Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Fame in caserma
Negli anni di guerra, prima del passaggio del fronte da Quercegrossa, lo zio di Armando Losi, un Bruni, era militare a Firenze. In quegli anni le città soffrivano grandemente la penuria di viveri, avvertita anche in tutte le istituzioni militari e civili. Don Veris Consumi, allora seminarista in Firenze, rammenta tra i ricordi importanti di quei giorni, la grande fame patita in seminario. Anche la caserma offriva ormai un rancio al di sotto delle necessità caloriche dei soldati e “i militari mangiavano poco e pativano la fame”. I più fortunati furono i militari contadini, i quali potevano disporre di qualche aiuto dalle famiglie sotto forma di pacchi alimentari. Anche i Losi dell’Arginanino spedivano alcune vettovaglie al proprio congiunto e per questo si servivano del Giardini, l’autista della Sita. Inviavano periodicamente alimenti come affettati, pasta e prodotti dell’orto, ma soprattutto pane. La sera, durante la corsa Firenze-Siena, il Giardini si fermava con l’autobus davanti al podere e i Losi gli consegnavano il pacco insieme naturalmente ai ringraziamenti che consistevano in un grosso pane per il disponibile autista.

Carta igienica

Non molto tempo fa, discorrendo con un gruppo di giovani e trattando delle cose passate, dichiarai serenamente che ai nostri tempi non ci s'aveva la carta igienica; mai dichiarazione suscitò tanto stupore: "Come! Non ci avevi la carta igienica? E come facevi?", gridò stupefatta Cristiana, immaginandosi chissà in quale mondo si vivesse. Allora, dopo aver precisato che si può vivere anche senza gli indubbiamente utili rotoli, passai a elencarle tutti i sistemi pratici in uso: in primis la carta di giornale, in secundum la carta gialla della bottega e poi, per chi faceva i suoi bisogni all’esterno, essendo molto diffusa questa pratica nella cultura contadina, c'era qualcos’altro... ma qui mi fermo e racconto quando... Negli anni Quaranta il bracciante Baco di Petrazzi abitava al Leccino ed era solito fare i suoi bisogni fisiologici tra le prese dei campi del Poggio, accoccolato tra viti e olivi. Puntualmente, sul far della sera, si avviava lento lento a fare i suoi comodi. A quei tempi per ripulirsi, quando si trovavano nei campi, usavano i pampani delle viti, oppure sassi stondati come faceva Baco, del quale è rimasto famoso il lancio del sasso che effettuava regolarmente dopo esservicisi pulito, a dovere, il sedere. Lascio agli antropologi la spiegazione a questo comportamento. Meno indicate erano le manciate di paleo (un tipo d’erba con fili alti e robusti), facili a procurare piccoli tagli nella delicata parte: “Ci fu uno che si pulì col paleo e rimase ferito e sanguinante”. Rinomate erano le c.... collettive al poggio dei giovani del paese promosse da Dedo. Si rammentano anche le ultime, abbastanza recenti, defecazioni sotto il fico da parte di Gosto Torzoli, con i ragazzi fastidiosi, come Tommaso, sempre pronti a molestalo nel momento migliore. Rientra in questo contesto e a pieno titolo la vicenda di Brunetto, il quale dà un tocco poetico a questa consuetudine. La moglie Annita si era intestardita a voler sostituire la buca del vecchio gabinetto all’antica con una specie di moderno water, ma mancando l'acqua corrente tutto ciò non apportava nessuna utilità e non aveva quindi il consenso di Brunetto. Anzi, egli era decisamente contrario e affermò, in quei versi rimasti celebri e ricordati da Silvano, che al water preferiva per i suoi bisogni

“Andar pe’ campi a lo spirar dei venti
con il culo alto e i coglioni pendenti”.


