Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Scaldaletto
A Quercia era chiamato scaldaletto e in altre parti “il prete”. Chi non l’ha mai provato non sa cosa ha perso perchè entrare nella stagione fredda in un letto riscaldato dalla brace dello scaldino è un godimento indescrivibile. Ti infilavi sotto quelle lenzuola calde, quasi brucianti, e trovavi la pace. Il calore ti avvolgeva e prendeva il posto del freddo e dell’umido patiti nella giornata; in breve gli occhi si chiudevano e un sonno ristoratore ti avvolgeva.
Per scaldaletto si intendeva un telaio di legno levigato e bilanciato di circa un metro a forma ovale o rettangolare alto sui 50 centimetri, che serviva a tener sollevate le lenzuola, fornito di un gancio al quale veniva attaccato lo scaldino con la brace. Le estremità erano stondate per non strappare le lenzuola.
Finite le faccende, dopo cena le donne preparavano lo scaldino mettendovi, con la paletta, la brace del focolare o della stufa, ricoperta con cenere per evitare al forte calore di bruciare le lenzuola (come spesso accadde). Attaccato lo scaldino al gancio dello scaldaletto, era messo nel letto. Se capitava di mettere troppo presto lo scaldaletto, allora prima di coricarsi bisognava rigirare la brace per ridargli vigore. Spesso capitava di dormire insieme allo scaldaletto, in attesa della mamma, e allora ... fermi con le gambe. In casa Mori nel Palazzo c’era la necessità di riscaldare otto o nove letti, ed era tutto uno sviaggio tra i piani. Si faceva presto a consumare tutta la brace, anche perchè la zia Dina, la moglie di Berto, non aveva il piccolo scaldino rotondo come tutti, ma se l’era fatto fare in uno di quei larghi e alti bossoli delle acciughe e per riempirlo se ne andava metà brace. Grande attenzione era richiesta quando attaccavi lo scaldino allo scaldaletto, ma quella volta la zi’ Anna lo mise male e gli rimase un po’ di squincio e non si premurò di controllarlo. Lo scaldino ondeggiando lasciò cadere alcuni tizzoni sulle lenzuola che cominciarono a abbruciacchiarsi facendo fumo e spandendo puzzo di bruciato. Il provvidenziale arrivo di Paola impedì alle fiamme di divampare e la camera venisse incenerita.

L’arcuccio
Ricordi incredibili di Marisa Candiani del Poderino: “La mia mamma era amica di Ersilia, moglie di Egisto Rossi del Mulino. Avevo quattro anni quando mi portò da lei. Ersilia ci accolse e mi disse: “Vieni a vedere la cittina (Piera, nata nel 1930)”, e mi portò in camera. Era sul letto matrimoniale sotto l'arcuccio, uno speciale telaio in legno, tipo scaldaletto arcuato, che serviva per proteggere il bambino dalle coperte che vi venivano messe sopra”. Ersilia diede poi un bacio a Marisa, la quale si sentì inumidita la gota e si pulì con la mano. “Ti pulisci”, gli disse Ersilia, “Allora te ne do un altro” e la ribaciò.

