante della Ripa che si arrangiava. Demolì gli stivali, e con la pelle ci fece la tomaia, mentre rifece il plantare con del cuoio. Quando le consegno chiese tre lire di compenso. La zia Gina non l'aveva e gli disse che l'avrebbe pagate a rate, ma il giovane non si fidava e non le voleva consegnare le scarpe. Alla fine accettò.

Zoccoli
Vecchie scarpe tagliate e attaccate agli zoccoli di legno con grosse bullette. Negli anni Trenta del Novecento divennero di moda nelle campagne e in ogni casa di contadini si facevano zoccoli: “Venivo a Quercia con questi zoccoli e mi piaceva farmi sentire dal rumore che si faceva sul breccino”. “A Viareggio veniva Sestilio che faceva le scarpe a tutti e faceva gli zoccoli col legno di fico, poi incominciarono a metterci anche la gomma dei copertoni, ma si scivolava”.
Nel 1942, Pierina Rossi è mandata a scuola allo Stellino per ottenere il diploma di quinta elementare. Si ripresenta il problema delle scarpe e ancora la sorella Gina sfrutta un vecchio paio di uno dei fratelli; questa volta per farci la tomaia, la parte che fascia il piede. Si recò alla Casanuova da Pasquino Testi, il quale tolse la suola rovinata e ci adatto un bel paio di zoccoli di legno di olmo. Vi imbullettò lateralmente la tomaia e le scarpe furono pronte. La suola di legno non ha la flessibilità del cuoio e ti costringe a un’andatura pattinata o a salto e quando batti il piede in terra produce un forte rumore. Così calzata Pierina entrò in aula allo Stellino e questo battere sul pavimento di mattonelle suscitò le risate di tutta la classe. Intervenne con autorità la maestra che richiamò all'ordine. Sapeva che Pierina veniva da una famiglia numerosa e povera e sgridò gli alunni che avevano riso di una loro compagna di classe. Da allora nessuno rise più, ma lei si vergognava tanto che alla fine gli ci imbullettarono sotto dei pezzetti di gomma presi da un vecchio copertone di bicicletta e così smise di far chiasso.

Sudicione

Sudicione o sudiciona era un termine che si affibbiava a chi tendeva a strani o eccessivi comportamenti riguardanti la sfera sessuale o che semplicemente era dedito alle donne o agli uomini.
Anche in bottega della sora Emilia la sera si praticava il gioco delle carte e molti giocatori alternavano il Brogi alla sora Emilia. Un giovane del popolo di S. Leonino era uno dei più accaniti giocatori della zona: le sue scenette e comiche sono state memorabili fino a non molto tempo fa. Una brava persona, ma per una distrazione anche lui si prese del "Sudicione". Infatti, quella sera del 1939, o 1940, era al tavolino da gioco nella bottega della sora Emilia a giocare a briscola, quando alla fine di una mano piuttosto movimentata, come d’altronde lo erano tutte quando lui aveva le carte in mano, si alzò e andò a orinare. Non c’era il gabinetto in bottega e tutti la facevano lungo il muro dall’altra parte della strada o allo Stanzone per i più riservati. Preso dalla partita il giovanotto rimuginò le giocate e dopo aver fatto il suo comodo rientrò in bottega. Ma soprappensiero com’era, e nella foga di rientrare nel gioco, non si era abbottonato i pantaloni nè tantomeno si era rimesso il pisello dentro che ora si vedeva ciondoloni. Appena lo vide, la sora Emilia prese la granata e giù botte tacciandolo di “Sudicione, sei un sudicione”. Poi lo prendevano in giro: “Stai zitto che non sei capace nemmeno di rimetterlo dentro”.
Racconta la zia Gina che quando era bambinetta, all’età di otto anni, guardava i maiali nei piani del Mulino insieme alla sua amica Marisa di due anni più vecchia. Un uomo conosciuto di S. Leonino che “faceva tutti i versi alle citte”, quando la sera passava, si fermava, scendeva di bicicletta e si metteva a puntare le due bambine, senza dir niente, a muso duro. Allora loro: “Andate via sudicione, che volete?”.
Un caso ricordato da Piera Rossi accadde alla pietraia del Molinuzzo in compagnia delle amiche Albertina e Alba. Tre ragazzine intorno ai 13 anni. All’improvviso le raggiunse un conosciuto giovane di Quercegrossa, poco più grande di loro, il quale cominciò a importunarle con strani discorsi facendosi sempre più audace fino a quando prese a dire: ”A chi tocca la prima?”. Chi è la prima?Allora si capì che non scherzava; si cominciò ad avere paura e ci se la diede a gambe levate”.
Alcuni fatti di importunamenti con chiare intenzioni sono conosciuti, ma è come la punta dell’iceberg: la grande massa è sott’acqua. Molti episodi di molestie, anche gravi, certamente sono state dimenticate e taciute a suo tempo, e sì che devono esserci state con tutte quelle giovani e meno giovani solitarie lavoratrici o isolate guardiane nei campi. “E’ questa la prima volta che racconto un fatto capitatomi all’età di 12 anni e che ho sempre taciuto”. Per i soliti ovvi motivi di discrezione non cito i nomi dei protagonisti, assai conosciuti in paese. “Mi avevano mandato a spigolare, cioè a raccattare le spighe dopo la segatura in quella piaggia del Mori che parte dalla strada del Castello e scende al Dorcio. Arrivò un giovanotto 18enne del paese che mi aveva veduta sola e manifestò subito la sua intenzione di darmi noia, senza nessun dubbio. Infatti si avvicinò e senza parlare mi mise le mani addosso per toccarmi ed io fui presa da una grande paura. Cominciai a urlare a tutta forza e presi a correre. Questo fare sorprese il giovanotto che mi seguì per un poco gridandomi: “Sta’ zitta, sta’ zitta, un dire niente” e sembrava più impressionato di me. L’avessi raccontato in casa sarebbe stata una pena per tutti”.