Il battesimo di Salvatico

Salvatico fu battezzato in San Giovannino, come tutti i maschi della sua famiglia.
Ora che i Cancelli abitavano a Poggiobenichi non era però nè facile nè salutare portare un bambino di pochi giorni a Siena, al battistero di S. Giovanni, ma il capofamiglia fu irremovibile: "Siamo stati tutti battezzati in Sangiovannino e anche lui deve essere battezzato lì".
Così, con la ciuca della fattoria condotta dal Barbucci, il 15 ottobre 1932, cinque giorni dopo la nascita, di buon'ora, in una bella giornata, in braccio alla comare Pia Rustici, Salvatico venne trasportato a Siena accompagnato dal cugino Ademo che gli fece da compare. La mamma Vittoria, non ancora in forze, rimase a casa e dopo averlo ben fasciato gli diede la prima pocciata prima della partenza.
Lo rivide la sera, quando tornò dopo tante ore trascorse, e allora allattò di nuovo il suo bambino affamato e digiuno da quasi un giorno intero: "Avevi una fame, mi disse dopo". Salvatico è, come si dice, il nome d'arte; in realtà fu battezzato Alvaro Mario. Quando giovinetto, guardando i maiali al Casello nel bosco sotto la Ripa, gli uomini della nuova famiglia del vicinato passando dal piano e vedendolo lo chiamarono, lui non immaginò che avrebbe cambiato nome. Questo bambino un pò timido, ma curioso, si affacciò esitante fra i fusti degli alberi: "Oh che sei sarvatico? Fatti vedere!", gli berciarono gli uomini da lontano. Da allora quell'aggettivo gli è rimasto come attaccato alla pelle e per tutti Alvaro è Salvatico, senza offesa. Perfino il postino cercò un certo Salvatico Cancelli, al quale era indirizzata una lettera. Fu l'ultimo nato a Poggiobenichi.

Cultura

C’erano dei grossi limiti alla conoscenza storica, specialmente nelle campagne, ma quando è troppo è troppo.
Verso gli anni Sessanta nel Bar di Quercegrossa, parlando dei resti etruschi visibili a Fonterutoli e Castellina, prese il via un’accesa discussione sulle antiche civiltà e la loro nascita e scomparsa. Alle varie argomentazioni portate da alcuni, altri rispondevano che era tutto inventato e i resti erano mucchi di sassi e muri recenti e basta. Allora venne chiesto ad uno di questi intransigenti negatori della storia: “Secondo te, quanto tempo è che l’uomo conosce la scrittura e la usa?”. Foffo ci pensò poco e rispose prontamente dando un po’ di vaghezza e accompagnando la risposta con un largo e significativo gesto del braccio: “Mah, saranno cent’anni”. Finì subito la discussione.

Previdenza

La zia Maria, in casa Mori, era proprio una massaia all'antica. Faccende di qua, faccende di là: guardava e imboccava ragazzi, lavava, attingeva acqua, governava polli e fin dalla mattina presto la trovavi al suo posto di lavoro nella grande cucina di famiglia pronta a dare una mano alle cognate. Era sua abitudine portare un grembio da lavoro sul davanti per proteggersi il vestito, come facevano di solito tutte le donne di casa. Il suo grembio però non proteggeva il vestito, ma un altro grembio da lavoro, che a sua volta ne copriva uno proprio buono. Si ricorda che arrivò a metterne fino a quattro o cinque, in questa mania protettiva. Quello visibile che portava sopra era spesso assai sciupato e quando le donne gli dicevano: "Oh Maria, ma perché non ve lo levate codesto grembio, è tutto strappato", lei, con una certa risolutezza, ribatteva: "Pore strulle, così mi si strappano tutti i grembi".