Il temporale
Una consuetudine molto praticata, diffusa si può dire in tutti i popoli, era quella di scongiurare la caduta della grandine, dei fulmini e i danni del temporale per mezzo di riti tra il profano e il religioso. Essi tendevano, nell’assoluta convinzione di chi li compiva, a esorcizzare il maltempo e scampare così ai suoi dannosi effetti. Quando si alzava un vento impetuoso e i neri nuvoloni presagivano l’avvicinarsi di un temporale e della probabile grandine, assai deleteria per le coltivazioni soprattutto per il grano e le viti, il capoccio Luigi dei Carli di Petroio prendeva l’ampolla con l'acqua benedetta, le rame dell'ulivo pasquale e, accompagnato da familiari, usciva all'aperto e con spruzzi all’aria nelle varie direzioni benediva il tempo con l'intenzione di salvare dalle saette uomini e cose. In casa Mori ci pensava la zia Sette a benedire i temporali.
In tutti i popoli era viva la credenza che il suono delle campane della chiese rompesse le nuvole e allontanasse i fulmini e c’era sempre qualche contadino che mandava i figlioli dal prete per far suonare le campane. Così facevano anche i ragazzi dei Nencioni a Cerna, i quali correvano ad aggrapparsi alla fune campanaria della cappellina di S. Donato e qualcuno di Castellina Scalo assicurava di aver visto il cielo aprirsi dopo aver sentito il suono della campana.
Si pensava allontanasse i temporali anche il fumo, e a tal proposito un elaborato rituale si teneva in casa dei Nencioni. Esso prevedeva l’uso di uno scaldino riempito di braci dentro il quale la massaia posava alcuni piccoli ramoscelli dell’ulivo benedetto che subito cominciavano a fumare; allora metteva lo scaldino sopra il davanzale della finestra e il fumo si disperdeva all’esterno con il suo benefico effetto. Oppure accendevano un fuoco all’esterno della casa e vi gettavano sopra manciate di erba verde. Queste, bruciando, sviluppavano una colonna di intenso fumo nero che allontanava le nuvole del temporale. In contemporanea c’era un ulteriore gesto rituale con il segno della croce che intendeva rompere le minacciose nubi: “La mi’ mamma a Cerna pigliava sotto braccio le mi’ nipoti Rosanna e Ofelia e le teneva in posizione orizzontale venendo così a formare una croce con la sua persona e con queste due bambine faceva il segno della croce al tempo”, racconta Ilda.

Risparmi
E’ noto a tutti come molti capocci tenessero in casa i propri risparmi fidandosi poco delle banche o delle Poste. Sappiamo del nonno di Pierino Giulianini, il quale teneva i soldi sotto un mattone sotto il suo letto, era l’usanza più diffusa, mentre un altro contadino se li faceva cucire dalla moglie all’interno del cappotto. Il Losi Michele nascondeva i fogli da mille lire sotto il marmo del comodino di camera dove furono trovati alla sua morte ormai svalutati. In generale si lavorava di fantasia e spesso si cambiava posto ai soldi per quel timore dei ladri: un tormento per chi li possiede. Una originale pensata merita di essere raccontata. Nei primi anni Sessanta un personaggio di Quercegrossa, "una persona avida che per dieci lire avrebbe venduto la mamma", ebbe a questionare con la propria banca e... "Datemi tutto, ritiro tutto". Di ritorno a casa col discreto malloppo, cominciò a pensare dove tenerlo, ossia dove nasconderlo. C'erano stati dei furti, poi girava sempre gente in casa e comunque non si fidava di nessuno. Pensa, pensa, pensò allora alla botola in cima alle scale che dava sul tetto e gli baleno l'idea. Nessuno avrebbe frucato sotto le tegole del suo tetto dove lui, dopo aver rincartato bene i soldi in un sacchetto di carta e plastica, depose il prezioso tesoro. Passò del tempo, qualche mese e al personaggio venne voglia di controllare i suoi soldi. Ritornò sul tetto, smosse le tegole e vide quello che non avrebbe mai voluto vedere. Constatò che il sacchetto era stato parzialmente divorato dai topi, intaccando anche le banconote. Qualche altro giorno e si sarebbero divorati i suoi milioni. Allora un brivido di panico gli corse per la schiena.

