Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Cose di Chiesa (Cose di Chiesa 1) (Un furto in chiesa) (Cose di Chiesa 3) (Un prete cortese) (Cose di Chiesa 5)



Un furto in Chiesa
Il racconto sul furto nella chiesa di Quercegrossa avvenuto nel 1793 è descritto dallo storico senese Antonio Bandini nel suo Diario, riprendendolo dalla voce popolare pochi giorni dopo l’accaduto. Mezzo secolo più tardi è riproposto in una sintesi dal Merlotti nella sua storia delle parrocchie, ma confrontando entrambi i testi con gli atti processuali si ha la dimostrazione di quanto la voce popolare si diffonda alterando e confondendo fatti e particolari. La verità è che...
Antonio degl’Innocenti, chiamato dalle sue parti Tonio fiorentino, era stato rallevato probabilmente in diverse famiglie essendo un orfano dell’ospedale degli Innocenti di Firenze, poi aveva preso la strada di “manuale” che l’aveva portato a commettere alcuni furtarelli in quei luoghi dove trovava lavoro. La vigilia del Corpus Domini dell’anno 1793 era il mercoledì 29 maggio e Antonio, trasferitosi da qualche mese nel senese, camminava sulla strada di Rosia verso Siena con suo fagotto in spalla. Aveva 28 anni e lavorava ormai saltuariamente avendone perso la voglia, vivendo con la carità del prossimo. Passò da Siena sotto le mura quando era già buio, verso le ventitrè. Raggiunse porta Camollia e si decise di fare la strada fiorentina, “fermandomi a certi poderi a rinfrescare”, poi, a Fontebecci, girò per Quercegrossa dove già era transitato altre volte e l’ultima tre giorni prima, tra quelle poche case con una chiesa dove, passandole davanti si toglieva sempre, come usava in segno di rispetto, il suo cappello di feltro nero. Questa volta però non ce lo portava il caso, ma aveva un obiettivo preciso. In un podere lungo la strada chiese la carità e ottenne un tozzo di pane, sbocconcellato cammin facendo. Quindi raggiunse dopo mezzanotte Quercegrossa. Passò davanti alla chiesa, adocchiò la canonica immersa nel silenzio, ed entrò nel campo diretto alla capanna del podere di Casagrande del sig. Andreucci, secondo il piano che aveva in mente. L’osteria era già chiusa e dalle finestre delle case non traspariva nessuna luce. Entrò facilmente essendo la capanna chiusa soltanto col peschio. La luce lunare riusciva a stento a filtrare dagli spazi vuoti tra mattone e mattone, dandogli però quel poco di visibilità che gli permise di rivedere quella scala appoggiata alla parete, notata la volta precedente e sulla quale aveva ragionato. Nella penombra la staccò dal muro. Era una scala di circa cinque metri sufficienti per il suo lavoro; se la mise bilanciata sulla spalla e passando per i campi nel silenzio assoluto sbucò davanti alla chiesa. Senza ripensarci appoggiò la scala dalla parte della strada di Petroio e salì agile sul tetto. Si trovava proprio sulla sacrestia, come aveva voluto, e pian piano spostò docci, tabelle e pianelle praticando un’apertura di 60 cm per lato, sufficiente al suo passaggio. Tiro, con un po’ di affanno, la scala sul tetto, la introdusse nel foro fino a quando non la sentì toccare il pavimento, e l’appoggiò a un corrente. Si ritrovò al buio della sacrestia. Un po’ a tastoni entrò in chiesa e all’altar maggiore prese una candela e l’accese alla lampada del Santissimo. Con tutta la calma di chi è avvezzo al furto e senza timore di essere scoperto, ritornò in sacrestia e vide i due armadi chiusi, ma uno con “la chiave nel buco della serratura con un altra legata ciondoloni” (secondo la versione del parroco erano in un cassettino d’un inginocchiatoio). Fece man bassa di cinque pianete, quattro camici, nove tovaglie da altare, un amitto, un velo da spalle “di taffettà bianco con fodera di mantino rosso con il nome di Gesù ricamato d'oro, con trina attorno simile con magliette di filo d'argento in buono stato del valore di scudi 12”, alcuni nastri colorati e due salviette che rinvolse in una cappa nera della compagnia, lì attaccata. C’erano su una mensola dell’armadio aperto un calice e una pisside apparentemente d’argento e prese anche quelli, lasciando “i piedi” che non parevano di valore. Notò ancora due patene, ma ebbe il dubbio non fossero d’argento. Allora impugnò le sue forbici e le graffiò, e quando vide essere di rame le rimise al loro posto. Vi trovò anche due chiavine d’argento, una maschia e una femmina e s’immaginò appartenessero al ciborio. Infatti, tornato all’altar maggiore, l’aprì, estrasse l’ostensorio e, senza nessun rispetto, dalla sfera centrale prese la lunetta che stringeva l’ostia e questa gli cadde sulla mensa dell’altare, e lì la lasciò. Si impossessò dell’ostensorio, lo rinvolse insieme ai calici nel suo fazzoletto bianco e celeste, e mise le chiavine in tasca insieme alla lunetta. Posò quindi la candela su una panca, e col fagotto e il fardello in mano si avvicinò alla porta da dove uscì dopo aver rimossi lo stangone che la serrava e il peschio. Se ne andava con un bel malloppo stimato poi dal curato circa 85 scudi, corrispondenti a 596 lire. Era sua intenzione dirigersi verso Fonterutoli percorrendo strade meno frequentate, e s’incamminò verso Petroio per tagliare poi, attraverso il bosco, verso il mulino di Cavasonno dove, però, a poca distanza da esso si fermò per sistemare la roba trafugata.