Fuochi

Gli anni Sessanta del Novecento videro la fine di tutte le antiche tradizioni comprese quella di accendere un fuoco alla vigilia di tre feste religiose dell’anno. Questa usanza di origine pagana aveva il preciso significato di propiziarsi la divinità per ottenere tutto l’aiuto necessario o almeno ingraziarsela per una buona ventura. La sera precedente l’Ascensione, quella di S. Giovanni del 23 giugno e per i SS. Pietro e Paolo del 29 giugno, un piccolo mucchio di legni e fastella, preparato dagli uomini, veniva bruciato nel piazzale dello Stanzone. Le fiamme si alzavano tosto dalle secche foglie e i ragazzi iniziavano a saltarlo di corsa in quello che era un rito augurale. Diventava una sfida a chi saltava a fuoco più alto, mentre le ragazze si cimentavano quando c’era rimasta soltanto la brace. In antico, quando il rito aveva un più specifico significato, la notte di S. Giovanni venivano bruciate nel fuoco le erbe vecchie per propiziarsi i nuovi raccolti e venivano prese altre iniziative di tipo scaramantico. Gli ultimo fuochi furono saltati intorno al 1964/65, poi nessuno accatastò più la legna e tutto cessò nell’indifferenza generale. Ma quanto importante fosse per gli uomini della campagna il fuoco augurale ce lo ricordò un anziano contadino, quando, poco dopo S. Giovanni, una scossa di terremoto allertò tutti e Giacchino Lorenzini disse seriamente: “Non glielo hanno fatto il fuoco a S. Giovanni, ma è anche venuto il terremoto”.

C’era una volta ...

La novella faceva parte di quel patrimonio culturale popolare orale rivolto ai ragazzi. Nella sua breve trama si muovevano personaggi di fantasia come orchi, streghe e fate alternate a re, regine e principesse. Essa aveva un fine, più che moraleggiante, di intrattenimento e divertimento contenendo paradossali e inverosimili situazioni di comicità e fantasia, sulle quali le nonne si soffermavano di proposito con voce alterata e misteriosa per strappare risate, o dare emozione, o allegria ai piccoli, mettendo inoltre in evidenza più la furbizia che le virtù di certi personaggi come Pollicino o Picciolino. Depositarie di questa cultura erano le nonne che svolgevano il loro compito di guardare i nipotini recitando loro filastrocche e raccontando novelle per tenerli buoni e incuriosirli. Anche a Quercegrossa si raccontavano novelle, non fiabe o favole che erano termini da libri scolastici, ma semplicemente “novelle”, e si rammentano le più universalmente conosciute come Cappuccetto rosso, Biancaneve, Tredicino, Pollicino e altre, ma sopra tutte c’era Picciolino, senz’altro la più sentita e la più nostrale tra tutte. La narrazione era stringata, essenziale, di trama semplice, e proprio per questo riusciva a tenere desta l’attenzione dei bambini, anche dei più piccolini che non mancavano di impaurirsi e stringersi alle sottane delle mamme davanti a orchi e streghe. Tutte le novelle, col secolare ripetersi si modificarono, oppure diedero origine ad altri racconti. Ad esempio, la famosa fiaba di Hansel e Gretel da noi prese un altro nome e spesso si confondeva con quella di Pollicino.