Il camiciolo
Il camiciolo era un indumento da indossare a pelle ed era generalmente di lana, da usarsi prevalentemente nella stagione fredda, avendo la lana la notevole capacità di difendere dal freddo. Ma non tutti si limitavano all’inverno e per loro il camiciolo, o “giubbino” come lo chiamava il mi’ babbo, era un capo indispensabile per tutte le stagioni, con la sola differenza della mezza manica d’estate e lunga d’inverno. Secondo i nostri vecchi, e particolarmente nella famiglia Mori, l’usatissimo giubbino proteggeva dal freddo e dalle correnti d’inverno e dal caldo d’estate, assorbendo anche il sudore del corpo rivelandosi quindi un indumento fondamentale per la salute. Si cambiava una volta la settimana, al sabato, ed eccezionalmente infrasettimana per chi sudava parecchio.
Alla fattoria del Castellare serviva un montone e pensarono di rallevarlo. Andarono alle Capezzine a comprare un agnello di razza e ci venne un bel montone con due grandi corna ritorte. Una bella bestia a vederla e come tutti i montoni cozzava, ma questo si distingueva per essere bestia particolarmente indocile e indomabile. Nello stalletto faceva il diavolo a quattro: lo legavano con una catena e la rompeva fuggendo lontano. Una volta lo ritrovarono i Valiani del podere Monastero impigliato a una pianta e aveva il capo gonfio, violaceo: stava per soffocare. Faceva il suo onesto lavoro di montone montando tutte le pecore dei poderi Bindi, ma rimase sempre intrattabile e rischiò di fare una brutta fine: quella riservata alle bestie che si dimostravano pericolose cozzando continuamente, ma gli venne risparmiata. Era infatti usanza da parte dei guardiani di ricorrere, di nascosto dai proprietari, a un trucco per disfarsi da questi irascibili animali. Sceglievano un posto adatto al loro proposito, ossia un piano interrotto da un baratro, e al limite di questo vi mettevano una giacca tenuta a braccia aperte e in piedi da due o tre legni. Il montone, vista la giacca mossa dal vento, caricava a testa bassa e finiva inevitabilmente nella scarpata trinciandosi mezzo tra massi e piante e spesso ci lasciava la pelle.
La mamma di Armando, dopo la tosatura del montone, che diede ben 3 kg di lana grezza, cardò la lana trattandola anche in una botte con dello zolfo per “addomesticarla”; lavorò di ròcca e fuso e ne tirò fuori delle belle matasse di lana con la quale confezionò un bel camiciolo a maniche lunghe per il figlioletto Armando. Questa lana però doveva essere ignorante come il montone dalla quale proveniva perchè appena messo il camiciolo al ragazzo si rivelò un ruvido cilicio, in parole povere un tormento da quanto pizzicava, costringendo la povera vittima a patire e a lamentarsi, mentre si grattava da tutte le parti. Ma, secondo la mentalità del tempo, una cosa fatta si doveva portare per forza e poi “Vedrai che ti passa”. Ma il camiciolo continuava a pizzicare e ci volle l’intervento della nonna Giulia che quasi leticò per farglielo togliere e indossare uno più “domato”, cioè fatto di una lana meglio trattata o recuperata, e comunque meno urticante; dopo averlo portato qualche giorno dava meno fastidio, come tutti i giubbini.
Lo conosco ben anch’io il prurito di un camiciolo di lana pesante per averlo sperimentato all’inizio di ogni inverno della mia fanciullezza, e il timore si rinnovava sempre.
A un garzone, un certo Butino, gli fecero la camicia di canapa, una camicia grezza e pizzicante; dalla disperazione se la levò e la mise in qualche modo a un maiale che la stracciò tutta.

Sputacchi
Settimia Brogi da giovanetta faceva le pulizie giornaliere al Dopolavoro e nella sua bottega spazzando e votando le sputacchiere riempite di segatura. Erano queste piccole cassette quadrate di legno messe vicino ad ogni tavolo, e i giocatori, abituati a fumare il sigaro e la pipa, avendo quindi un’abbondante salivazione, vi sputavano dentro. Ma non sempre facevano centro o si curavano di esse, sicchè: "C'erano degli scaracchi alti in terra" che facevano rivoltare lo stomaco, nonostante i cartelli: "Vietato sputare per terra" obbligatori per tutti i locali pubblici.

