Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Cose di Chiesa (Cose di Chiesa 1) (Un furto in chiesa) (Cose di Chiesa 3) (Un prete cortese) (Cose di Chiesa 5)



Accoltellamento
Nella biografia del parroco di Quercegrossa Giuseppe Berteschi appare come al suo tempo, nel 1697, entrasse a far parte del beneficio parrocchiale il podere dell’Erede lasciato da don Montorselli. Essendo il podere occupato da una famiglia di fornaciai con la relativa fornace attiva, il curato, convinto che deturpassero le terre, li invitò decisamente ad andarsene. Tale risoluto atteggiamento deve aver creato una certa conflittualità verbale e al rifiuto della famiglia Luigi di abbandonare il podere il rettore di Quercegrossa li citò in causa con un'azione legale, ma mai avrebbe immaginato le gravi conseguenze che quest'atto avrebbe comportato alla sua persona. Le motivazioni addotte suonano così: "Hanno deteriorato e riducano in cattivo stato e fanno in detti beni notabili danni e pregiudizi e specialmente nella casa di detti beni hanno fatto molti danni e pregiudizi con levare e guastare porte finestre travi serrature et altro e nelli terreni hanno guasto un campo assai buono e fruttifero, con cavare la terra dal medesimo campo per la loro fornace di tetti e conche, quando la detta terra potevano e possono cavarla in altri luoghi senza far danno, e hanno tagliato o fatto tagliare alberi e rami di querce esistenti in detti beni et altri simili danni e cosi". Aggiunge il Berteschi che i Luigi hanno dichiarato, e questa è pubblica voce: prima di lasciare il podere lo vogliono guastare, devastare e lasciare in cattivo stato.
Il giudizio riconobbe le ragioni del parroco e fu intimato alla famiglia di lasciare il beneficio, cioè il podere, entro 8 giorni sotto pena di 50 lire, dell'arbitrio e della cattura. La sentenza sembrò ridurre la famiglia affittuaria a più miti consigli se il 24 luglio comparve davanti al cancelliere la madre del Luigi, Diamante, la quale chiese non si procedesse penalmente contro i Luigi perchè erano pronti a osservare quanto a loro ordinato. Questa dichiarazione sembrava metter fine alla storia ma... Tempo dopo, venerdì 8 settembre 1697, il cancelliere arcivescovile si recava in casa di Bernardo Brogi, nella parrocchia di S. Spirito in Siena per accertarsi delle condizioni del parroco di Quercegrossa, cugino del Brogi, il quale si trovava indisposto, e a letto, a seguito di alcune ferite da arma bianca ricevute tre giorni prima. La denunzia di don Berteschi fu ampia e circostanziata e alla domanda perché si trovasse a letto pur essendo ora tarda (della mattina) raccontò come aveva subito un'aggressione e indicò in Giovanni Battista Luigi l'uomo che l'aveva aggredito e accoltellato: "Deve sapere come venerdì notte passata l'hor di notte mi venne incontro con pugnale sguainato Giovanni Battista Luigi habitante nella Casa di detta Chiesa e senza nessuna parola cominciò a tirarmi de colpi et il primo mi ferì nel ventre dalla parte destra e seguendomi a dare de' colpi et io defendendomi meglio che potevo per mezzo del bastoncello che io porto per appoggiarmi (il rettore ha 50 anni) nondimeno restai ferito in due luoghi di testa vicino all'orecchio sinistro, ma per grazia di Dio sono ferite di poco considerate, e questo Gio. Batt. reiterando i colpi fu necessitato impugnarli il pugnale per lo che restai gravemente ferito nella mano sinistra et è ferita di qualche considerare".
All'osservazione dell'interrogante come abbia potuto riconoscere il feritore che non pronunziò parole ed essendo di notte, il Berteschi rispose che pur non essendovi luce di luna non per questo era tanto scuro. Alla domanda sulle cause dell'aggressione egli risponde chiaramente che forse dipendevano dal giudizio da lui richiesto alla Curia contro gli eredi di Giov. Batt. Luigi, ma era già stato tutto aggiustato. Alla domanda se il Luigi era solo, rispose affermativamente, e che non gli parve di vedere altra persona. Chiese anche se il curato gridasse aiuto, risponde che: "Io gridavo e domandavo aiuto ma non comparve nessuno e io essendo a terra e rizzatomi lo veddi sparire havendogli nel rizzarmi gli tiratogli una pietra e mi pareva di colpirlo e io arrivato a casa mandai a chiamare l'oste per la serva siccome venne e mi fece le chiarate". Come si chiama detto oste: "Marco Staderini". “Chi era presente mentre l'oste gli faceva le chiarate”, domanda ancora il Cancelliere: "Vi era Giuseppe Cacciatore del Sig. Credi, Maria Michi mia serva e altri che erano venuti insieme all'oste e questa è la cagione per la quale mi trova a letto e fasciata la mano". "Ho fasciato anche il ventre come lei vede", aggiunge il ferito scoprendosi e "le ferite della testa sono semplicemente medicate e solo tengo questa berretta in testa".

