Fidanzamenti e Nozze
(Nozze 1)
(Nozze 2)
(Nozze 3)
(Nozze 4)
(Nozze 5)
(Fidanzamenti)
Introduzione storica
Dal rito religioso o civile del matrimonio ha origine una famiglia. Esso unisce e vincola un uomo e una donna all’osservanza di determinate norme e obblighi, che essi si assumono attraverso loro libero consenso; atto quest’ultimo considerato dalla Chiesa come segno sacro fondamentale per dare validità al sacramento. Per secoli, come vedremo nella breve escursione storica proposta per dare un minimo di cognizione sui fondamenti e sull’evoluzione di questa istituzione, la Chiesa è stata la competente in materia, per la quale il matrimonio rappresentava e rappresenta dal punto di vista sacramentale un legame indissolubile, benedetto da Dio per privilegiare un cammino comune tra i due coniugi chiamati a santificarlo con la prole nella nuova famiglia, amandosi e sopportandosi cristianamente finchè morte non li separi.
Da puntualizzare che fino non molto tempo fa il matrimonio era l’aspirazione primaria di quasi tutti i giovani e ragazze. Vi trovavano in esso il modo di sistemarsi convenientemente; conquistare autonomia e sicurezza di vita e fondamentalmente cercare quel rapporto affettivo dato dal coniuge e dai figli; affetto difficilmente trovato in un’esistenza solitaria da “pinzo” o “zitella” nella loro famiglia di origine. L’altro importante punto da sottolineare era l’ingresso della novella sposa in casa del marito, dove assumeva inizialmente un ruolo secondario di dipendenza dalla massaia, a meno che gli sposi non mettessero su casa o lei divenisse la moglie del capoccio. Raro, ma non impossibile, era l’ingresso del marito in casa della moglie e ciò avveniva spesso con famiglie contadine povere di mano d’opera maschile.
La nuova visione predicata dalla Chiesa sul matrimonio nel mondo romano fece diminuire lentamente in circa due secoli fino a farlo cessare del tutto l’ampio uso del divorzio praticato nell’impero, anche se ben presto riapparve con l’invasione longobarda del 574, quando l’Italia centro settentrionale venne divisa in due Leggi diverse: quella barbara dei conquistatori praticanti il mundio (soggezione della donna alla potestà del padre e poi del marito) e il ripudio, e quella romana che risente dell’influenza della Chiesa cattolica. In entrambi i casi si manifesta evidente l’inferiorità della donna sottoposta ai voleri dei padri e limitata giuridicamente. Per quanto riguarda il matrimonio, infatti, le due famiglie si accordano tra loro contrattando spesa e dote restando assolutamente irrilevante il consenso della giovane sposa. In Italia nel periodo carolingio e feudale, alla subordinazione della donna alla famiglia si aggiunge quella del signore locale, e non meglio andavano le cose nei paesi europei con le donne completamente sottomesse. Dal IV al IX secolo il matrimonio è un fatto civile dove solo lentamente e non obbligatoriamente si inseriscono riti religiosi cristiani come la benedizione degli sposi da parte del prete o la loro presentazione alla Comunità riunita nella celebrazione eucaristica. Intanto sul finire di questo periodo storico va imponendosi il principio della indissolubilità del matrimonio stesso e dai secc. XI-XII nell’intero mondo cristiano va assumendo pienamente quel significato di “sacramento” come lo intendiamo ancor oggi e si aprirà col tempo, inoltre, uno spiraglio nel privilegio maschile che darà alla donna qualche possibilità di liberarsi dal condizionamento familiare. Ed è, infatti, intorno alla metà del secolo XII quando si va affermando universalmente il principio predicato dal teologo Pier Lombardo (1095-1160) che il consenso volontario dato da entrambi gli sposi è l’elemento principale e decisivo del matrimonio e non la sua consumazione, e nel contempo la Chiesa cerca di affrancare la donna dal volere paterno e da vincoli feudali pur restando di fatto ella sottoposta al marito come lo era d’altronde in tutti i settori della società. Ci vorranno secoli per superare queste prevaricazioni, basti pensare che nel mondo mezzadrile dal XVI al XVIII secolo diversi padroni esercitavano ancora un invadente controllo sulla struttura delle famiglie contadine e il matrimonio delle giovani colone era sottoposto al loro volere e al potere dei capocci all’interno delle stesse. Dal quei rammentati secoli XI-XII inizia anche l’azione dei tribunali ecclesiastici che toglieranno nel tempo ai tribunali civili la legislazione in materia di matrimonio.
