Mali e rimedi
Tra le figure che hanno goduto di un grande rispetto nelle campagne spicca quella del “dottore”, un personaggio che per la sua scienza e la sua capacità di guaritore riceveva ad ogni passo riverenze e inchini. A memoria d’uomo e fino agli anni Sessanta si rammentano il dr. Barni di che serviva la nostra frazione, poi il dr. Barducci, anch’esso con la residenza a Vagliagli, il quale agiva sulla parte comunale di Castelnuovo, mentre per Monteriggioni dal secondo dopoguerra fu competente il dottor Provvedi “Il dr Provvedi sostituì il Barducci che era stato richiamato in guerra... poi mantenne la clientela”. Al Provvedi subentrò il dr. Martini. Qualche cliente a Quercia lo aveva anche il dr. Mandarini di Siena.
Il mi’ dottore da ragazzo era il Provvedi. Fisico basso e grossotto, sempre col cappello in testa e un po’ trasandato nel vestire, ma persona aperta e gioviale. Con tanti ragazzi in casa Mori “c’era di casa e di bottega” ed io sento ancora la pressione del suo orecchio ghiaccio contro la mia schiena mentre mi dice di respirare: “Fai un bel respiro”. Era il primo esame di quando ammalavi e poi ti infilava un cucchiaio in bocca dalla parte del manico per guardarti le tonsille tanto da farti strozzare per quanto pigiava. Aveva un ambulatorio a Siena in Via di Città con il salottino d’attesa tappezzato di stampe come si usa in tutti gli ambulatori medici. Il dottor Provvedi è morto a Basciano, dove si era costruito una villetta con le sorelle, l'11 settembre 1980, medico condotto in pensione.
I dottori cominciarono nel dopoguerra a fare ambulatorio a Quercegrossa e il primo fu il dr. Barducci con le visite fatte in casa Oretti, durando circa dieci anni. Quando poi misero la farmacia a Vagliagli, il farmacista dr. Corsi, accompagnava il Barducci all'ambulatorio a Quercia, e lui pensava riempire le ricette e distribuire le medicine. Un bel giorno diede il compito di distribuire i medicinali a Lea Oretti, la moglie di Silvano Socci, la quale svolse l’incarico negli anni 1955-1965. Lea curava l’armadietto farmaceutico e ordinava personalmente le medicine a Siena dopo aver letto le ricette dei medici portate dai clienti. Poi la Sita da Siena gliele lasciava. A un certo punto Lea cominciò anche a fare endovene a tutto il paese, e per un decennio svolse questa funzione, poi smise perchè poteva essere rischioso. Tante donne facevano punture intramuscolo come Ida del Losi, e la zi’ Anna. Successivamente per i medicinali venne il dr. Liserani di Radda e dopo 1/2 anni il dr. Fabbri da Vagliagli, il quale lasciava le medicine nel bar con tanto di conto da pagare scritto sulle confezioni incartate. Sul dr. Barducci circolavano delle voci e si diceva di quando la notte lo chiamavano nei poderi e lui non ci voleva andare, e un bel giorno Bruna del Sestini a Gaggiola gli corse dietro con la granata. Ai primi anni Cinquanta aprirono l’ambulatorio due giovani dentisti che venivano da Firenze con la Sita. Avevano un’attrezzatura minima e lavoravano nel salottino in casa Mori. Dopo di loro, ma in tempi più recenti, si ricorda l’ambulatorio del dentista Bracali. Prima di addentrarci nell’interessante mondo dei rimedi naturali adottati a Quercegrossa nel passato, presento alcuni raccontini, alcuni autobiografici, per far conoscere certi aspetti singolari della medicina del tempo che fu.