Un piccolo tesoro

Ai primi del Settecento scavando a Quercegrossa venne alla luce un piccolo tesoro di monete medievali. La relazione e catalogazione, fatta dallo storico Umberto Benvoglienti, non ci dice nè da chi e nè dove furono rinvenute, ma possiamo immaginarcelo. Non è da escludere, infatti, che le monete siano state nascoste al tempo dell’assedio e presa del castello nel 1232. Non conosciamo nemmeno la loro quantità perchè il Benvoglienti parla di tre tipi diversi e ne fa la descrizione titolando tutto: “Le monete ritrovate a Quercegrossa”. Egli li definisce di tre “ragioni”: lucchesi, pisane e fiorentine, battute ai tempi dell’imperatore Federico I, e crede siano state sotterrate intorno al 1200 al tempo che i fiorentini saccheggiavano Quercegrossa. Questa la relazione sintetica dello storico: “Nella moneta fiorentina da una parte leggesi S. Johannes, dall’altra parte un giglio o per meglio dire un fiore detto ... e questa usano che sia simbolo del partito guelfo, che sia la moneta più antica de’ fiorentini, che, che si dica in contrario. Il Sig. Cinughi ha mandato queste monetine al Sig. Buonarroti che habilmente li spieghera al giusto ... al quale totalmente mi rimetto”. Che fine abbiano fatto le monete inviate a Firenze non si sa; saranno finite in qualche museo o collezione privata.

Disinfettanti

Non c’era abitazione che si salvava dall’invasione di pulci, bachere, mosche, zanzare e formiche che prima della Seconda guerra rappresentavano un preoccupante fenomeno non avendo a disposizione efficaci prodotti per la disinfestazione. L’arrivo degli americani portò una novità anche in questo campo e quando videro che davano alle tende una polverina biancastra, i nostri popolani si incuriosirono e cercarono di capire cosa fosse e a cosa servisse; poi la usarono anche loro. Certamente era un prodotto tossico come tutti quelli del tempo ed era pericoloso, ma “s’era anche assaggiato e aveva un sapore dolciastro”. “Quando l’americani la dettero in casa Mori, finestre e porte furono chiuse ermeticamente, poi la notte ci dormirono, ma non fece male a nessuno”. Quando gli inglesi piazzarono i loro accampamenti nei dintorni di Quercegrossa la prima cosa che fecero furono le latrine di legno protette, con una tavola a traverso che serviva da sedile. “Da quanto puzzavano non ci si stava vicino”, ma non puzzavano di bottino come si potrebbe intendere, bensì di creolina che in abbondanza veniva sparsa nella latrina.