Per tutto il medioevo la procedura matrimoniale è costituita da una serie di atti quasi obbligati per arrivare ad unire due persone e prevedono nuovi rituali nella continuità degli antichi. Si parte dall’accordo iniziale tra famiglie, con il coinvolgimento di parenti, amici e spesso sensali, ai più precisi patti tra i padri sulla dote che la sposa avrebbe portato al marito, le spese del matrimonio e altro. I patti concordati cominciano ad essere messi per iscritto, tra loro o presso un notaro, ma anche da un prete per le classi più umili. E’ il momento degli “sponsali”, a confermare il matrimonio con lo stringersi la mano, il bere insieme e rompere il bicchiere, e il baciarsi fra gli sposi: bacio inteso come segno di libera accettazione. E’ anche il momento dei doni offerti dallo sposo alla futura sposa: dolci, scarpe e nastri per le famiglie meno abbienti, mentre era tutt’altra musica per i nobili e i ricchi borghesi con gioielli e ricche stoffe. Dal X secolo, inoltre, si impose l’uso del dono dell’anello, di qualsiasi metallo, che lo sposo metteva al dito della sposa e la prendeva come moglie. E’ la famosa “dazione dell’anello”, divenuta nel tempo un simbolo irrinunciabile nel matrimonio. Il ruolo del sacerdote nei primi secoli del periodo trattato, come già detto, è marginale e si limita alla benedizione degli sposi, non sempre alla porta della chiesa, e l’istituzione matrimoniale è sotto la garanzia delle famiglie e dei signori feudali. Poi dall’ XI secolo quando la Chiesa inizia ad esercitare un controllo sempre più stretto sul matrimonio, sulle sue irregolarità e sulla morale dei coniugi, il rito religioso viene codificato nel Rituale e si passa dal matrimonio celebrato in qualsiasi luogo alla solenne benedizione dell’unione davanti alla porta della chiesa “in facie ecclesiae” con seguente partecipazione alla messa, e infine, ma molto più tardi dagli inizi del XVII sec., a una cerimonia davanti all’altare inserita nella liturgia della messa come condizione imposta dal concilio di Trento ai cattolici (Rituale Romanum del 1612). Tra parentesi c’è da dire che se la pastorale della Chiesa dai longobardi all’età comunale è tesa ad affermare il valore del matrimonio sacramentale e la sua indissolubilità, mira anche a contrastare e modificare costumi violenti e di prevaricazione in popolazioni assai diverse per cultura e tradizione. Popoli nei quali, insieme ad una certa libertà in fatto di morale matrimoniale, convivono sempre e in modo esteso pratiche inaccettabili come l’adulterio, lo stupro, l’incesto (inteso come unioni tra parenti), il concubinato ancillare, il ratto della sposa ed altri eccessi. Un significativo studio effettuato da don Mino Marchetti sull’Ordo Offitiorum della Chiesa senese del 1139 è arricchito dallo studio del Libro penitenziale coevo che ci illustra la posizione maturata dalla Chiesa in materia di morale sessuale nell’ambito del matrimonio. Essa tende a regolamentare l’atto sessuale coll’intento di evitare abusi e sregolatezze, vietandolo espressamente in periodi di penitenza (l’atto è un piacere) o nei giorni dedicati al Signore, e privilegiare la castità come momento di santificazione della coppia. In ogni caso di inosservanza si prevedevano alcune pene:
“Hai avuto rapporti intimi con tua moglie dopo che il feto si è mosso nel suo seno? Farai penitenza per dieci giorni. Hai avuto rapporti (dopo il parto)
prima della ricomparsa mestruale? Dieci giorni di penitenza. La donna dopo il parto è andata in chiesa prima della naturale comparsa del ciclo mestruale? Farà penitenza tanti giorni quanti doveva stare lontana. Hai avuto rapporti intimi nel giorno di domenica? Farai penitenza per sei giorni. Ti sei unito a tua moglie durante la Quaresima? Farai penitenza per quaranta giorni e darai sei soldi di elemosina”. Certamente questi divieti comportamentali vanno considerati nel loro contesto storico, sono in vigore da un paio di secoli, e senz’altro andarono stemperandosi nel passare del tempo fino a sparire completamente e soltanto l’espiazione dopo il parto detta
“rientro in santo” (vedi) rimase praticata fino ai giorni nostri.