Chi ha vinto
L’atmosfera paliesca di Siena arrivava fino a Quercegrossa. Ma l’interesse che suscitava il Palio non andava oltre alla platonica adesione ad una contrada, di cui ci si dichiarava sostenitori; nessuno o quasi nessuno frequentava la contrada, ma l’emozione prendeva un po’ tutti in quei giorni, nei quali ai miei tempi si incominciò a far sfoggio del fazzoletto della contrada, anche se prima della guerra “Qualche fazzolettino s’aveva”. Nei giorni di palio si agitavano contenti le piccole bandiere quadrate e spesso “si faceva” per la contrada di cui si possedeva la bandiera, come fanno i turisti oggi; io ho avuto quella della Civetta, contrada abbandonata quando vinse tutte le prove e perse il palio, della Pantera, dell’Istrice ecc. Noi ragazzi si correva il palio nel giardino di sotto, spesso portando i più piccoli sulla schiena come fantini. Non mancava poi su piste polverose il gioco dei tappini con incollati all’interno gli stemmi delle contrade. Nel dopoguerra, a Quercia, si possono ricordare due schieramenti conseguenti ad amicizie e conoscenze: quello dell’Oca e l’altro dell’Istrice. Quest’ultima contrada godeva della simpatia generale prima della guerra. Fin da quando ci sorregge la memoria sappiamo che alcuni nostri paesani si recavano a Siena per vedere il palio viaggiando con la loro fedele bicicletta. Poi si cominciò a usufruire del servizio pubblico o del Mencherini; entrambi i trasportatori aspettavano la gente andata in Piazza, e ripartivano soltanto dopo corso il palio. Col parroco don Ottorino, il quale si tacciava del Bruco, ebbi l’occasione, con gli altri sacrestani, di andare in piazza nel 1954 e assistere per la prima volta al palio: vinse il Leocorno con Vittorino e Gaudenzia ed era il 5 settembre, palio straordinario per l’Anno mariano; s’aveva 7/8 anni. Anche il 18enne Piero Rossi era in piazza il 20 agosto 1945 per il palio straordinario dedicato alla pace. Vinse il Drago con il fantino Rubacuori, ma il Bruco, grande candidato alla vittoria, si senti danneggiato e i brucaioli aggredirono il fantino vittorioso e impossessatisi del palio lo ridussero a brandelli. Lo zio Piero, in mezzo alla calca dove probabilmente aveva visto poco, sentì parlare del palio strappato. Nella sua schiettezza non ritenne grave il fatto e commentò ad alta voce: “Ma che voi che sia uno strappo”. L’affronto, unito alla rabbia della beffa, fece scatenare un gruppetto di senesi. Lo aggredirono sedutastante, ma lui ai primi minacciosi berci li anticipò e fece in tempo a darsela a gambe. Lo inseguirono e lo fecero correre fino in Piazza del Duomo, dove trovo rifugiò nella cattedrale e dove i picchiatori non ebbero coraggio di entrare. Ricordo anche la sera della vittoria del Bruco nel 1955. Anche se lui era della Lupa, Armando Petri, il fratello della zi’ Anna, volle portare con la sua Appia tutte le cognate Mori e il sottoscritto in contrada ad assistere alle grandi bevute, ai canti di vittoria e a bere un bicchiere di vino. La sera del palio Quercegrossa aveva un rituale, antico non si sa quanto: è ricordato dagli anni Trenta del Novecento e proseguito fino alla nostra generazione che è stata l’ultima ad aspettare, dopo corso il palio, il passaggio delle prime macchine o moto e berciare forte: “Chi ha vintooo!”. Era un divertimento per tutti, seduti alla panchina della bottega, a quelle del Mori, o schierati lungo la strada. Le prime risposte non ti davano mai la sicurezza di chi veramente avesse trionfato. Capitava che molti dassero la contrada sbagliata; ed era un gioco fatto volentieri da quelli di Fonterutoli e Castellina. Una cena consumata alla svelta e via a riprendere postazione, e anche dopo le nove, a buio, ai fari delle macchine si sentiva ancora chiedere da un coro di voci felici “Chi ha vinto!”, magari dopo aver bagnato il fondo stradale con l’annaffiatoio, perchè prima dell’asfaltatura della strada le nuvole di polvere alzate dalle macchine ti seccavano la gola.