Tonsille
Fra le tante mode che hanno imperato nel campo medico ce n'è stata una particolarmente perniciosa e della quale sfortunatamente sono stato vittima innocente in giovane età. Per questa moda subii l'asportazione delle adenoidi. Sembrava, negli anni Cinquanta, diventato il rimedio ad ogni male, come l'aspirina per i militari; ti ammalavi spesso, via le tonsille che creavano infezione; ti faceva male la gola o accusavi altri generici malesseri, togliamo le tonsille; respiravi a bocca aperta o ti faceva male la testa, via le adenoidi. Si potevano vedere, alle porte degli ambulatori nei giorni in cui operavano, branchi di ragazzi pronti per il macello, senza una minima prevenzione e nessuna norma igienica da rispettare: un bambino fu visto mangiare un bel panino col salame poco prima dell'intervento. Una mattina si partì in macchina, forse col Mencherini, diretti a Castellina all'ambulatorio del dr. Morelli. Il ricordo è vago, si stinge. Mi vedo in una poltrona di pelle marrone con i braccioli e sento il dottore usare parole rassicuranti mentre mi blocca con grosse cinghie di cuoio i polsi ai braccioli. Sono impotente: un attimo di smarrimento e di terrore mi coglie, ma faccio il forte di fronte all'inevitabile. Rammento un camice bianco, senza contorni, sovrastarmi completamente e una pinza stretta da due manoni che si avvicinano sempre di più, sempre più grandi: "Apri bocca, vedrai non sentirai niente". Avverto il ferro freddo pigiare sul palato: cerca, afferra, strappa il pezzo di carne. E' il momento del dolore: si dirama nel cervello e annebbia i sensi. Un rantolo mi si strozza in gola. E' fatta. Dopo, gelato a volontà, per evitare emorragie; ne mangiai tre o quattro, ma passava male anche il gelato. Avevo circa dieci anni e credo che mai operazione sia stata più inutile di quella. Dormivo a bocca aperta e ho continuato dopo a dormire a bocca aperta. C'era, quel giorno, anche la mia cugina Luisa, lei per le tonsille: "Quanto patì Luisa" fu detto e ripetuto. Che il dottore abbia scavato a fondo nella gola di Luisa l’affermò lui stesso: “Se rispuntano le tonsille a te, ricrescono i capelli anche a me”. A proposito, il tutto senza un minimo di anestesia. Poi, come tutte le mode, passò anche questa, per la fortuna di tanti ragazzi.
Il cristere
Rarissimo in famiglia è oggi praticato solo in ambiente ospedaliero. L'enteroclisma o da noi volgarmente detto "cristere" è scomparso come pratica frequente contro influenze, mal di pancia, diarree, stitichezze e mali simili. Ai miei tempi e ancor prima, l'alimentazione con cibi spesso guasti, oppure la frutta acerba dei campi e la scarsa igiene comportava tutta una serie di indisposizioni alle quali si rimediava col salutare "cristere". Era frequente ricorrere ad esso, bastavano comunque due linee di febbre e la prima cosa che ti facevano era il cristere; non posso dire fosse doloroso, ma fastidioso si, anche perché si praticava spesso in condizioni di prostrazione fisica causata dalla febbre incipiente e fra gli effetti c'era quello di toglierti ogni residua energia.
Due gli strumenti in possesso delle famiglie da usarsi al bisogno: la cosiddetta "pera" chiamata così per la sua forma, non molto capace di liquido, e la "macchinetta del clistere". Quest'ultima era un contenitore cilindrico di vetro, in gabbia metallica, dotata di un lungo e stretto tubo di gomma con la nera valvola d'apertura per la fuoriuscita del liquido. Conteneva circa due litri di infuso che poteva essere di camomilla, di salvia o di riso, secondo l'indisposizione. La pratica era comunemente accettata perché, pur non facendo miracoli in alcuni casi recava un po' di beneficio e comunque a quei tempi non c'era molto da scegliere. Quando ti facevano il cristere, inginocchiato sul letto e testa bassa, ti raccomandavano: "Aspetta un pochino", "Tienila, se no, non ti fa niente", e a te, con l'intestino pieno d'acqua, sembrava di schiantare.
In casa Mori veniva di solito usata la macchinetta, e quando non serviva stava nel gabinetto, attaccata a un chiodo, bene in vista. In certi momenti non potevi fare a meno di osservarla. Sembrava ti volesse sfidare rammentandoti di essere lì pronta per l'uso, e ogni volta che la guardavo mi tornavano in mente tutte quelle corse che mi aveva fatto fare verso la buca o il vaso da notte, in cerca di sollievo.