Entrambe iniziano narrando di un bambino allontanato da casa per la grande carestia, con la sorella e i sette fratelli. Ritorna a casa seguendo i sassolini bianchi che prudentemente aveva sparso sul viottolo. La seconda volta cosparge il terreno di briciole di pane e non riesce a ritornare a casa perchè gli uccellini hanno mangiato tutte le briciole. Di queste due novelle si ricorda la famosa frase dell’orco che tanto piaceva ai ragazzi: “Ucci, ucci, sento odor di cristianucci; o ce nè o ce n’è stati o ce n’è di ringuattati”, e i miracolosi stivali delle sette leghe che usa l’orco per raggiungere Pollicino, oppure la strega che ha chiuso in gabbia i due bambini per ingrassarli e mangiarseli. Quando tasta Pollicino - Hansel questi gli da un osso secco e lei: “Come sei secco Pollicino!!”. Entrambe terminano con la morte degli sciocchi, ossia dell’orco e della strega. Anche Picciolino, la novella più amata e raccontata a Quercegrossa, aveva delle varianti e siamo riusciti a ricomporne il testo:
“C'era una volta un cittino piccino piccino che si chiamava Picciolino.
Un giorno, mentre spazzava la chiesina, trovò un soldino e ci comprò un fichino.
Picciolino andò alla finestra a mangiare il fichino, ma il fichino gli cascò in terra.
Spuntò una pianta di fico che fece un fichino e Picciolino ci sali per prendere il fichino.
Di li passò un orco che vide Picciolino e pensò di mangiarlo.
“Picciolino me lo dai un fichino”. “Nooo, mi mangi il manino”.
“Picciolino me lo dai un fichino”. “Nooo, mi mangi il manino”.
Alla fine picciolino gli diede il fichino e l'orco lo chiappò e lo chiuse nel sacco.
Strada facendo all'orco gli scappava e si mise a falla.
Picciolino cominciò a dirgli: "Vai più in là, sento puzzo"; "Vai più in là, sento puzzo".
E l'orco si allontanava. "Vai più in là, sento puzzo".
E l'orco si allontanava sempre di più, e andò al di là delle montagne.
Allora Picciolino prese un coltellino tagliò la balla, ci mise delle pietre nel sacco e scappò via. L'orco riprese la balla con i sassi e si avviò verso casa.
Come pesi Picciolino, diceva l'orco, come pesi. Arrivato a casa disse alla moglie:
Catera! Oggi si mangia bene! Metti l'acqua nella caldaia, ho chiappato picciolino nella ficaia.
Ma la moglie dell'Orco nel buttare la balla piena di sassi nel pentolone di acqua bollita ci cascò dentro e andò a lesso al posto di Picciolino e quando l'orco rientrò si mise a mangiare - e mangiò la moglie invece di Picciolino.
Poi esce e sente Picciolino che lo canzona: "Cuccù Memmè", "Cuccù Memmè", invece di mangià me, hai mangiato la tua mogliè.
L'Orco vede Picciolino sopra il tetto: "O come hai fatto a salire costassù?
Ho preso una fila di piatti e son salito.
Allora l'Orco cerca di chiapparlo - mette anche lui una fila di piatti, ma il suo peso gli fa rompere tutti i piatti, casca e si rompe l'osso del collo”.
E qui finisce la novella di Picciolino come la raccontavano le nonne a Quercegrossa negli anni Cinquanta del Novecento.