Il primo serio intervento ordinativo della Chiesa sul matrimonio ci viene dal Concilio Lateranense IV, nel 1215, quando introdusse la pubblicazione delle nozze, mise ordine nelle unioni tra consanguinei e negli impedimenti. Era, infatti, andato aumentando, retaggio di costumi barbarici o dietro il frainteso indirizzo della Chiesa che vedeva fondamentale il consenso degli sposi anche senza cerimonie e pubblicità, il matrimonio privato detto
“clandestino” combinato tra loro da un uomo e una donna o dalle famiglie, certamente con l’invocazione di Dio, della Madonna e dei Santi e anche davanti alla chiesa parrocchiale, ma senza prete, nè pubblicità e spesso senza testimoni, e ciò aveva serie ripercussioni sul piano del diritto familiare e sulla morale. Per questo la Chiesa obbligò i futuri sposi a render noto a tutti pubblicamente nel tempio la loro volontà di sposarsi:
“Seguendo, perciò, i nostri predecessori proibiamo assolutamente i matrimoni clandestini e proibiamo anche che qualsiasi sacerdote vi assista ... quando si deve contrarre matrimonio, i sacerdoti li pubblichino nelle chiese e si stabilisca un termine entro il quale chi volesse e potesse dimostrarlo opponga legittimo impedimento. I sacerdoti, poi, cerchino di investigare anch'essi se vi sia qualche impedimento. E se si presenta qualche sospetto degno di considerazione contro questa unione, il contratto sia senz'altro sospeso, finché appaia chiaramente il da farsi”. L’azione della Chiesa fu incisiva, ma non determinante perchè ancora due secoli dopo si parla di matrimoni clandestini. Infine il Concilio di Trento (1545-1563), mentre riaffermava la sacramentalità del matrimonio per controbattere e condannare l’eresia luterana, decretò ampiamente e definitivamente in materia: stabilì l’obbligo delle proclame in tre domeniche precedenti il matrimonio; comandò ai parroci di effettuare una seria registrazione sui libri parrocchiali; esortò le autorità secolari a reprimere severamente le unioni illegali e condannare coloro che abbandonavano la prima moglie e si risposavano più volte; invitava i parroci ad assumere diligenti informazioni sui pretendenti al matrimonio onde evitare stati di bigamia. Quanto stabilito dal Concilio rimase come basilare prassi matrimoniale in uso fino ai nostri tempi. Nei secoli precedenti il Concilio di Trento anche l’autorità civile svolge la sua pressante azione contro le irregolarità matrimoniali e le conseguenze negative delle separazioni e combatte la bigamia, l’adulterio, l’incesto, la sodomia, il ratto e lo stupro affiancando la Chiesa in questa opera di polizia, anzi, sconfinando perfino nelle competenze di quest’ultima invadendone il campo di pertinenza annullando matrimoni e altro. Nel Cinquecento, e in particolare dopo il Concilio, lo slancio della Chiesa contro l’immoralità dei costumi si fa vigoroso e più intensa la sorveglianza sulle unioni irregolari e di pari passo si allenta la vigilanza dello Stato che lascia campo libero all’efficiente apparato curiale limitandosi al controllo dell’aspetto legale dei diritti dei singoli coniugi, della prole, degli orfani, ecc., e all’aspetto penale che gli gravitava intorno. Il matrimonio è ora esclusivamente religioso con implicito valore civile e in questo ambito spirituale cristiano la nuova famiglia si inserisce come cellula attiva nella società civile, quale elemento fondante la solida base dell’ordinamento sociale, e per questo da proteggere e tutelare; compito che la Chiesa, col tacito consenso statale, svolgerà fino all’Ottocento con discreta solerzia intervenendo drasticamente con i propri strumenti là dove si manifestava la presenza di situazioni di concubinato, bigamia o altro che in qualche modo turbavano la pubblica morale, la coscienza dei benpensanti e l’ordine costituito. Questo monopolio terminerà con le leggi napoleoniche, quando introdurranno il matrimonio civile e il divorzio ai primi dell’Ottocento. Tuttavia le leggi napoleoniche avranno breve durata, ma segneranno l’inizio di decisi tentativi degli stati di togliere alla Chiesa il monopolio del matrimonio, e per il nuovo stato italiano dal 1865 la legislazione prevederà l’obbligo del matrimonio civile davanti al sindaco in parallelo a quello religioso praticato dalla quasi totalità degli italiani. Solamente dal 1929, con i Concordato tra Stato e Chiesa, verrà meno la doppia cerimonia assumendo il matrimonio religioso anche valore civile, con i parroci obbligati a trasmettere i dati degli sposalizi ai Comuni di competenza.
Questa breve sintesi espositiva storica, religiosa e sociale del matrimonio ci fornisce le linee conoscitive essenziali ed è ora opportuno ampliarla ulteriormente e necessariamente per rammentare la memoria nuziale a Quercegrossa ricorrendo ai ricordi, al materiale fotografico raccolto presso le famiglie e ai documenti degli archivi.