Morbillo
Elina Volpini, nel 1957, partecipò con Cristina Fantozzi del Castello a una colonia estiva organizzata dal Comune a Pesaro. A pochi giorni dalla partenza andò a trovare Fabio Francioni reduce dalla colonia dell' OPA di S. Vincenzo dove aveva trascorso un mese insieme al sottoscritto. Ma metà di questo mese di mare Fabio l'aveva passato a letto, contagiato dal morbillo. E ben se ne accorse Elina quando dopo pochi giorni a Pesaro fu presa dalla malattia e costretta per tutto il periodo del mare a vivere isolata in una stanza assistita da una infermiera. Gli ultimi giorni l’infermiera la portava nottetempo sulla spiaggia dove s’incontrava di nascosto col fidanzato. Il ritorno in treno, messa in quarantena, lo fece isolata in un vagone. Non fu una bella vacanza e ritornò bianca come era partita.
Pidocchi
“Guasi, guasi” mi vergogno a raccontarlo, ma fu uno dei rimedi assunti per vincere l’itterizia (epatite virale) presa nel 1964. E’ quasi incomprensibile che alla soglia del Duemila si ricorresse ancora a rustici sistemi curativi privi di qualsiasi fondamento medico, ma ciò è quanto avvenne. Ci fu un’epidemia di epatite virale volgarmente detta “itterizia” e anche a Quercia alcuni si ammalarono, se pur in forma leggera: Giorgio, Elina, Roberto, Enzo, Laura. Anch’io mi allettai, indebolito, con gli occhi e altre parti del corpo ingiallite dalla malattia, più un fastidioso prurito ai ginocchi e sul dorso del piede. Mi curai in casa e il dottore mi prescrisse delle medicine. Qualche giorno dopo intorno al mio letto comincio a sentire, dalle mie zie, certi discorsi sui pidocchi di maiale che avevano effetti miracolosi sulla malattia. Dapprima mezze frasi pronunciate tra di loro come “Ci sarebbe una cura” o “Hanno fatto bene a tutti” e capii che si tentava di convincermi a prenderli. Poi chiaramente mi fecero intendere che non c’era altra medicina. Il mio diniego fu assoluto, ma l’insistenza della mi’ mamma fu tale che dopo una decina di giorni mi lasciai scappare: “E allora dammi i pidocchi”. Andarono a Pietralta, ne presero alcuni dal dorso della scrofa dell’Auzzi (dovevano essere tassativamente prelevati da una troia) e, rincartati in un grossa cialda, me li fecero prendere con due sorsate d’acqua. Ingoiando non sentii nessun sapore particolare. Passò ancora qualche giorno e cominciai a rimettermi, alzandomi da letto e facendo le prime passeggiate. Molti diranno: “Sono stati i pidocchi della troia di Pietralta”, ma io dico che sarei guarito ugualmente e con gli stessi tempi. Forse fui l’ultimo a essere curato con questo millenario rimedio. Enza e Giorgio Rossi si limitarono a portare legato al collo un guscio di noce con dentro una bachera presa nel pollaio dei Mori dalla mi’ zia Ilda.
Paralisi infantile
Nel 1957 ci fu una grande epidemia di poliomelite detta volgarmente “paralisi infantile” che investì tutta l’Italia colpendo bambini in tenera età e anche ragazzi. Vaccini non ce n’erano e la popolazione era inerme di fronte a questo tremendo male che colpiva i bambini soprattutto negli arti e li rendeva storpi per tutta la vita.
L’unica profilassi, quasi inutile, contro il virus che attaccava il sistema nervoso erano le Gamma glubuline umane che avevano lo scopo di aumentare la resistenza dell’organismo a qualsiasi infezione. Un medico concluse un suo articolo dove analizzava la malattia con queste parole: “Auguriamoci che il futuro ci consegni un’arma più efficace e specifica”. Era già iniettato con qualche risultato il vaccino di Salk, e ancora pochi anni poi il vaccino Sabin sarebbe stato disponibile.