La ciora

Francesco era un bambino di un podere vicino a Quercegrossa. Avevano una bella ciora (una troia) e lui ci giocava e ci si era affezionato, ricambiato.
In una gita scolastica giunsero al mare; il bambino e la mamma lo videro per la prima volta. Lui pensò alla sua amica che sarebbe stata contenta di sguazzare in quella grande pozzanghera e rivolto alla su’ mamma disse: ”Oh mamma, se ci fussi la mi’ ciora”. Quando tornarono di casa in paese furono costretti ad ammazzarla e il bambino pianse di sincero dolore.

Topi

Molte abitazioni e poderi erano infestati dai topi, i quali manifestavano con discrezione la loro presenza, ma ogni tanto apparivano anche di giorno. Vivevano nelle antiche muraglie e le loro buche erano facilmente riconoscibili. Era facile sentirli la notte, mentre rodevano e rosicchiavano; facevano rizzare le orecchie.
La presenza di un gatto era quasi obbligatoria per controbattere l’infestazione di questi noiosi e pericolosi roditori dei quali le donne per atavica paura sono sempre state acerrime avversarie. Infatti, capitava spesso di vederne una con la granata in mano correre qua e là, urlando "C'è un topo, c'è un topo", battendo la granata in terra nel tentativo di colpire la piccola bestiola. Non tutte avevano questo coraggio: in casa Rossi nel Palazzaccio entravano in cucina dai muri, topini che correvano veloci da un angolo all'altro. Appena li avvistava la zia Piera con un salto sulla sedia si metteva in salvo e dava forza alla voce per chiedere aiuto. Non mancavano nelle stalle e la credenza popolare raccontava che i topi leccavano le corna ai bovi. In casa Carli a Petroio il capoccio comandava alle donne: "Stasera non lo mettete fuori il gatto, lo voglio mettere nella stalla. Dopo poco si apriva l'uscio della stalla e usciva il gatto con un topo in bocca".
A Gaggiola erano talmente tanti e grossi che arrivarono a prenderli a fucilate dentro la cantina. I Mori svinavano allo Stanzone e la stringitrice a mano pigiava il mosto; una volta ci vennero trovati i resti di due tarponi stiacciati e furono costretti a buttar via il vino.
Ricordo ancora la famosa “stanza dei topi”, all’ultimo piano nel palazzo Mori, e non era raro trovarli in giro per casa. Accanto al palazzo Mori era stato edificato un grande ambiente con forno, pollaio e la stanza detta del grano. Proprio questo edificio era il regno dei tarponi. I ragazzi aprivano con circospezione la porticina in cima alle scale interne che dava sul granaio e sempre sentivi il rimestare dei topi che si nascondevano, mentre altri rimanevano immobili sopra le grosse travi di legno. Era allora che vedevi la lunga coda ciondolare nel vuoto e ti passava la voglia di entrare. Era una lotta senza quartiere e le molte trappole a gabbietta, messe con un pezzo di formaggio attaccato al piccolo pendente di ferro che appena toccato faceva chiudere la porta della gabbia, catturarono un'infinità di queste bestiole. La loro fine era la solita praticata allora: venivano affogati nei conchini pieni d'acqua o nelle fonti; poi si ripiazzava la gabbietta. Un operaio dei Mori, Beppe di S. Donato, trovandosi al piano terra dove era il forno, non fece in tempo a scansarsi che un bel topo gli entrò su per le gambe dai larghi pantaloni come usavano gli operai. Con mossa svelta lo bloccò a mezza gamba, stringendolo con la mano. Attese qualche secondo poi non trovando una soluzione per liberarsi dall'indesiderato ospite, si decise e cominciò a stringere, e strinse a lungo col pollice e l'indice fino a strangolare il topo che poi cadde inerte e insanguinato per terra. Un anziano contadino si vide venire incontro sul muro un enorme tarpone. D'istinto l'afferrò con la mano e la chiuse stretta. Il grosso tarpone preso a mezzo si difese affondando i due grossi incisivi nella mano che lo serrava. Dovettero schiacciare il capo al topo per liberare l'uomo da quel morso. La mano nei giorni seguenti si gonfio di molto.

Pesci e granocchie

A Quercegrossa la pesca costituiva un fenomeno irrilevante perché praticata occasionalmente e per gioco dai ragazzi nei tomboli della Staggia dove nuotavano alcuni ghiozzi e rari granchi che si nascondevano sotto le pietre. I ragazzi più audaci, con le mani negli antri più nascosti ne tentavano la cattura e qualche volta nell'acqua resa torba afferravano un serpe acquaiolo. Al contrario, si praticava discretamente un'altra attività di pesca legata alla presenza di numerose “granocchie” nei corsi d'acqua e fontoni dei poderi. Si andava a "chiappà le granocchie" lungo il borro del Molinuzzo e quello al Pontottarchi, ma si faceva pesca grossa al fontone dello Stazzoni al Casino dove presero fino a cento granocchie in una sola volta. Erano buoni anche quelli del Molinuzzo, della Cappannetta e di Gardina: “Ci s'andava tutti, operai e contadini. La mia squadra (Nello Rossi) era di preferenza composta da Bruno di Vigni, contadino a Gardina, Enzo Papi, Benito Bandini, Puntino, contadino alle Gallozzole”. Tale passatempo era molto diffuso, sì che partivano "a branchi" a piglià le granocchie da far fritte, e andavano anche lontano se c’era bisogno: “Quel giorno si partì la mattina presto in bicicletta io (Nello Rossi), Nello Provvedi, detto Stampone, e Franco Starnini diretti nella Montagnola verso Celsa. Al ritorno, che era quasi il tramonto, si durò fatica a portare su la bicicletta nella salita della Tognazza, dal Pian del lago, da quanto s'era carichi di granocchie; almeno trecento, ma forse di più, in tre sacchi. Si mangiarono fritte, tutti insieme, una sera in piazza”.