Scandalo osteria
Andando a scavare nel passato scopriamo un testo esemplare sulla battaglia comune condotta dalla Chiesa e dallo Stato per contrastare le unioni illegittime. Ci viene dal lontano 1569 e coinvolge in uno scandalo pubblico l’oste di Quercegrossa Benedetto di Giovanni Battista. Questo scritto ci dà lo spunto per approfondire ulteriormente questo interessante argomento e ci aiuta a collocare il processo all’oste nel suo giusto contesto storico.
Il fatto riportato si inquadra perfettamente nel clima di restaurazione della Controriforma, che vede le gerarchie religiose impegnate ad operare decisamente per la moralizzazione della vita pubblica, educando le anime all'osservanza delle norme canoniche e indirizzando i sacerdoti verso l'evangelizzazione e al controllo della popolazione delle parrocchie nelle sue manifestazioni del vivere quotidiano. La difesa dei sani principi portò la Chiesa a condurre una spietata lotta contro coloro che infrangevano le severe leggi del matrimonio e vivevano in sospetto stato di concubinato. Il disordine morale, conseguenza delle unioni irregolari, destava scandalo e minava i principi l'ordine civile per questo le autorità politiche demandarono a quelle religiose il compito di scovare e risolvere anche con mezzi punitivi ogni legame che, di fatto, non era stato benedetto dal prete. Molto più tollerate erano le prostitute delle conviventi, perchè quest'ultime con le loro infrazioni attentavano alla stabilità della società.
Il tribunale religioso usò ogni mezzo per raggiungere il fine e riportare i trasgressori nell'ambito del Sacramento. I principali e legittimi controllori furono i parroci, i più vicini al popolo, ma si ricorse anche ai cosiddetti "famigli" cioè alle guardie sia del Bargello sia del Palazzo arcivescovile e ai molti delatori che spuntarono come funghi. Se i parroci in qualche caso si dimostrarono tiepidi nel compito loro affidato, le guardie e le spie braccarono giorno e notte donne conviventi, o apparentemente conviventi, per coglierle in fragrante e denunciarle poi ai giudici. Il non trascurabile numero di cause e denunce trattate dal tribunale ecclesiastico di Siena ci dimostra che il fenomeno aveva vasta diffusione più nelle città che nelle campagne dove la convivenza veniva spesso nascosta dall'isolamento dei poderi e dalla compiacenza di amicizie locali. L'omertà però non coprì i due concubini di Quercegrossa e l'oste con la sua amante non sfuggirono alla caccia di un famiglio fiorentino. Vennero denunciati e arrestati, come prevedeva la legge, dalle guardie del Bargello di Siena e condotti nel Palazzo del Capitano di Giustizia per essere interrogati. Erano trascorsi soltanto cinque anni da quando l'arcivescovo Francesco Bandini Piccolomini nel sinodo diocesano del 1569 aveva dato il via alla lotta del malcostume stabilendo le pene previste dal Concilio
"alle quali andavano aggiunte le altrettanti severe sanzioni dallo Stato" e, mentre richiamava alla purezza del matrimonio, annunciava la battaglia alle coppie clandestine.
La denuncia di Francesco Amici guardia del Bargello di Firenze giunse probabilmente al termine di una lunga indagine da lui condotta per ricercare donna Francesca, fuggita diversi mesi prima dalla casa del marito Bernardo Boccetti dimorante nella Val di Greve. Indagine giunta a buon fine con l’aiuto di guardie senesi e di privati, in un quadro morale scandaloso, come si ricava dall’interrogatorio. Egli intende denunciare l’oste di Quercia Grossa che la
“tiene per sua concubina ... e la tiene insieme e dal continuo vi va e pratica e con grande scandalo per tutti quelli convicini e ne è pubblica voce e fama e un famiglio mi ha detto che detta Cecca fiorentina se l'ha tenuta nel primo tempo e il presente se la tiene, e domanda l'osservanza della Bolla di Sua Santità”.