Rammento la grande paura che regnava anche a Quercegrossa dove ben si conoscevano gli effetti del male. In questi casi si ricorreva nelle campagne ai soliti rimedi ancestrali, parenti più della superstizione che della medicina. Il primo poteva avere anche una sua logica medica e consisteva nell’attaccare al collo dei bambini piccoli alcuni quadretti di canfora, ma il secondo metodo cui si richiedeva una funzione protettiva contro un male invisibile e di natura misteriosa era davvero sconcertante. Infatti, consisteva nel metter uno scarabeo dentro un guscio di noce e portato dai ragazzi legato al collo con un sottile spago, come una catenina, e così feci anch’io con tutti i miei compagni per diversi giorni. A Quercegrossa non si ebbero dei casi, ma purtroppo nella provincia a qualcuno lo scarabeo servì a poco.
Malocchio
Capitava di non dare una razionale spiegazione a certi malesseri e pene persistenti di certe persone, colpite nella salute o nei sentimenti, e allora era facile attribuire tutti i mali a individui cattivi che gettavano addosso il malocchio. Anche per guarire da questo negativo fenomeno ci voleva la persona adatta che possedesse il potere di scacciarlo o di scoprirlo, e ridare una vita normale a chi era stato preso di mira. A Quercegrossa ci pensava Natalina del Palazzaccio, la moglie di Beppe Giachini, morta recentemente a Radda dopo esser vissuta oltre cent’anni. Tutti i paesi hanno avuto da sempre queste donne esperte nella conoscenza di pratiche che rasentavano la magia e un tempo venivano facilmente tacciate di stregoneria. Natalina usava un sistema molto semplice costituito da un piatto posto sopra la tavola nel quale versava dell’acqua con qualche goccia d’olio d’oliva. Il malato veniva fatto chinare sul piatto e allora lei a bassa voce come se stesse recitando una preghiera mormorava delle incomprensibili e misteriose formule. Tutto qui, ma era un sistema molto diffuso in altri popoli e che Natalina aveva ereditato per una naturale predisposizione.
Medicina naturale
... ma che si chiamava il dottore!
Nelle righe seguenti espongo un piccolo trattato di medicina naturale i cui insegnamenti erano praticati fino a non molto tempo fa a Quercegrossa, e alcuni lo sono tutt’oggi. Si tratta di rimedi tramandati da generazioni, forniti dalla natura e applicati per vincere malattie o sanare ferite, e altri, che non avevano niente di naturale, ma ai quali si attribuiva un sicuro effetto. Si ricorreva, infatti, alla commistione dei metodi dove all’elemento naturale si accompagnavano influenze astrali e rituali di formule misteriose tra il pagano e il religioso, alcune recitate come filastrocche ormai incomprensibili a tutti. L’efficacia di questi metodi naturali è stata messa in dubbio più volte dalla moderna medicina, e senz’altro a ragione, ma l’esperienza antica gli dava credito e fiducia, e spesso i loro risultati andavano oltre l’effetto placebo. Ma l’assenza di sulfamidici, antibiotici, antidolorifici ecc. rendeva alcune malattie, come la polmonite, la tubercolosi e molte altre, decisamente incurabili e refrattarie ai metodi naturali con risultati mortali, e grande era la sofferenza. Una frase come ben ci sintetizza Maria Pistolesi basta a farci comprendere lo stato d’animo di quei tempi: “L'unica preoccupazione che s'aveva era quella di ammalarsi, non del futuro o di cosa mangiare”.
Elenco i rimedi più comuni rammentati e sperimentati dagli anziani di Quercegrossa:
Il top della stravaganza è rappresentato, anche per la sua componente sgradevole, dagli impacchi di merda di piccione spalmata su pezzi di stoffa fina e applicata alla gola in presenza di pus e dolore.
Per la gola infiammata e marcita con quelle grosse placche si usavano anche le lunghe foglie di un’erba di campo chiama Rombice. Si batteva e pestava forte con una pietra su un’altra, fino a triturarla. Poi si metteva in un panno e si applicava alla gola e vi si teneva tutta la notte. La Rombice era buona anche per mangiare. Stessa procedura con la cenere calda presa dal focolare e messa in un piccolo sacchetto di stoffa.