Il bossolo

Quando Beppino Landi andava dal Brogi a bottega aspettava che nel bossolo di latta fossero rimaste poche acciughe. Allora diceva a Dante: "Dante come so’ queste acciughe?", e lui rispondeva: "Speciali". “Allora dammi tutto il bossolo”. Mangiate le saporite acciughe conservava con cura il bossolo dando inizio a un’usanza che troveremo in Giangio suo figliolo e nel nipote Marcello che hanno raccolto e conservano di tutto in previsione di un loro utilizzo. Famose sono le collezioni di bottiglie di tutte le misure di Giangio e dei più disparati oggetti in soffitta, e si dice che non sprecava nemmeno l’urina andando a urinare nel suo orto per concimare gli ortaggi.

Scherzi

La grande familiarità e amicizia che esisteva in paese e nella campagna si manifestava anche in un particolare modo giocoso, accettato da tutti. Era allegria e passatempo, quasi un'usanza, e nessuno ne era escluso, nemmeno i più intransigenti e severi avversari di questo fare. Parlo dei famigerati scherzi, fatti senza nessuna malizia. Non c'era altro verso che accettarli, altrimenti eri preso di mira e non ti salvavi più dai burloni. Alcuni erano di prassi, altri frutto dell'improvvisazione e dell'ingegno di giovani e anziani. C'erano quelli tradizionali come il "pesce d'aprile", una tradizione che da alcuni secoli imperversava in Europa in occasione del primo aprile di ogni anno. Ai miei tempi usavano semplici scherzi paesani come mandare al telefono le persone più sprovvedute, le quali a corsa si precipitavano dalla sor Ada, oppure mandare uno dalla sua zia lontana perché lo voleva. Poi c'era il divertimento maggiore per noi ragazzi che consisteva nell'attaccare con spillini pesci di carta sulla schiena dei passanti, e di tutti, grandi e piccini. Pesci di varie dimensioni e anche colorati di rosso. C'erano poi gli scherzi del carnevale, di ambito ridotto e moderato, con il detto "Carnevale, ogni scherzo vale". Ma c'erano soprattutto gli scherzi veri, diciamo più seri, e anche più impegnativi che a volte richiedevano ore di lavoro per realizzarli. In alcuni era richiesta la presenza del soggetto preso in giro, in altri era esclusa.
Di questo diffuso fenomeno comportamentale restano alcune memorie e uno degli scherzi tra i più celebrati per la sua originalità lo subì Memo del Buti all'Arginano.
Quella mattina di luglio in prossimità della tribbiatura, Memo come al solito trafficava intorno casa tra il castro e la stalla per i lavori di giornata. C'erano anche la moglie Moma, Ezio Losi e alcuni di coloro che aspettavano l'esito dello scherzo. Memo si avvide di un certo starnazzare di galline intono alla vicina mucchia nel campo. Una mucchia non molto alta che tra pochi giorni sarebbe stata trasportata nell'aia per la tribbiatura. "O come mai quei polli sono tutti intorno alla mucchia?", si domandò a sé stesso, più che parlare agli altri. Osservando meglio si accorse di una persistente e numerosa presenza di galline e galletti alla base della mucchia e vide anche che beccavano fitti il terreno come se fosse pieno di vermi. Moma aggiunse: "Ma che succede?". Incuriosito Memo si avvicinò e invece dei vermi constatò che i polli beccavano il suo grano: quello delle manne della mucchia con le spighe rivolte verso l'esterno. Era una vera pacchia per le galline e galletti. Le mucchie proprio per salvaguardare il grano dagli animali e dalle intemperie venivano fatte con le spighe delle manne rivolte all'interno e non all'esterno come le trovò Memo, il quale solo allora si accorse dello scherzo che gli avevano giocato. Infatti, nella nottata quando lui dormiva il suo giusto sonno, diverse persone si erano date da fare, in un silenzio rotto da qualche risatina, a smontare la mucchia e poi a rifarla con le spighe in fuori. Erano in tanti e ci vollero ore: Dedo, Augusto e Mario Bruttini, Enzo Pianigiani e Raffaello Mori tra quelli che si ricordano. Poco dopo, Ezio Losi senti dire a Memo che intendeva rifare la mucchia un'altra volta e allora gli suggerì: "Ma ormai lascia stare, tanto per pochi giorni". "Si eh", aggiunse Memo "Se la vede il padrone che figura ci fo!".