Presentatisi all’osteria di Querciagrossa le guardie arrestano i due rei e li conducono nelle carceri al Palazzo del Capitano a Siena dove il 6 novembre alla presenza dei testimoni Domenico da Dicomano e Michele Polidori vengono interrogati. Francesca nega di essere sposata:
“Francisca un tempo moglie di Bernardo Boccetti di val di grevi carcerata è comparsa davanti a me e interrogata se conosceva i motivi della sua carcerazione rispondeva "Io non so niente". Interrogata sul luogo dove fu arrestata rispondeva: "A Quercia Grossa da famigli del bargello". Interrogata se ha marito rispondeva: "Io non ho marito e ben vero che Benedetto di Battista hoste a Quercia Grossa col quale stavo mi ha dato la fede e promesso come ha maritato la sua sorella di darmi per moglie". Interrogata se con detto Benedetto aveva rapporti carnali rispondeva: "Si". Interrogata da quanto tempo aveva rapporti con il detto Benedetto rispondeva: "Da un anno in circa". Interrogata se aveva figli da detto benedetto rispondeva “No”. Interrogata se aveva relazioni con qualcuno prima di detto Benedetto, rispondeva: "No". Interrogata se aveva relazione con preti, rispondeva di non aver avuto relazioni con nessuna persona eccetto Benedetto. Interrogata su cosa riceveva dal detto Benedetto, rispondeva: "Mi faceva le spese e mi governava”.
A seguire Benedetto è condotto dal carcere e interrogato. Alla domanda se conosceva il motivo dell’arresto rispondeva: “Io so stato messo in pregione perché tenevo in casa una donna nominata mad.a Francesca". Richiestogli se conosceva il motivo dell’arresto rispondeva di no. Interrogato da quanto tempo teneva Francesca in casa rispondeva: "Io la tenevo in casa per i miei affari e me ne servivo qualche volta nello star con lei. Se ha visto qualche prete conversare con lei? No, nessuna persona e se ci fusse praticato altri, in casa mia non sarebbe stata. Se ha avuto dei figli con essa? No. Come la teneva: Gli facevo le spese e la governavo”. Emessa la sentenza, i due concubini ricevettero soltanto l’ammonizione e l’intimazione a cessare immediatamente ogni rapporto e alla Cecca fiorentina di lasciare la casa dell’oste sotto la pena di 25 scudi.
Il quadretto descritto rispecchia una situazione indagatoria che perdurerà ancora per molto, e soltanto con le nuove aperture settecentesche cesserà la caccia ai concubini e alle unioni irregolari.
Processetti matrimoniali
Uno dei grossi problemi da risolvere riguardava la condizione civile degli individui per i quali seguendo le direttive del Concilio si accentuò l’effettuazione di accertamenti. Queste indagini sullo stato libero di persone venute da fuori e delle quali si ignorava il passato, si concretizzò nell’espletare presso le Curie arcivescovili il cosiddetto “processetto matrimoniale” nel quale si verificava lo stato libero dei pretendenti sposi. Si controllava che non avessero contratto un precedente matrimonio richiedendo documenti alle altre diocesi, alle parrocchie e interrogando due testimoni che li conoscevano da tempo. Non esistevano altri mezzi per conoscere i trascorsi di persone da poco tempo dimoranti in un popolo se non attuare gli strumenti rammentati, e come primo esempio cito le parole del parroco di Pievasciata:
“ ... essendo il detto Francesco di Simone Pedani tornato in questa cura da tre in quattro anni in qua, esso è nato e sempre dimorato nella Cura di Quercia grossa come viene asserito da noti testimoni cioè Domenico Doccini e Domenico Pedani ambedue abitanti in detta cura di Quercia grossa”. In questo caso è sufficiente la semplice testimonianza orale di conoscenti per sapere se il giovane fosse ancora celibe, ma per altre persone, vissute lontano e soprattutto provenienti da altre diocesi, era necessaria la deposizione scritta fatta davanti al Cancelliere della Curia che convocava i testimoni scelti dal giovane o dalla giovane aspirante al matrimonio, e rivolgeva loro alcune precise domande secondo uno schema prestabilito. Questi numerosi documenti rivestono particolare importanza perchè dalle dichiarazioni si ricavano preziose informazioni anagrafiche sui singoli, sulle parentele delle famiglie e la loro residenza nonchè sui luoghi di origine degli sposi e dei testimoni stessi.
Nel 1727 si deve sposare Giovan Battista di Luca Petreni e per ottenere il certificato di stato libero porta due testimoni: l’amico Pietro Viligiardi e il fratello Francesco Petreni:
"... mi domando Pier Maria del già Iacomo Viligiardi, son nativo della cura di S. Gio: evangelista di Basciano, dove anche sto, sono mezzaiolo dell'Ill.mo Sig. Rettor Tegliacci in un podere detto Monastero, e ho anni 36 ... sono venuto per provare la libertà di Gio. Batta Preteni ... senza interesse alcuno ... lo conosco da 20 anni in qua in circa con occasione che egli all'età sua d'anni 3 in 6 tornò sotto la Cura di Quercia grossa, dove io in quel tempo stavo con tutto che io nato fosse a Basciano, perchè noi altri contadini hora qua, ed hora là ... è nativo della Cura di S. Leonino diocesi di Colle per quanto ho inteso ... in questa diocesi di Siena non ha mai preso moglie, nè contratto impedimento alcuno che gl'osti a poterla pigliare ... posso quanto sopra asserire per haverlo da che l'imparai a conoscere stato quasi sempre suo vicino, et ancho essere, e stato sempre amico si suo come de suoi, onde se fosse diversamente, io assolutamente lo saprei“.