I cosiddetti bachi erano, e sono, un’infestazione intestinale di vermi che colpiva i bambini di pochi anni causandogli prurito. Si presentavano come piccoli, sottili bachi bianchi lunghi circa un centimetro visibili nel sedere e l’unico rimedio conosciuto e praticato era l’intervento di una donna che sapesse contraddirli e liberare così il bambino. Si presentavano spesso anche ai miei tempi e allora bisognava chiamare la Giachina o Anna del Mori. “Contraddicevano” i bachi con un filo e un anello passandolo più volte sulla parte infestata recitando alcune preghiere e formule liberatorie e, roba da non credere, avevano effetto. Di questa “formula” ce ne fa memoria il testo trascritto da Piera Vettori di Castellina, parole più o meno analoghe a quelle recitate a Quercegrossa:
Formula per contraddire i bachi
Lunedì santo, martedì santo, seguitare per tutta la settimana fino a domenica Pasqua e che tutti i bachi vadano via, fuori che il baco maestro. Si segna per tre volte per il verso e tre volte all'incontrario rifacendosi dalla pancia nel nome del Padre. Si fanno tre cerchi con l'anello matrimoniale per il verso e tre all’incontrario e mentre si fanno i cerchi si deve dire per tre volte: “Lume di lume, lume di lucerna che questo male subito si spenga”. Un Pater nostro al santo dei bachi S. Ambrogio”.
Il testo parla del baco maestro che non andava eliminato perchè, si pensava, senza di lui non si poteva campare.
Il giradito era un’infezione della pelle intorno all’unghia, estesa spesso a tutta la falange. La parte si presentava arrossata e molto dolorosa e si curava con l’immergere il dito più volte in un tegamino pieno di acqua bollita. Era una tortura e generalmente il dito nell’acqua bollita ce lo tenevi un attimo, come facevo io.
Gli Orecchioni, ossia la parotite, colpivano quasi sempre in forma epidemica costringendo i ragazzi a letto con rigonfiamento tra gli orecchi e la mascella, si curavano col caldo mantenuto di una pezza di lana di pecora e unzioni con olio d’oliva anch’esso caldo, il tutto tenuto da una fascia che avvolgeva il capo.
Molti erano preda dei porri e per curarli c’era un semplice, ma sicuro rimedio. Consisteva nel gettare dei sassi in un pozzo rivolti all’indietro, e per un esito positivo era indispensabile sentire il rumore del sasso che toccava l’acqua. Ecco perchè i porri non guarivano mai.
Il rimedio preventivo per sfuggire a influenze ed altre epidemie era semplice e poco dispendioso: bastava girare con un paio di castagne in tasca ed eri immune da ogni attacco.
Per il singhiozzo insistente si doveva far paura a chi l’aveva oppure bere un bicchiere d’acqua tutto d’un fiato.
Le Pomate preparate con cera e altre sostanze erano quei prodotti dove svolgeva un ruolo preminente la recita delle ricordate formule, altrimenti era tempo perso. Servivano generalmente per tutte le malattie della pelle e screpolature o arrossamenti.
La piaga dei geloni causati dall’alternanza e contrasto freddo - caldo colpiva in particolar modo le donne a causa dagli scaldini tenuti in mano o sotto le sottane o del focolare intorno al quale, mentre s’industriavano, scaldavano mani e piedi (in questo caso apparivano sotto forma grandi macchie rossastre nelle gambe, chiamate “vacche”). Per curarli bastava uno spicchio d’aglio drusciato sopra l’arrossamento dei piedi o delle mani.
Per abbassare la pressione alta, causa di vertigini e altri sintomi, erano adatte le foglie d’ulivo. Si prendono delle foglie, si fanno bollire e l’infuso deve essere bevuto prima di andare a letto.