Il certificato rilasciato al curato di Quercegrossa don Giuseppe Berteschi che descrive minutamente le ferite ricevute nell’accoltellamento.

Un certificato medico allegato agli atti e rilasciato l'8 settembre dal chirurgo o speziale Bernardino Pucci è più particolareggiato: lo speziale dichiara di aver "medicato il Sig. Giuseppe Berteschi Curato di Quercia grossa di più ferite fatte da istrumento pungente e tagliente cioè una nella parte anteriore del capo con poca di contusione, una nel horecchio sinistro altra nel ventre vicino alla regione dell'ombelico e tre nella mano sinistra al presente senza pericolo salvo una della che la giudico con pericolo di stroppio".
La drammatica aggressione ha il sapore della vendetta e il Luigi intende chiaramente far fuori il parroco e lasciarlo morto lungo la via, ma l’inaspettata reazione e le grida di soccorso della vittima lo fecero desistere. A fine deposizione e alla domanda se c'era altro da dire il Berteschi aggiunse di aver inteso dire dal sua parrocchiano Francesco Larini che Diamante la madre del detto Gio. Battista "mi voleva fare sgozzare". La condanna del Luigi non è conosciuta, ma deve aver pagato saporitamente la sua vendetta.

Pretenzioni
Quando don Alessandro Girolami entrò nella chiesa di Quercegrossa con titolo di rettore in tasca, restò come fulminato vedendo ai piedi dell’altar maggiore il pavimento sconnesso con i mattoni attraventati alla meglio sopra la buca dove era stato sepolto il defunto parroco Carducci. Un altro colpo l’ebbe quando mise piede in quella stanza che doveva essere la camera, ma non vi trovò il letto, così come erano sparite, dopo aver fatto attenta lettura dell’inventario, delle botti in cantina e altre cose.
S’immaginò subito chi fosse stato l’autore di questo scempio, cioè Enea Carducci fratello del defunto parroco. Non si perse d’animo don Alessandro e sentendosi dalla parte della ragione come da suo diritto denunciò immediatamente alla Curia senese il fatto elencando quelle che per lui erano mancanze dall’inventario. Le sue "pretenzioni" si riassumevano in dodici punti nei quali ribadiva il principio di certi diffusi obblighi, e richiedeva la restituzione di cose e suppellettili. Non si deve però dimenticare che molti di questi oggetti e arredi erano stati acquisiti alla parrocchia dal defunto parroco e considerati beni personali, ed è per questo che il fratello ne pretendeva più o meno legittimamente la proprietà. Traspare in questa vicenda un fatto inverosimile ossia la richiesta di restituzione per un camice col quale era stato vestito il defunto e con esso sotterrato: ma la roba era la roba. Dalla risposta del Vicario si comprende tutta la vicenda:

“D’ordine di Mons. Rev.mo Vicario generale
Si lasci dall'erede (Enea Carducci):
Una cuccia usuale da potervi dormire col saccone un tavolino simile e due sedie parimenti simili e lasci le botti solamente inventariate.
Si rifacci il pavimento e si reduca.
La tovaglia quando non sia stata consegnata a detto Alberti e le stole e manipoli che mancano.
Rimetta la cera avanzata al funerale del rettore conforme che vorrà l'economo.
Renda un camice o lo paghi a giudizio del detto economo in vece di quello col quale era stato sepolto.
Rimetta il campanello che ha avuto Mattia Pagliantini.
Il funerale preteso il curato moderno si contenta relassarlo.
Per la cuccia si contenta riceve una di legname bianco vista da lui in casa di Ms. Enea che è bucarata in cima a delle colonnette”.