La stretta conoscenza dei propri popolani portava anche i parroci a fare le loro deposizioni e non mancano quelle dei curati di Quercegrossa compreso don Lucchi nel 1738:
“... mi domando Antonio del già Sig. Pietro Lucchi, sono nato a Siena, da 43 anni in qua sono sacerdote, da 38 anni in qua sono curato di S. Giacomo a Quercegrossa, ed ho 65 compiti ... sono per provare la libertà di Filippo Finetti .... senza interesse alcuno ... lo conosco da circa undici anni in qua con occasione che tornò nella mia Cura, e da cinque anni in qua sta sotto la Cura di Basciano Chiesa vicina alla mia Cura e quando l'imparai a conoscere poteva havere circa tredici anni ... per quanto ho inteso è nato nella Cura di S. Leonino Diocesi di Colle e quando venne ad abitare nella mia Cura poteva avere da 13 anni in circa al più come ho detto ... da che l'imparai a conoscere non è mai escito da questa Diocesi di Siena ne da dette due Cure ... in questo tempo non ha mai presa moglie, ne contratto impedimento alcuno che gl'osti a poterla pigliare ... posso quanto sopra asserire per essere egli mio popolano ed essere stato sempre a me vicino e per lo più le feste esser venuto, e venire a sentire la Santa messa alla cura mia onde se fosse diversamente senza dubbio io assolutamente lo saprei”.
Sponsali
Nei nostri archivi troviamo fin dal Cinquecento note su alcune usanze matrimoniali come l’antica pratica della
“promessa di matrimonio” o
“sponsali”; atto assai importante e vincolante a suggello del fidanzamento che precedeva, di poche settimane negli ultimi tempi, le pubblicazioni e il matrimonio. Ancora ai primi del Novecento i parroci tenevano un registro degli sponsali o comunque erano ancora praticati in alcune parrocchie, anche a Quercegrossa:
“Quercegrossa, 18 maggio 1905 ... sono stati fatti in mia presenza gli sponsali per il Matrimonio da contrarsi fra il giovane Luigi Fiaschi di Serafino e di Cesira Lucchesi di codesta Pieve, e la fanciulla Giulia Landi di Luigi e di Agostina Pedani di questa parrocchia, perciò viene pregata la S. V. Molto Rev. (il curato di Basciano)
a fare le tre conciliari denunce inter Missarum solemnia nei giorni 21, 28 maggio e 4 Giugno, e a suo tempo rimettermene il relativo certificato unitamente a quello della idoneità del surriferito Giovane in rebus fidei - Della S. V. Illma Molto Rev. - Adriano Rigatti”.
Poi nel Novecento il rito degli sponsali perde quel valore ufficiale burocratico dato dal parroco e viene ridotto ad un incontro tra le famiglie degli sposi e ribattezzato “contratto”.
Proclame matrimoniali
Un atto obbligatorio, confermato e regolato dal Concilio di Trento, che precedeva il matrimonio furono le cosiddette proclame o denunce di matrimonio (oggi pubblicazioni di matrimonio), e dal quel tempo rimasero come pratica obbligatoria per potersi sposare. Esse avvenivano nelle chiese delle parrocchie degli sposi con la finalità di render pubblico il matrimonio e ricercare eventuali impedimenti che potevano derivare da uno o entrambi gli sposi.
Un’altra novità fu la concessione della dispensa agli sposi per celebrazioni nei tempi proibiti e per stretti vincoli parentali che costituivano un impedimento. I cosiddetti tempi proibiti, detti anche “tempi chiusi”, comprendevano la Quaresima e l’Avvento nei quali non ci si poteva unire in matrimonio salvo la dispensa del Vescovo.
La consuetudine conviviale
La secolare storia di questo rito ci mostra in tutti i tempi una celebrazione partecipata e sentita dagli sposi, dalle famiglie e dagli amici al quale si accompagnavano tradizioni locali e simbolismi giunti fino ai nostri giorni, ereditati perfino dal mondo romano come il velo della sposa. Tanto più era ricca la famiglia, tanto più gli sponsali e il matrimonio erano appariscenti. Anche nelle campagne in famiglie contadine e salariate la cerimonia religiosa si accompagnò sempre a rituali festosi con gli sposi e i familiari riuniti a convivio in allegre tavolate con parenti e amici.