In paese una mattina di buon’ora si sentirono dei berci e grida di aiuto. Non che ci fosse un pericolo reale, ma c’erano soltanto richieste di aiuto per aprire i portoni sbarrati nottetempo dai giovani burloni del paese. Nella notte i portoni erano stati bloccati con un legno traverso legato alla maniglia, impedendone così l’apertura dall’interno. Quasi tutta Quercia era chiusa in casa: dal Palazzaccio il Giachini, affacciato alla finestrella rotonda, berciava: “Aiuto, soffoco”, mentre dal palazzo Barucci lo stesso Vico, il primo ad alzarsi, cercava soccorso chiamando dalla finestra di casa. La saracinesca di bottega era invece stata bloccata con un lungo palo in verticale. Picciola e Bruno all’apertura, tira tira, quasi la piegarono. Alla fine desistettero e Picciola: “... ma che ci sarà ... vai a vedere fuori”.
In quel tempo che asfaltarono la strada e sostituirono le pietre del marciapiede della villa Mori fu giocato il famoso scherzo al Moro, portandogli nottetempo una pietra su in cima alle “scali” di casa. Una grande lastra rettangolare di pietra serena del peso di 60/70 chili, scelta tra le più grosse appoggiate al muro della villa, venne sollevata e messa su una spalla a Dedo da Benito Bandini, Nello Rossi e Gosto di Bruttini. Dedo, piegato dal peso, e gli altri, salirono lentamente e silenziosamente le due rampe delle scali e deposero la pietra sul pianerottolo davanti alla porta del Moro, il quale lì la trovò la mattina al risveglio. Grande fu la meraviglia e le esclamazioni: “Ma se gli cascava mi sfondavano le scali. Ma come avranno fatto?”.
Damino del Losi ogni tanto andava a veglia al bar e lì si tratteneva. In questo lasso di tempo i giovani del paese spostarono il carro da sotto la parata e lo addossarono alla porta di casa che nascosero anche con delle fastella, e così mossero tutto quello che trovarono modificando sensibilmente l’ambiente. Rientrando a casa, Damino percorse la piazza, già scarsamente illuminata, ed entrò nel buio di Casagrande. Come era solito fare girò la cantonata a destra per andare verso la porta di casa, ma si ritrovò davanti a un carro, bigonci, fastella, vasi da fiori e diversi attrezzi sparsi dappertutto. Guardò, osservò meglio, ma non si raccapezzò restando incerto e pensieroso al buio. Arrivò allora il nipote Fabio e gli disse: “Ragazzo, ho perso la tramontana; non trovo la porta di casa”.
Tutti i luoghi erano adatti per uno scherzo e non venne risparmiato nemmeno il confessionale in chiesa. Lido Forni si accomodò dove solitamente sedeva il prete a confessare e chiuse le tendine viola. Gino di Fusino arrivò deciso. Gli parve di vedere don Luigi in confessionale e ne approfittò. Si inginocchiò per la confessione. Da dentro, Lido, alterando la voce, pronunciò la solita formula: “Da quante tempo è che non ti confessi?”. E poi: “Che cosa hai fatto?”. “Ho bestemmiato”, rispose il penitente. “Poi che hai fatto?”, aggiunse il falso prete, e gli formulò una domanda: “Ma con le donne ci sei stato?”. No, rispose Gino del Fusino. “O bravo bischero”, gli disse Lido uscendo svelto e ridendo dal confessionale.
Alla Casa nuova dal Pagliantini nascosero le ruote del carro nella concimaia e il Magnelli: “Oggi un si lavora, mancano le rote”. A un contadino di Basciano misero l’erpice, ossia il quarantadenti, sopra un ulivo e il bello venne per scenderlo.
Altri scherzi minori consistevano nel nascondere attrezzi di lavoro nei pagliai o rubare la frutta messa a maturare e altre cose simili come un borsello perso in strada con l’ignaro passante che si china a raccattarlo, ma non vi trova niente perchè una mano burlona tira il filo invisibile spostando il borsello, lasciando il malcapitato lì come un fesso. Davanti al Palazzaccio legavano al filo una grossa cicca di sigaretta e la vecchia Giachina, la quale le raccattava dappertutto per fumarsele, scendeva a prenderla, ma con uno strattone al momento giusto gliela levavano da sotto la mano, mandandola in bestia.