L'atto finale è rappresentato dalla dichiarazione del Girolami:

“Io Alessandro Girolami ho ricevuto in conto della suddetta robba la sopraddetta cuccia bucarata in cima delle colonnette senza però traverse e senza pregiudizio di consegnarle.
Saccone £ 2
Per il tavolino £ 6
Le sedie ci sono -
Le botti ci sono -
Per il pavimento £ 3,10 o lo rifacci
Per la tovaglia stole e manipole £ 4
Rimetta la cera due mozziconi Ricevuti i mozziconi di cera intorno a once tre
Camice £ 7
(Totale) £17,10
Io Alessandro Girolami ho ricevuto”.


Poca roba dei beni sinodali rimase in mano al Girolami nella canonica di Quercegrossa tra questi uno staio di legno per misurare il grano, una chitarra e un prete da letto (scaldaletto).

Settimana Santa
Il periodo pasquale, ma in particolar modo la “Settimana santa” era ricco di celebrazioni e rituali che vedevano le famiglie parteciparvi direttamente con tutto un bagaglio di tradizioni che le portava a vivere più intensamente quei giorni di forte richiamo religioso. Si cominciava con l’ulivo benedetto la domenica delle palme per ricordare l’accoglienza festosa a Gesù in Gerusalemme; il giovedì santo con la lavanda dei piedi, e la preparazione dell’altare con vasi e fiori per l’adorazione al “sepolcro”, come s’intendeva a quei tempi; l’adorazione della croce e la via crucis pubblica del venerdì e infine le messe di mezzanotte del sabato, con i riti del fuoco e dell’acqua ecc, e della domenica con la benedizione delle uova che ogni famiglia, dotata del proprio panierino coperto da un tovagliolo o da un fazzoletto ricamato, portava in chiesa e poneva sull’altare di S. Antonio per la benedizione del sacerdote a fine messa. Molte famiglie del paese si apprestavano a vivere questi giorni dando il loro contributo partecipativo per rendere più solenne ogni cerimonia e vivendo momenti di forte unione familiare con la colazione pasquale (vedi Cose d’altri tempi) e il festoso pranzo in famiglia.
Se in alcuni paesi esisteva da qualche secolo la tradizione della processione pubblica notturna del venerdì santo, come a Lornano quella detta “del Gesù morto” accompagnata da fuochi e banda musicale, a Quercegrossa non esiste memoria antica e si dovrebbe far risalire a don Ottorino Bucalossi negli anni Cinquanta: si svolgeva in paese lungo la strada principale. Le stazioni della Via crucis erano allestite dalle singole famiglie o gruppi di esse, che si prodigavano per ben figurare addobbando ciascuna un “altarino”. Era, questo altarino, formato da un tavolino con bianche tovaglie, fiori, candele e immagini sacre, mentre luci elettriche illuminavano addirittura gli ingressi dei portoni, o lo stesso altarino, con decine o centinaia di lampadine attaccate a grandi telai e croci di legno che così risplendevano nello scuro della notte. In alcuni anni venne illuminato anche tutto il percorso della processione con fuochi sui muri composti da segatura e petrolio che insieme alla candele dei fedeli e ai canti della passione rendevano la serata particolarmente suggestiva. Croci e telai una volta staccati venivano riposti per l’anno successivo. Delle altre tradizioni popolari ce ne parla con buon effetto Giulia Carli: “Per il Sepolcro del Giovedì Santo le famiglie preparavano le vecce, fiori color bianco avorio che venivano coltivati da metà Quaresima in vasi e fatti crescere al buio, di solito nelle cantine tra i tini e botti, e bagnati continuamente con acqua quasi tiepida. Le vecce, semi come chicchi di piselli, erano usati come biada per i bovini. Seminavano nello stesso modo anche i lupini. Il sepolcro era fatto, anche ai tempo di don Luigi Grandi, all'altar maggiore e nel mezzo era lasciato un viottolino per lo scaleo pieghevole. Le vecce, infatti, arrivavano fino alle croci sul pavimento e quasi non si passava per entrare in sacrestia, poi lumi e candele a volontà. Gli ulivi per la domenica delle Palme erano argentati e dorati e ogni contadino portava un proprio mazzo di rame d'ulivo a benedire. Altra usanza delle Palme era quella del ramo di olivo a tre braccia le cui foglie venivano intrecciate fra di loro e assumevano la forma della foglia di palma: una verticale e le altre due laterali allargate proprio a forma di croce. Erano preparate anche con rami di leccio o ginepro, tagliate dallo zio Gigi e decorate con rosine fatte di carta crespa gialla, rossa, rosa ecc. e fissate ai rami con fil di ferro”.