Da tener presente che le frequenti difficoltà economiche delle famiglie contadine e operaie nelle campagne condizionavano la celebrazione di matrimoni e in tante di loro si ebbero cerimonie semplici, prive di quel contorno festoso accennato, e in certi casi il matrimonio attendeva tempi migliori misurati dalla maggiore disponibilità economica delle due famiglie.
Nel corso del Primo Novecento tutta la trafila cerimoniale per sposarsi risente ancora di antiche e consolidate abitudini rotte poi dai cambiamenti sociali ed economici che si verificheranno nel secondo dopoguerra i quali porteranno ad una decisa evoluzione del costume.
In casa Nencioni ai tempi in cui abitavano a Cerna, e ricordo che nell’ultimo secolo avevano dimorato nei popoli di Vagliagli, Quercegrossa e Basciano, quindi la loro tradizione nuziale era genuinamente quella nostrale, quando si sposò Armando nel 1935/36 il matrimonio era stato preceduto dalla visita fatta due settimane prima dai Nencioni (come loro spettava) alla famiglia della sposa, ossia in casa Fagioli, contadini abitanti nello stesso popolo di S. Lucia a Bolsano, per accordarsi sul da farsi: spese generali, pranzo, trasporto del corredo, dote, regali ecc. Dopo la cerimonia religiosa, le due famiglie al completo e gli amici si ritrovarono a festeggiare gli sposi in casa Nencioni nella grande sala per il pranzo nuziale, e nel pomeriggio si recarono tutti nel vicino bellissimo prato verde di Cernino, dove era anche un pallinaio, e lì con un grammofono a carica ballarono tutta la sera insieme agli sposi. Un tocco di modernità per un comportamento vecchio di secoli. Di solito era una fisarmonica a dirigere la danza fino a tardi nelle stanze di casa. In altri matrimoni i commensali s’ intrattenevano a lungo intorno alla tavola stornellando, cantando e declamando rime d’augurio e di evviva agli sposi con largo uso di vino e liquori. Poi i due novelli partivano per il viaggio di nozze, riservato ancora a pochi, mentre altri si recavano a Siena per la fotografia ricordo e alcuni trascorrevano la serata al cinema, ma la maggioranza si portava nelle famiglie vicinali per salutare e offrire un rinfreschino:
“Gli sposi preparavano ciambelline e biscotti e la sera andavano nel vicinato a portarli” (un gesto per far partecipi tutti alla propria felicità). Il 14 aprile 1947 si erano sposati, a Quercegrossa, Gino Rossi e Ilda Nencioni e, dopo il viaggio di nozze a Roma, avevano programmato per la domenica successiva di fare una visita alle famiglie portando i soliti biscotti. Purtroppo la zia Ilda si ammalò e nonostante ciò Gino fece il suo giro da solo per le case, salutando amici e conoscenti. A Quercegrossa in questi anni non usa il lancio del riso agli sposi, ma dei confetti fatto dai medesimi, fuori e in casa, e soltanto per poche famiglie dagli anni Trenta. Le spose vestono generalmente un taielleur non troppo vivace con sopra il cosiddetto “soprabitino” estivo, una cappa di stoffa leggera, o il cappotto nella stagione invernale, e coprono il capo con un cappellino. Ricorda Vanda Castagnini che il babbo Dino sposò Leda Lorenzini il 16 gennaio e la sposa indossava un vestitino di lana bianca e un cappottino con la pelliccia regalatogli da Dino stesso.
L’abito bianco da sposa, simboleggiante la purezza si è diffuso sul finire dell’Ottocento, ma è ancora vestito da pochissime nelle campagne e soltanto alla metà degli anni Cinquanta diventerà un simbolo comune a tutte le spose.
Delle quattro sorelle Nencioni solo Adiva nel 1937/38 vestirà un semplice vestito bianco col velo, mentre Ilda indosserà nel 1947 un vestitino grigio perla e un cappottino blu. I regali sono limitati, quando sono fatti, ed è lo sposo che regala un vezzo o un paio d’orecchini oppure si riceve un servizio di bicchierini dai parenti e dagli amici intimi. Poche cose insomma.