Ragazzi

La zia Dina all'età di 13/14 anni guardava le pecore sulle terre di Vignale e gli affidavano anche quel branchetto di cinque ragazzi di casa Mori che andavano da un'età da 3 a 11 anni, in modo da lasciare libere la massaia e le altre donne di casa, sempre affaccendate. Più che le pecore era un'impresa impossibile guardare i ragazzi. Appena imboccati i campi, gli scappavano tutti: chi cercava i grilli, chi le granocchie e chi correva dietro a lucertole e ramarri; sparivano da tutte le parti e lei con la sua pazienza e con il piccolo Luigi sempre a portata di sguardo, chiamava ripetutamente gli altri, quando Sandrooo, oppure Eliooo, Dinooo, Bertooo; cercava di tenerli sotto controllo con in più un occhio alle pecore. C'erano dei muretti di sassi ai confini dei campi, e Dina vi saliva sopra e in piedi chiamava gli scavezzacolli. Forse inciampò o mise un piede in fallo, fatto sta che quel pomeriggio cadde e si ruppe una gamba. Rimase a ridosso della macia piangendo grossi lacrimoni per il dolore e per quel timore che prende e fa singhiozzare. Per fortuna la videro quelli che abitavano alla Stella e gli prestarono soccorso trasportandola in casa loro. Per avvisare la famiglia misero un cencio bianco bene in vista alla finestra della Stella che era visibile da Vignale: segnale convenuto per qualche evento importante. Infatti, la sera, ma con tutta calma, vennero i Mori. Essendo però a piedi preferirono lasciarla per la notte in quel podere e la mattina con bovi e carro vennero a prenderla. Passò la nottata con la sua gamba rotta, forse legata stretta con un paio di tavolette e uno spago. I grandi erano sempre occupati e fu lei, la maggiore, a far da balia ai maschietti di casa. Un fatto ricorrente era che quando rientrava in casa trovava sempre il più piccolo, ossia lo zio Gigi, col moccolo e nella cacca, sotto la tavola, abbandonato a se stesso.

Una penitenza

Nelle serate di veglia con tutti i parenti riuniti in casa Rossi si giocava a carte, a Omonero. Alla fine del gioco chi restava con il gobbo di picche faceva la penitenza. Essendo in casa anche per i più fantasiosi non c'erano molte possibilità. Quella sera uno si superò e suggerì una penitenza per lo zio Nello, tanto originale quanto disgustosa. Lui, quando gli venne ordinata non battè ciglio. Entrò nel gabinetto e percorse il lungo corridoio che lo divideva dalla buca, mentre tutto un codazzo di persone lo seguiva per controllare che facesse la sua penitenza. E' bene sapere che in casa Rossi, come dappertutto, la buca del gabinetto, per evidenti motivi di profumo, era chiusa da un coperchio o tappo di legno e ferro di 20/25 cm di diametro e di 3/4 cm di spessore, al quale era attaccato un manico in verticale di 15 cm per sollevarlo; chi si recava a fare i propri bisogni scoperchiava prima e poi richiudeva. Lo zio Nello si avvicinò con la bocca al coperchio, e con i denti bene in vista lo afferro e lo tenne sollevato. Così lo portò in cucina per mostrarlo a tutti. Dopodiché si sciaquò più volte la bocca alla brocca.

Ida

Ida, una ciuca, fu acquistata dal nonno Giuseppe nel 1953 e rivenduta quando i Landi cessarono di fare i contadini a Viareggio e tornarono nella nuova casa di Quercegrossa. Il giorno che un camioncino venne a prenderla a Viareggio per portarla a Bologna, all'autista dissero che in paese c'era una donna che la voleva vedere per l'ultima volta. Questi si fermò dove gli avevano indicato e suonò il clacson. Piera uscì di casa, mentre la ciuca era sul camion a orecchi ritti. Si videro e un moto di compassione commosse Piera. Si guardarono, e Ida avverti che c'era qualcosa di nuovo e di pericoloso, allora la povera bestia lanciò al cielo due ragli di disperazione e di soccorso che però nessuno gli poteva più dare. La ciuca che i Landi avevano prima di lei a Viareggio era di quelle che hanno la testa dura e si impuntava per un niente: si buttava per terra e non c'era verso di farla alzare. Fu venduta dal Guarducci che indicò al nonno dove andare per prenderne un'altra. Giuseppe si mise in viaggio a piedi diretto a quel podere vicino a Poggibonsi in cui si rallevavano e vendevano questi animali. Acquista la nuova ciuca, s'incammina per Viareggio. Gli avevano dato anche il ciuchino, perchè pocciava ancora e non si poteva staccarlo dalla madre. Per la strada gliene combina di tutti i colori; non si teneva. Per caso in un podere di passaggio il ciuchino piacque e fu comprato dal contadino col patto che se non mangiava l'avrebbe restituito. Non parve vero a Giuseppe disfarsi di questa insofferente bestia che rallentava la marcia. Non rivide più nessuno. Ida, al contrario, fu sempre una bestia docile, e intelligente, per quanto valgano queste parole per una ciuca. Aveva svolto pazientemente, per anni, tutti i lavori del podere portando some e tirando carretti. Quando poi la legavano al maneggio per trinciare il fieno partiva al comando e girava ininterrottamente per ore, senza problemi. Non avrebbe mai immaginato che dopo tanto lavoro il suo destino si sarebbe compiuto a Bologna, in una di quelle famose mortadelle. Ma così va la vita.