Per il mal di reni o quando si orinava poco si raccoglievano delle barbe di canna, si facevano bollire e si beveva l’acqua. Oppure infuso di gremigna da bere per le infezioni delle vie urinarie.
La temuta polmonite era curata con applicazione di sanguisughe e così fecero con Gino Rossi, quando gli vennero applicate alle spalle. Dopo qualche ora i venivano staccate piene di sangue e ... guarì. Ma queste applicazioni gli avevano lasciato sulla schiena tre o quattro bollicini scuri, come dei nei, e tanti anni dopo, quando fu ricoverato in ospedale, questi gli marcirono e dovettero inciderli per evitare infezioni.
La polmonite detta “di pena coperta” era la mortale polmonite fulminante, poi un certo Dandella cominciò a curarla col sangue di lepre o qualcosa di simile e ci furono alcune guarigioni.
Altri rimedi per la polmonite, oltre le ricordate mignatte, si rammentano da Anna Masti i pidocchi di maiale.
I pidocchi di maiale, non si sa perchè, dovevano avere delle virtù miracolose da quanto erano considerati perchè oltre che per la polmonite erano consigliati in particolar modo nei casi di itterizia (epatite virale) presi in una cialda o con la mollica del pane, e in altre malattie infettive.
Ancora per l’itterizia, e rimane in ballo il maiale, il sangue di un maschio di questo animale, messo in una vescica e fatto seccare. Con la polvere confezionavano delle presine e le davano al malato con un po’ d’acqua.
Capitava spesso nei nostri giochi di battere il capo in qualche angolo e allora ti ritrovavi un "borchio" sulla fronte, ossia quel gonfiore a bernoccolo arrossato nella parte battuta; ne ho visti di grossi. C'era un rimedio efficacissimo, almeno si pensava, e consisteva nel mettere un pezzo di carta gialla bagnata sulla fronte, tenendocela premuta per qualche minuto. Di solito, nonostante questo rimedio, il borchio cresceva ugualmente.
Trovandosi nei campi, lontano da ogni assistenza il contadino in caso di bisogno ricorreva a rimedi naturali suggeriti dalla credenza popolare. Allora, nei casi di ferita da taglio non c'era altro sistema per disinfettare la ferita che farci una bella pisciatina sopra, e così la lavava e disinfettava.
Sempre per le ferite da taglio e per i dolori alle mani e ai piedi il rimedio più comune era l’uso di un unguento ricavato da una pianta, ma andava raccolto rispettando i tempi. Sul fusto degli olmi si formavano delle “borse” piene di un liquido e, prima della levata del sole, si prendevano tagliandole, e da esse si estraeva dell'olio detto anche l’olio di Pilade, usato per quanto detto con delle fasciature.
La reazione immediata di fronte a una ferita da taglio o altra causa era disinfettarla con il vino versato abbondantemente sulla parte sanguinante seguito poi dalla posa di pepe in polvere per farla rimarginare. Quando Pierina Rossi si procurò una ferita con le forbici usate per tagliare un vestitino che non gli piaceva, intervenne come infermiere Dante Oretti che abitava davanti a lei. La medicò con vino e pepe e la ferita seccò e guarì subito.
Altro sistema molto diffuso per le piccole ferite ed escoriazioni era la cenere sparsa sulla ferita. Lo zio Gino nei piccoli tagli ci metteva la cenere della sigaretta.
Per le botte dolorose, ossia contusioni varie, si prendeva una crosta del pane fatta arrostire, si zuppava bene nel vino e legata alla parte dolente con una fascia, si teneva tutta la notte.
Nel periodo estivo la natura si risvegliava e con lei anche le temute vespe che ronzavano sempre intorno casa, nidificando anche negli anfratti dei muri. Bastava annoiarle in qualche modo o semplicemente passargli vicino e una puntura dolorosa te le ricordava. Una manata veloce per scacciarle era sempre tardiva. Che fare? Il rimedio era semplice. bastava strofinare un pezzo di cipolla sulla parte e il gonfiore col prurito sparivano.
Il rimedio conosciuto per la tosse canina (tosse convulsa) era alquanto schifoso, ma dicono efficace, e consisteva nel far bere al ragazzo dell’acqua presa dal ciotolo del cane, dove l’animale beveva solitamente.