Le Funzioni
Il precetto festivo fino agli anni Sessanta del Novecento non si limitava all'obbligo della messa mattutina, ma si estendeva al pomeriggio, a quella fastidiosa liturgia detta “le funzioni". In pratica il rito era finalizzato all’adorazione del Santissimo, accompagnata da preghiere e incensazione, ma ancor prima, e da molto tempo, le funzioni pomeridiane erano anche occasione e dovere per il parroco di spiegare il catechismo al popolo. Dico fastidiosa perché noi ragazzi sentivamo una naturale insofferenza a quell'obbligatorio appuntamento pomeridiano che ci distoglieva dai nostri giochi o dal bar. Ma a ripensarci forse potevamo anche apprezzare quell'alternarsi di preghiere e canti ai quali don Ottorino riusciva a dare una certa solennità e che, tutto sommato, duravano trenta minuti, rosario compreso. A distanza di anni mi rivedo "sacrestano" con la veste nera e sopra la cotta bianca. L'ora d’inizio erano le quattro del pomeriggio e la partecipazione dei fedeli accettabile anche in tempi normali quando non c’erano ricorrenze straordinarie. I compiti di noi ragazzi erano limitati e consistevano nel suonare il campanello per avvisare la fine della posta del rosario, nel preparare il turibolo per incensare il Santissimo esposto e poi "si faceva in velo" per l’ostensione al popolo del Santissimo nella pisside. Questi compiti ce li assegnavamo dopo breve discussione: io fo l'incenso; il fo il foco ed io il velo, aggiungeva il terzo, ed era fatta. La disciplina richiesta dal parroco era totale. Il Salve Regina metteva fine al Rosario recitato dalle donne, quasi tutte con la corona in mano, insieme al parroco che regolarmente lo conduceva. Seguivano le litanie della Beata Vergine proclamate in latino e al "Kyrie, eleison" si rispondeva "Kyrie, eleison" e dopo l’invocazione al Signore si passava al "Santa Maria" e tutti in coro: "Ora pro nobis"; "Santa Dei Genetrix": "Ora pro nobis"; "Speculum iustitiae": "Ora pro nobis" ecc. Ora è indubbio che per tutta la vita il semplice popolo fedele non si è mai curato di comprendere cosa volessero significare quelle parole dette in una lingua morta da secoli e tenuta in vita dalla Chiesa, anzi non so nemmeno se alcune vecchiette abbiano veramente capito che c'era una traduzione in italiano. Ma non aveva importanza, esse o essi ne intuivano il significato, "sentivano" la loro preghiera e perciò diveniva invocazione. Per questo rispondevano con sentimento, e speranza nell’aiuto materno di Maria, che poi trovava corrispondenza nella grande pratica del Rosario nelle famiglie. Con don Ottorino l'invocazione delle litanie era detta con voce sonante con una impercettibile pausa fra una strofa e un'altra, spiccando bene le frasi e con ugual ritmo rispondevano tutti. Mentre il sacerdote in cotta e stola declamava la successiva preghiera della domenica, sempre in ginocchio all'altare davanti al Santissimo tolto dal tabernacolo e posto sull'altare alla vista dei fedeli, il sacrestano addetto al fuoco si era nel frattempo mosso per svolgere il suo compito. Preso il turibolo in sacrestia, dove la signora Giuseppa, la mamma del parroco, aveva messo dei carboni accesi, con un po’ di cenere, tirava su la catenella per regolare l'apertura del coperchietto, e iniziava, con ampio movimento di una mano, a sventolarlo a destra e sinistra per mantenere il carbone ardente. Questo rituale era eseguito nello spazio di fianco all'altare. Capitò anche che un sacrestano distratto abbia battuto il turibolo in terra con un sordo rumore, disperdendo cenere e carboni tra gli altari, con conseguente suo annichilimento per la figura fatta davanti a tutti. Al momento giusto don Ottorino con la sua bella e sostenuta voce tenorile intonava il Tantum ergo, al quale si univa spontaneo il coro dei fedeli, e insieme davano vita a un armonioso canto. Le note si diffondevano nella chiesa ed esprimevano tutta la devozione dei presenti, ben rivelata dalla lingua latina. Parole di adesione, di fede che anche noi ragazzi cantavamo a squarciagola, ma con tono:

Tantum ergo Sacramentum / veneremur cernui
et antiquom ducumentum / novo cedat ritui:
praeste fides supplementum / sensuum defectui.
Genitori genitoque ecc.

Vedo sempre Fabio Provvedi appoggiato alla colonna dell'altare di S. Antonio amplificare il suo canto e sento le voci liriche di alcune donne, come Annita o Vaga, primeggiare per volume e acuti, accompagnate dall’organista, il quale poteva essere il mi' zio Sandro Mori. Il celebrante si levava in piedi, e il sacrestano con la "navicella" dell'incenso, con sperimentata sincronia gli si affiancava, e quello col foco gli si poneva di fronte e alzava il turibolo pronto a ricevere l'incenso. Don Ottorino, vi buttava due cucchiaini scarsi d’incenso che sviluppavano il primo fumo. Chiuso il coperchio, il sacerdote semiflesso di fronte al Santissimo, con brevi colpi di mano ripetuti per tre volte, lo incensava, e un fumo profumato saliva verso il Sacramento, accompagnato dalle note del canto melodioso, sempre più partecipato, dei presenti. Faceva poi seguito l’ostensione del Santissimo al popolo, il momento clou della liturgia, e per questa si usava il velo omerale che il sacrestano prendeva dalla sacrestia e appoggiava sulle spalle del sacerdote, il quale continuando a cantare, saliva l’altare e circondando il SS. nella pisside coi lembi dello stesso velo, e tenendolo in alto con le braccia alzate rivolto al popolo, lo mostrava solennemente ai tre punti cardinali. Concludeva, mentre rimetteva la pisside all’interno del tabernacolo, richiudendolo con la sua chiavina, dando il via alla recita alternata sacerdote/popolo di quella che era, anche se molti non lo sapevano, la “Lode in riparazione della bestemmia”. Qui riporto il testo integrale, certo di far riaffiorare in molti il devoto ricordo di quei momenti di preghiera comunitaria recitata mille volte: “Dio sia benedetto; Benedetto il Suo Santo Nome; Benedetto Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo; Benedetto il nome di Gesù; Benedetto il suo Sacratissimo Cuore; Benedetto Gesù nel SS. Sacramento dell’Altare; Benedetta la gran Madre di Dio Maria Santissima; Benedetta la sua santa e Immacolata Concezione; Benedetta la sua gloriosa Assunzione; Benedetto il Nome di Maria, Vergine e Madre; Benedetto S. Giuseppe, suo castissimo sposo”; e terminava con “Benedetto Iddio nei i suoi Angeli e nei suoi Santi”, mentre scendeva i gradini dell’altare. Il canto di chiusura, in piedi di fronte all’altare, metteva fine alla funzione, e allora noi sagrestani come fulmini ci si spogliava di cotta e tonaca e via a ruzzare.



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