Fiera a Quercia
Un bel giorno, come ogni paese che si rispetti, anche Quercegrossa ebbe la sua fiera e il mercato delle bestie, ed entrò così a far parte di quel nutrito calendario di fiere e mercati pubblicato sui quotidiani e negli almanacchi. Promossa dal sensale Dino Guarducci ebbe inizio probabilmente nell’anno 1948 se già nel 1949 abbiamo delle memorie (la fiera si svolse il giorno dopo la sciagura di Superga) e il 3 maggio 1951 il primo articolo sulla Nazione riportava: “Domani venerdì si svolge a Quercegrossa la fiera di merci e bestiame. La fiera avrebbe dovuto aver luogo oggi, ma essendo il 3 maggio giorno festivo (Ascensione) è stata rimandata al giorno 4”. Il mercato bovino doveva offrire opportunità di compra-vendita nei momenti più importanti della stagione agricola a un ambiente che nel passato mai aveva conosciuto iniziative del genere: si dipendeva esclusivamente da Siena e altri mercati. Naturalmente i soli bovini non sarebbero stati sufficienti per dare lustro ad una fiera paesana, perciò furono subito invitati a partecipare vari commercianti ambulanti, divenuti poi abituali venditori nella Fiera di Quercegrossa. Figure mitiche per noi ragazzi che ci dettero l’occasione per ottenere qualche balocco e un chicco dai genitori, ma anche le massaie e le signorine ebbero l’opportunità, nel clima della fiera, di aumentare il loro guardaroba o spendere per qualche nuovo utensile da cucina strappando lire ai recalcitranti capocci o mariti. Il chiccaio, il cocciaio, l’uomo delle pésche, il merciaino di Colle, il giocattolaio, ognuno aveva il suo nome di riferimento. I primi anni la mostra mercato del bestiame si tenne nei campi del Castello, dietro la Società, poi venne trasferita nel campo della scuola e da ultimo in quello davanti a Leccino quando ormai la presenza di vacche, bovi e vitelli era ridotta al minimo. Infatti, come tutte le cose, anche la Fiera a Quercia ebbe i suoi momenti d’oro iniziali, con buona partecipazione di contadini, fattori e sensali, ma con la crisi della mezzadria gli ultimi anni furono decisamente dimessi e anche tra i venditori ambulanti iniziarono le defezioni tanto che la fiera morì di morte naturale verso il 1960/61 tra il disinteresse di tutti.
Il calendario contemplava due fiere annuali da tenersi nel primo giovedì di maggio e di settembre. Sin dalla mattina presto i numerosi contadini dei dintorni conducevano vitelli, bovi e vacche ben puliti e lucidati nelle corna e negli zoccoli per mostrarli a sensali e acquirenti. Guido Lazzeri partiva dai Cipressi con il carro tirato da due belle bestie infiocchettate di rosso e ben unte per fare bella figura, con altri due vitelli legati dietro al carro. Una volta al passaggio di una macchina per la strada dei Selvolini queste bestie entrarono nel fango imbrattandosi fino al ginocchio e pazientemente Guido li rilavò nella Staggia per non presentarsi in quelle condizioni.
Intanto in paese i venditori piazzavano ai soliti posti i loro banchi, con noi ragazzi a scuriosare in qua e là. Il passaggio della Sita si rivelava complicato soprattutto quella delle cinque che doveva sfondare un muro di gente e far attenzione alla merce esposta quasi sulla strada.
Se la mattina era calma, riservata al mercato delle bestie, fin dal primo pomeriggio arrivava una folla di potenziali clienti: tanta gente da riempire la via principale e la piazza di un vociare sommesso e allegro. In bottega era un via vai di clienti e per l’intera giornata questa atmosfera di festa rendeva partecipe emotivamente tutto il paese. Molti operai non andavano al lavoro.
All’imbrunire alcuni banchi accendevano le loro luci: una lampadina o due attaccata alla presa della famiglia più vicina per richiamare gli ultimi clienti. Poi, piano piano, finiva il lento passeggio e i commercianti caricavano la loro merce e partivano lasciando cartoni e carte dappertutto.
Ci si salutava contenti con l’arrivederci alla prossima. A noi ragazzi restavano i giocattoli tanto agognati che sarebbero stati oggetto dei nostri giochi nei giorni seguenti: gli indiani, i soldatini, le palline dell’omino delle pésche a 10 lire l’una, e le carovane a quattro cavalli della prima plastica, un materiale che andava alla grande in quelle fiere di fine anni Cinquanta. Ah, dimenticavo di rammentare quel canto popolare allora molto in voga e ripetuto spesso in quei giorni:

Alla fiera di mastrAndrè
aggio comprato lo tamburiello
Alamirè, alamirè,
alla fiera di MastrAndrè.

Disposizione dei banchi alla Fiera a Quercia.