Dopo la seconda guerra mondiale tutto questo rituale matrimoniale subisce gradualmente alcune modifiche influenzate dai nuovi tempi e dalle nuove mode. Scompare il rinfreschino serale e prende piede un rinfresco generale da farsi in casa della sposa la settimana precedente il matrimonio, invitando coloro che sono esclusi dal pranzo di nozze. Vanno aumentando i regali che vengono messi in bella mostra e ammirati con la visita alla camera degli sposi, mentre gli stessi sono già partiti per il viaggio di nozze, spesso sgattaiolando di nascosto dopo aver consegnato le bomboniere con i confetti agli invitati.
Tuttavia questi cambiamenti avvengono molto, molto lentamente. Nel 1947 Bruno Landi il futuro bottegaio sposa a S. Colomba Elsa Barellini ed il pranzo di nozze insieme ai familiari più stretti si tiene in casa Landi al podere Encine a Basciano e la sera, rammentava Elsa,
“si andò nel campo a tagliare l’erba ai filai”. Benito Bandini si sposa con Anna a S. Leonino nel 1956 e allestiscono il pranzo nuziale nei locali della Società di Quercegrossa, poi, al ritorno dal viaggio di nozze a Venezia, ancora un pranzo con i parenti a casa della sposa a S. Ilario la domenica successiva. Il matrimonio di Rino Leri e Rosanna Nencioni si celebra nel 1957 a Quercegrossa con pranzo in casa di lei all’Arginano insieme a tutti i parenti, e partenza il lunedì per il viaggio di nozze in treno. Sempre nel 1957 Rossi Piera e Stracciati Renato festeggiano il loro matrimonio in casa Rossi con i familiari e qualche amico e taglio della torta (vedi foto). In serata partenza in treno con soste a Genova, Montecarlo e Nizza.
In questi anni gli sposi all’uscita dalla chiesa sono accolti dal fitto lancio del riso (antico simbolo augurale di fertilità che sostituì il grano, ed ora tornato di moda) e per alcuni anni rimane in vita il lancio dei confetti agli invitati e ai ragazzi. Nel 1949 al matrimonio di Lara Brogi e Cosimo Ruberto, dopo la cerimonia religiosa gli stessi sposi prima, e Gina, la mamma di lei, dopo, uscirono dalla bottega tenendo una insalatiera di vetro piena di confetti che lanciarono a piene mani ai ragazzi in piazza e lungo la via che si abbaruffavano a prenderli.
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Ruberto Cosimo e Lara Brogi con la famosa zuppiera piena di confetti da distribuire a tutti in piazza a Quercia.
Passano da Quercegrossa sposi in macchina con il loro codazzo di vetture diretti a Castellina e anch’essi lanciano confetti ai passanti nella strada polverosa. Tutto ciò finirà presto e i confetti saranno consegnati dagli sposi in eleganti bomboniere con allegato il bigliettino ricordo. Le spose dalla metà degli anni Cinquanta vestono immancabilmente di bianco e anche per l’uomo è necessario un vestito da sposo sempre più elegante. Si va intanto affermando l’abitudine al viaggio di nozze, con partenza nel dopopranzo, verso la ricerca di una desiderata intimità, dapprima in città vicine come Firenze e Roma, poi per località sempre più lontane.
Cambia mentalità e quello che sembrava riservato ai benestanti diviene abitudinario per tutti. Infatti, alla fine degli anni Sessanta si abbandonano le sale di casa e le aie per trasferirsi sempre più spesso nei vicini ristoranti e si comincia ad ingaggiare un fotografo per un ampio servizio documentario della cerimonia e della parentela da inserire in un eleganti album ricordo. Si modifica anche il rito religioso e non è più il sacerdote, ma sono gli sposi a dichiararsi vicendevolmente le promesse di matrimonio. La formula
“Vuoi tu prendere per tuo legittimo sposo ecc.”, al quale si rispondeva con un sì, è sostituita dal
“Io ... prendo te come mia sposa e prometto ecc.”. Nella chiesa di Quercegrossa il nuovo rito venne introdotto per la prima volta il 6 agosto 1972 da don Luigi Mori celebrante e dagli sposi Lorenzo Mori e Fiorella Guarducci. Vanno a nozze in questi anni le ragazze che sì son fatte il corredo, ma saranno le ultime e anche questa pratica scompare. Il corredo da sposa era costituito da lenzuola per il letto, federe, camicie grandi da notte, asciugamani e salviette acquistate nel corso degli anni oppure realizzate a telaio e ricamate in casa. Vi erano anche le pezze per i neonati e i pannolini per il mestruo. Spesso entrava a far parte del corredo la vecchia biancheria delle nonne conservata in un baule. In ogni modo chi più o chi meno tutte le spose avevano qualche capo di corredo.
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