Un’estate del 1954/55, in fondo al giardino dei Mori. Elia Petri, la cognata della mi’ zia Anna, con lo sguardo che spaziava nei campi e verso il castello si rilassava tranquilla nella sua sdraia a strisce di colori vivaci. Era in costume da bagno, ma ricoperta per la decenza da una vestaglina leggera. Improvvisamente estrasse una bottiglietta di vetro e mi parve di vedere svolazzarvi dentro alcune vespe. L’aprì e velocemente se l’appoggio a una coscia. Quasi immediato seguì un piccolo grido con sobbalzo e vidi che una vespa l’aveva pizzicata. Richiuse la bottiglietta, la ripose e riprese a prendere il sole con tutta naturalezza. Alla precisa domanda a cosa servisse tuttociò, rispose di avere i dolori e il miglior rimedio era curarli con un pizzico improvviso di una vespa.
Per la cura contro i frignoli che a quei tempi apparivano di frequente su tanti soggetti, si usava un’erba grassa, presa sopra i tetti dei castri dei maiali dove cresceva. Si chiamava “Sopravvivo” ed era come un carciofo piatto. “Vai a prendere un po’ di Sopravvivo”. Anche questa tritata finemente e senza bollire veniva applicata sulla parte.
Contro la tosse: fiori di sambuco colti la mattina prima della levata del sole. Venivano seccati in una stanza, cioè al chiuso. Messi poi nell’acqua a bollire, si beveva l’acqua.
Bronchite e tosse: temuto impiastro di lino bollito con vino, e messo in due sottili pezze di stoffa e posato bruciante sul petto. Chi non l’ha provato non s’immagina quello che ha perso. Era molto usato anche il cosiddetto “Latte di gallina”. Occorrevano per la sua preparazione una manciatina di semola, messa dentro un panno pulito, e un uovo sbattuto in un tegamino. Poi si lasciava cadere dell’acqua bollita sulla semola per farla filtrare e sgocciolare nel tegamino. Si razzolava uovo e acqua e si beveva. E si guariva...
Per il mal d’orecchi dei bambini si raccoglieva nel bosco la patata o sia il bulbo della pianta "ciclamino di bosco”. Dopo averla pulita, si scavava all’interno della patata e ci si metteva dell’olio d’oliva. La patata veniva messa al fuoco, sul treppiede, e da esso tolta quando l’olio cominciava a bollire. Si toglieva l’olio dal bulbo, si faceva ghiacciare e infine una goccia veniva messa nell’orecchio malato.
Sempre per il mal d’orecchi, se c’era una donna nei dintorni che allattava, si andava da lei che si strizzava il seno, e si metteva una goccia di latte nell’orecchio dolente.
Quando ci si ammalava la prima cosa era la purga di olio di ricino e un cristere di erba querciola. Poi a letto senza mangiare e dopo qualche giorno, da sfebbrato, una pappina. L’acqua di erba querciola serviva anche per il fegato e la coliciste. Nota come Camedrio è oggi riconosciuta come leggermente tossica, ma a quei tempi era molto diffuso il suo uso.
Una tenace malattia come il fuoco di S. Antonio, oltre che al conosciuto metodo del grasso di maiale per lenire le piaghe, veniva combattuto in alcune famiglie con impacchi di lollino di lupinello fatto bollire.
C’erano i casi di spavento per un pericolo corso, dove il soggetto diveniva preda della paura tremando e ansimando. Per calmare le vittime esisteva un rimedio naturale detto “l’erba della paura”. Raccolta nel bosco del Dorcio e bollita, ci veniva poi lavato il malato e, come accadeva, formava delle palle accagliate di grasso o qualcosa di simile.
Tanti erano i detti legati a situazioni particolari e ormai persi. Ne ricordo uno della zia Maria di Mario Rossi nel 1948, quando si rivolge alla zia Ilda in procinto di partorire e ha delle perdite: "Vai a letto, perchè se ti si ghiaccia il parto poi non partorisci più".