Armando Losi (a destra) e Giulio Nencioni nell’unica foto ritrovata della fiera del bestiame di Quercegrossa. Anni 1953/54. Un vitellino impaurito è l’unica testimonianza dell’evento nel campo del Castello.


Cose Al Casino
Fino al 1958 si andava al casino come si andava a prendere un caffè: bastavano poche lire in tasca. Senza far nomi, un giovanotto dei dintorni fidanzato con una ragazza di Quercegrossa, si recò a Siena in bicicletta con la fidanzata in canna. Fatte le proprie cose a un certo punto in periferia di Siena si fermò e “Aspettami un momento devo andare in quella casa”, le disse. Lasciò la citta a guardia della bicicletta ed entrò nel Casino. Era la casa di tolleranza detta “Cristina”, una villetta posta a metà dell’attuale Via Nino Bixio che collega Via don Minzoni a Viale Mazzini. La ragazza aspettò, e al ritorno del fidanzato, andato a far marchette come si soleva dire, ripartirono come se niente fosse. Anche i calessi di altri personaggi di Quercegrossa si potevano vedere spesso posteggiati nella piazzetta davanti a "Cristina" uno dei due casini di Siena. Molto più frequentata era la casa in Via del Rialto, un bordello di livello inferiore (si pagava meno) dove trovavi garzoni, artigiani e contadini e certamente da Cristina “le donne erano più belline”.
Le ragazze delle case chiuse (così dette perchè dovevano tenere le persiane chiuse e vi era proibito ogni commercio e ogni altro divertimento come il ballo, ecc.) venivano sostituite ogni 15 giorni: cambiavano città ed erano sotto uno stretto controllo medico. Un uomo di Quercegrossa trovandosi a Roma ci avrebbe giurato di aver visto lavorare in un casino una donna residente nelle nostre zone. Le famose “marchette” non erano altro che gettoni consegnati dalla tenutaria della casa (metresse) al cliente, e da questi alla prostituta, a testimonianza dell’anticipato pagamento della prestazione, e quindi a lei accreditata; la marchetta nell’immagine col n° 318 proviene dal casino senese del Rialto.
Esisteva in Via del Rialto un ingresso riservato a clienti particolari, e un separè nascondeva alla vista gli anonimi. Quando i clienti in attesa sentivano salire svelti le scalette del casino c’era sempre qualcuno con la battutina pronta: ”Questo deve essere un prete”; “Questo deve essere un avvocato”.
Nello Rossi frequentava saltuariamente Via del Rialto. Partivano in bici 4/5 giovanotti da Quercegrossa e ritornavano a notte alta; mai andava da solo. La sua “prima volta” all’età di 14/15 anni rivestì particolare importanza: era infatti una specie di iniziazione festosa. In collaborazione con la metresse del casino si seguiva una speciale procedura per mettere a suo agio il giovane, emozionato da questa prima esperienza sessuale. Separato dalla folla degli usuali clienti, lo fecero accomodare da solo in un salottino dove le signorine gli si presentarono a turno con fare discreto, ma civettuolo; tra queste lui scelse quella che lo avrebbe, come si diceva, “sverginato”. Era consuetudine accompagnare il giovane che andava per la prima volta al casino e lo zio Nello ce lo portarono Bonello del Mulino e Nello del Taddei.
Nel 1958 con la legge della senatrice Merlin le case di tolleranza vennero chiuse per sempre così come stavano scomparendo tutti quei personaggi che li avevano popolati per un secolo, ossia dal 1859, quando lo stato piemontese le aveva aperte per gli zuavi francesi, e poi “tollerate” dal nuovo Regno d’Italia; evidentemente rendevano bene e come un fulmine si erano diffuse ovunque: "Nei primi giorni del dicembre 1860 in Siena nella casa Battisti nel vicolo che dalla Madonna del corvo che immette in via delle Murella nel popolo di S. Quirico fu aperto un pubblico Postribolo tollerato dal presente Governo con gran disdoro della pudicizia e disonore della Città un tempo detta della Vergine". Don Merlotti con una mordace ironia e mirata critica verso le istituzioni ritenute profondamente anticlericali, ci informa della novità come un’onta per la città, ma non tutti la pensavano come lui in merito ai cosiddetti bordelli... anzi.



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