Una poccia di vacca

Era uno scherzo già rifatto tante volte e in tutti i posti lo conoscevano, ma qualche povero barbiere ci cascava sempre o almeno rimaneva interdetto. Il veterinario dr. Morelli di Castellina, non nuovo a questo fare, sonnecchiava seduto nella poltrona, mentre il Carletti gli insaponava la faccia. Facendo finta di niente, spinse con una mano in tasca una poccia, tagliata da una vacca macellata e sistemata poco prima nei pantaloni, facendola uscire dalla “bottega” sbottonata: sembrava proprio il pisello.
Il Carletti quando vede l’affare, cominciò con un certo disagio a chiamare il dottore che come detto sonnecchiava. “Dottore”; “Dottore”. “Che c’è”, disse il dottore scrollandosi. Il Carletti indicò in basso con gli occhi e col dito in modo esplicito e il dottore vide la poccia di vacca. “Ah, non ci vuoi stare al tuo posto. Ora ti sistemo io”. Prese il rasoio da sopra il piano di vetro e si taglio la poccia di vacca, ma il Carletti non sapeva che era una poccia di vacca. Così la raccontano.

Il carroccio del Palio

Simbolo dell’antica libertà comunale il carroccio sfila per ultimo tra la folla in attesa e reca il palio della vittoria. Tutti lo guardano e salutano sventolando fazzoletti, ma nessuno fa quasi mai caso a coloro che vi suonano le chiarine o ai coloni che conducono i bovi. E sì che ce n’è stata gente di Quercegrossa in quel lento passaggio. Molti ricordano Benito del Giannini, il quale vi ha suonato la chiarina per tanti anni, oppure Renato Petri, che per almeno un decennio ha continuato a portarvi i suoi bovi, ma quasi nessuno sa che anche Giovanni Carli del Paradiso di Petroio conduceva i suoi bovi al palio negli anni Trenta del Novecento.

Un colpo al capo

Molti si chiedono come venivano ammazzati i piccoli animali domestici prima di finire in pentola o arrosto. In realtà non occorrevano grossi strumenti; bastava alla massaia semplicemente un paletto di legno, o meglio un peschio metallico da porte, per i “coniglioli”, e le mani per polli e galline. Afferrato bene il conigliolo per le zampe posteriori e tenuto verticale con la testa che per la posizione tendeva a rialzarsi, con uno o più colpi secchi sul capo gli veniva fracassato il cervello, e al primo colpo ben assestato sussultava nello spasmo. Alcuni uomini usavano le mani a mo’ di bastone. Grosse macchie di sangue morto rimanevano sulla carne dell’animale spellato e per evitarle alcune massaie usavano un procedimento meno violento e forse meno doloroso per il conigliolo, cosicchè la carne rimaneva bianca: lo sgozzavano con un taglio netto di coltella alla gola. Il pollo invece non richiedeva attrezzi di sorta perchè bastavano le mani e un po’ di coraggio.
Preso per le zampe con la destra, si afferrava il capo con la sinistra e appoggiato all’anca gli si davano due abili girate di capo e si tirava allungandolo fino a rompergli il collo tra uno starnazzare e un violento sbatter d’ali per 10/15 secondi. Erano scene un po’ cruente da vedersi, ma era il sistema più naturale e nessuno pensava nemmeno lontanamente di tagliare di netto con un sol colpo il collo al pollo per non farlo soffrire, rischiando con l’accetta di schizzare sangue dappertutto, ma anche per non compromettere il saporito “collo ripieno”.

Giornali

Uno strumento, molto limitato, dell'informazione a Quercegrossa furono i giornali. Erano riservati a pochi fino a tutta la metà del Novecento, non essendoci la vendita giornaliera. Nel dopoguerra, iniziò una modesta diffusione quando il Brogi prese la distribuzione dei due quotidiani Il Mattino e La Nazione, entrambi di Firenze, portati dalla SITA. Il Mattino era dell'area democristiana, mentre la Nazione aveva tendenze liberali. Era inoltre diffusa l'Unità ad opera di attivisti del P.C.I. che la distribuivano nelle case la domenica. Un altro giornale veniva venduto in parrocchia fin dai tempi di don Luigi Grandi: La Voce del Popolo, il settimanale della Chiesa senese. Era dato in chiesa all'accatto della Messa festiva a chi lo richiedeva, dietro un'offerta adeguata al prezzo. Il sacrestano, e questo l'ho fatto anch'io fino al 1960/61, teneva in una mano la borsa per le offerte e nell'altra tre o quattro copie del settimanale che molto spesso rimanevano invendute. Capitava anche che qualcuno chiedesse una copia "per dare un'occhiata", cioè leggerla gratis in chiesa durante la celebrazione e restituirla a fine messa, prima di uscire. Tra la stampa cattolica larga diffusione ebbe “Famiglia Cristiana”, della quale Dina Mori, la moglie di Dante Oretti, mantenne la consegna alle famiglie fino alla sua scomparsa nel 1996, sostituita poi dalla figlia Lea per qualche anno ancora.