Befana e befanini


La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte
il mantello l’ha di lana
viva viva la Befana



così si recitava ai miei tempi la filastrocca e l’attesa di quel giorno si faceva più trepidante tanto più ci si avvicinava al 6 gennaio. La sera della vigilia dell'Epifania due, tre squadre di "befanini" di tutte le età bussavano alle porte di Quercegrossa e una caramella o dieci lire non le negava nessuno. Prima della guerra erano i grandi a girare per le case di Quercia vestiti da befanini come faceva il mi’ zio Guido. Non c’era bisogno di fare spettacolo o altro, bastava entrare nella casa dove la gente ti aspettava. Osservava i befanini e cercava di scoprire chi c’era sotto quel travestimento fatto di vecchie stoffe, parrucche e pastrani, col trucco pesante dipinto con carbone, farina, borotalco e rossetto.
Ai tempi d'oro del Dopolavoro venne istituita la Befana fascista con la consegna ai ragazzi di un dono. Così fece anche don Ottorino in parrocchia dagli anni Cinquanta, nel pomeriggio, dopo le funzioni: la Befana faceva il suo ingresso nella sala del cinema e un pensiero c'era per tutti.

L’ultima befana (Enzo Stazzoni) al circolo parrocchiale nel 1959.
Da destra, in primo piano: Giorgio Rossi, Lorenzo Mori, Robi Riversi e Fiorenzo Pistolesi.


Questo giorno particolare era un po’ la festa dei ragazzi che ai miei tempi ricevevano regali di frutta secca, dolci natalizi, caramelle e cioccolate e un giocattolo. La mattina al risveglio volgevano subito l'occhio speranzoso al comodino in cerca del regalo e della calza piena che la Befana aveva lasciato. Negli anni Trenta i ragazzi di molte famiglie ricevevano per la Befana soltanto qualche caramella, fichi secchi e noci insieme agli immancabili capi d’aglio, patate, cipolle e carbone perchè erano stati cattivi. In quei giorni i ragazzi godevano dell’attenzione dei grandi i quali si divertivano con il loro ingenuo credere come avveniva in casa Carli al podere Paradiso dove si ripetevano gesti tradizionali antichi di secoli. Alla vigilia del 6 gennaio lo zio chiamava i bambini di casa: “Preparate il fastellino di fieno per il ciuchino della Befana per quando passa stanotte”, e il fastellino veniva appeso al camino con accanto le calze vuote che la Befana avrebbe riempito. La mattina i grandi rigavano con una canna il nero camino per far vedere da dove era entrata la Befana: “Guardate bambini da dove è passata la Befana...". Poi: “Andate a vedere se passa...” e i ragazzi distoglievano l’attenzione dal camino. Allora lo zio ne approfittava per lanciarvi all’interno delle noci che ricadevano sul focolare rumorosamente: “Guardate, era qui; ha tirato delle noci per voi...” e i bambini col fiato corto si avvicinavano alle donne.
In casa Mori, alla vigilia del 6 gennaio 1954/55, la Befana arrivò davvero e noi ragazzi si aspettò, eccitati e impauriti, facendo gruppo sul grande focolare senza avere il coraggio di avvicinarsi alla porta. "C'è la Befana, c'è la befana", cominciarono a dire. Aprirono la porta ed entrò tutta curva sotto il peso di una balla, vestita di nero con una maschera sul viso dal naso adunco e gote rosse. Si pose al lato opposto della grande tavola di marmo e da lì con una voce rauca da far impallidire chiunque ci chiamava per consegnarci i regali. Ci chiese di essere più buoni e tutti con un filo di voce o annuendo tentennando la testa promettemmo di esserlo. Lasciò caramelle, una o due bamboline di stoffa per le cugine e macchinine per noi ragazzi, poca roba insomma, ma eravamo contenti ugualmente, perché l'attesa non era mai superiore alla nostra semplice realtà.