Chiucchieri

Facevano parte del quadro ricreativo dei nostri nonni una serie di giochi di vecchia tradizione praticati alla buona nei giorni festivi e vi erano compresi “chiucchieri” e la “druzzola” a Natale. Il gioco “a chiucchieri” in cima della Carpinaia, prima della guerra, consisteva nel preparare pulendolo uno spiazzo di circa 5 metri quadri praticandovi altrettante buchette: quattro agli angoli e una centrale dove si mettevano uno o due soldi ciascuna. Chi tirando un sasso, scelto dal giocatore, entrava in una buca vinceva i soldi che vi erano contenuti. L'altro gioco all'aperto era il "Lussi". Sopra un sasso o un pezzo di mattone, abbastanza alti, si mettevano dei soldi e con delle piaccelle (piccole lastre sia di mattonella che di sasso, preferibilmente di forma rotonda), si tentava di colpirlo per far cadere le monetine. Vinceva chi piazzala la piaccella più vicino alle monetine che erano cadute dal lussi. Prima della guerra, anche i grandi, la domenica dopo pranzo, lungo la strada o allo stanzone erano assidui nel giocare a lussi; si ricordano tra questi Corrado Castagnini e Berto del Mori. La mattina di Natale era tradizione giocare il panforte con la druzzola (un disco di legno) sopra un tavolo messo lungo la strada. Il lancio della druzzola per arrivare il più vicino possibile al bordo opposto del tavolo e così vincere il panforte. Nelle settimane precedenti si giocava all'interno del bar.

Corredo

Si parlava un tempo del corredo di biancheria che una ragazza “si faceva” in previsione di mettere su casa, o che la stessa sua famiglia gli donava come capitò a Dina Mori per il suo matrimonio con Dante Oretti nel 1927; un corredo avuto come parte della futura eredità. Curiosando tra le voci dell’elenco ci rendiamo conto in cosa consistesse un corredo ricordando che il seguente contiene capi di buon valore e oggetti che solitamente non ne facevano parte.
Inventario del corredo che il padre Mori Raffaello ha dato alla propria figlia Dina come in anticipo della parte spettante patrimoniale per il valore come qui appresso.
Rovescia con buttalà e salviette: Lire 300;
Altra rovescia con buttalà: Lire 200;
N° 8 paia di Federe di ghinea (di cotone): Lire 250;
N° 4 paia di Federe di canapa ricamate: Lire 300;
N° 4 paia di Federe di canapa ricamate: Lire 347;
N° 5 salviette di pannicino: Lire 75;
N° 5 salviette di spugna: Lire 13,50;
N° 4 salviette di cotone: Lire 40;
N° 3 salviette di lino: Lire 40;
N° 5 salviette di canapa e una di lino ricamate: Lire 200;
N° 2 federe e piumino di trina: Lire 100;
N° 16 camicie di ghinea: Lire 400;
N° 20 camicie di cambi ricamate con trina: Lire 800;
N° 5 sottabiti di cambi: Lire 185;
N° 5 sottabiti di peloncino: Lire 34;
N° 11 paia di mutande di cambi ricamate: Lire 290;
N° 2 paia di mutande di peloncino: Lire 15;
N° 3 paia di mutande di ghinea: Lire 180;
N° 5 paia di lenzuola: Lire 660;
N° 32 fazzoletti: Lire 44;
N° 1 coperta: Lire 150;
N° 1 coperta a maglia: Lire 250;
N° 17 paia di calze: Lire 85;
N° 4 camiciole di lana: Lire 90;
N° 2 guanciali di lana: Lire 82;
N° 22 kg di lana per materasso: Lire 528;
Stoffa per materasso di vegetale: Lire 140;
Piumino e coltrone: Lire 200;
Vegetale per matersasso: Lire 50;
N° 4 scuffie: Lire 40;
N° 1 vezzi di perla: Lire 1500;
Spillo d'oro a due paia di pendenti d'oro, catena d'oro, 2 anelli: Lire 555;
N° 7 vestiti e una cappa: Lire 650;
Pagato la sarta: Lire 280;
Per fattura di una camera completa (letto di noce con saccone di 42 molle), 2 comodini, un cassettone con piano di marmo, specchio, armari, tolette, 2 sedie imbottite: lire 3300;
Comperato un vestito dalla cognata Maria Oretti lire 260.
Totale lire 12.333,50.
Maggio 1928



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