Igiene intima

Da ragazzo, nel nostro giardino, preso dal gioco ogni tanto vedevo attaccate ai fili dei panni numerose pezze di lino bianco messe ad asciugare. Erano tutte più o meno uguali in larghezza e altezza e non riuscivo a capire a cosa servissero: “Ma che saranno quei cenci bianchi?”. Poi arrivai a definirle genericamente come cose da donne e finalmente un giorno capii a cosa servivano, ma ce ne volle.
Ricorda Annunziata Mori: “Le pezze del mestruo erano lavate e riusate. Io le tenevo nell'antico comodino a fianco del letto, in un secchio smaltato dentro uno di quei cassetti dove c'era la buca rotonda per farla”. Avete letto bene, in molti comodini in uso nelle case signorili tirando una specie di cassetto con una buca e il cantero sotto si poteva fare la popò che poi la servitù svuotava. Oltre al cantero di ceramica venivano usati sacchetti di tela attaccati alla buca.

Appannatura

Il bagno integrale comunemente inteso o la doccia erano poco praticati dai nostri padri e nonni, anzi, la sua utilità non era capita nè desiderata e questo valeva per tutte le classi. La doccia poi era del tutto sconosciuta e la prima a Quercia venne vista fare ai soldati americani che usavano grossi bidoni sollevati da terra e forati con tanti piccoli buchi dai quali usciva acqua. Le precarie condizioni igieniche nelle quali si muovevano dalla mattina alla sera i contadini e i salariati, sia quando entravano nelle stalle e nei castri a contatto delle bestie o più semplicemente quando si muovevano intorno ai poderi dove capitava di calpestare escrementi di ogni tipo di animale, oppure quando praticavano lavori che riempivano di polvere, terra e sudore, non trovavano la necessaria corrispondenza nell’uso giornaliero dell’acqua. Molti si limitavano al parziale lavaggio del busto e delle braccia per togliersi lo sporco più grosso di dosso. Il bagno completo nel conchino era riservato soltanto al sabato e non da tutti. Si narra di un anziano contadino di Passeggeri che nella sua lunghissima vita non si sia mai lavato: un panno bagnato sopperiva al bisogno: “si appannava”, come lui diceva. Molti si lavavano a fine settimana nell’acqua di torrenti e fiumiciattoli. Un anziano, anch’esso restio all’uso dell’acqua, rimproverato di non lavarsi mai rispondeva: “So’ più pulito io quando so’ sudicio che te quando sei pulito”. Si diceva anche: “Sei più sudicio di un baston da pollaio”. Questa metafora prendeva ad esempio i bastoni del pollaio disposti in maniera asimmetrica a scendere, sopra i quali si appollaiavano e passavano la notte le galline. Figuriamoci in che condizioni di pulizia fossero.

La tavola di legno

Parlando della tavola di legno si si può anche equivocare, ma io qui parlo di quella che ai miei tempi si trovava appoggiata al muro in un angolo di molti gabinetti con un foro rotondo centrale. La sua utilità era riconosciuta perchè veniva posta sulla buca quando l’età di chi faceva i suoi bisogni, gli impediva una posizione più agile “a cuccoloni” sopra la pietra di marmo. In casa Mori era usatissima e comoda, e starci a sedere ti dava un qualcosa di nobile. L’inconveniente era che spesso la trovavi imbrattata di m... secca nel bordo del foro rotondo, proprio dove ti sedevi.



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