Aprì gl’involti, scelse alcune tovaglie e le tagliò a strisce, inoltre ricavò pezzi colorati di stoffa ritagliandoli dalle pianete. Poi afferrò l’ostensorio e lo batte più volte su un sasso cercando di romperlo, ma riuscì solo a piegarne i raggi. Così fece anche con le due coppe di calice d’argento con l’interno dorato, ma riuscì solo ad ammaccarle. Prese la coppa della pisside, simile ai calici, e la battè più forte fino a ridurla a 5/6 pezzetti. Raccolse la detta roba e la chiuse nel fazzoletto bianco e turchino, mentre cercava un posto adatto per lasciarvi l’involto col resto delle stoffe. Vide una macchia poco distante e ve lo nascose coprendolo con foglie e sassi.
Era stata una notte lunga che aveva messo a dura prova la sua pur forte fibra e sentì il bisogno di riposarsi. Semplicemente si sdraiò dove si trovava e si addormentò. Quando il sole era già alto nel cielo riprese il viaggio con l’intenzione di realizzare subito qualche lira con la merce in saccoccia. Era il giorno del Corpus Domini e saranno state le dieci della mattina all’uso francese. Risalì la Staggia e raggiunse Quetole dove incontrò il contadino Francesco Crocini e gli propose di comprare le stoffe, ma il Crocini non le volle, allora si allontanò attraversando i campi. Il Crocini però aveva già sentito parlare del furto avvenuto in chiesa a Quercegrossa e un forte sospetto lo colse. Essendo solo, andò alla vicina Casapera da Gasparo Fineschi e gli raccontò la storia, dicendogli anche che lo dovevano arrestare perchè senz’altro era quello il ladro. Risoluti a procedere, ma non sentendosi sicuri in due, raggiunsero Sornano e parlarono del fatto ad Andrea Burroni il quale lì segui armandosi di un palo come già aveva fatto il Fineschi. Lo scorsero lontano sulla strada per Quercegrossa e gli diedero dietro. Raggiuntolo, lo trovarono seduto sul ciglio della strada. Gasparo si finse acquirente di tutta la merce contenuta nel fagotto e il fiorentino gli chiese in cambio dieci paoli. “Io gli dissi che l'avrei presa a questo prezzo ma che fosse venuto con me a pigliare i quattrini perchè non avevo indosso e non volendo egli dare il fagotto glie lo levai e fingendo che detto Crocini fosse il mio servitore nel darli il fagotto li dissi "Tieni servitore portamelo" e non volendo il detto venire a pigliare i quattrini lo arrestammo ed io presolo per la giubba lo condussi via per forza e per la strada il detto arrestato mi disse “Se i denari si dovevano andare a pigliare alla Zecca” e io le risposi che appunto si dovevano andare a pigliare alla zecca e tenendocelo sempre in mezzo si continuò il viaggio verso la nostra cura”. Il gruppetto, passando davanti al podere Erede, chiama Ventura Taddei, il contadino del curato, il quale, affacciandosi loggia e sentito quello che gli dissero, li seguì armato di bastone dopo essersi scagliato berciando contro il ladro chiedendogli “perchè aveva fatto la baronata di rubare al curato”, ma senza ottenere risposta. All’Olmicino si aggrega anche Galgano Buti di 21 anni armato di palo e, tenendo ben stretto il ladro, tutti insieme raggiungono la chiesa di Quercegrossa e chiamano don Sebastiano. Il curato prese il fagotto, e si avvide subito della mancanza di molta roba, allora i contadini minacciarono il ladro per sapere “dove avesse posto il restante della roba rubata, e lui ci rispose che l'aveva ringuattata in un bosco”, e accettò di condurceli. Girarono quasi un’ora e mezza nel bosco di Cavasonno perchè il degl’Innocenti non si ricordava dove aveva celato l’involto. Finalmente ritrovarono la macchia col bottino e fecero ritorno a Quercegrossa dove una gran massa di gente li aspettava; saranno state circa le tre dopo mezzogiorno.
Era già stata fatta avvisare le giustizia del furto e della cattura del ladro, e diverse guardie comandate dal caporale Guerrini giunsero a Quercegrossa intorno alle ore quattro. Ammanettato il ladro, il caporale fece chiamare alcune persone come testimoni e si presentarono Francesco Pianigiani, Antonio Sampieri e Pietro Rossi (il contadino della scala) di Quercia Grossa davanti ai quali, nella casa del curato, venne controllata tutta la refurtiva e fatta fare una prima deposizione all’arrestato. Egli dichiarò d’aver compiuto il furto insieme a un certo Giuseppe d’Arezzo “accattone, che l'aveva trovato giorni avanti a mangiare la minestra dai Padri Cappuccini dell'Osservanza avuta in Carità, e che per tre giorni erano stati sempre assieme, e avevano meditato di commettere un tal furto”.
Da ora in avanti il reo confesso cercherà in tutti i modi di alleggerire la sua posizione per ottenere una pena più lieve collaborando pienamente con la giustizia e soprattutto dando versioni addomesticate di ogni suo gesto come quella di dividere la responsabilità con un complice inventato o evitando l’accusa di aver scassato gli armadi o aver toccato l’ostia con le mani o aver acceso la candela dalla lampada e non con il suo acciarino ecc. Conclusa tutta la procedura, il materiale rubato venne chiuso in un sacco, insieme agli oggetti personali del ladro costituiti da un acciarino, da un coltello e un paio di forbici, e sigillato con cera lacca di Spagna, “avente il sigillo una figura di testa umana”, fatto osservare per due volte ai detti testimoni. Quindi, messo l’arrestato in mezzo, il drappello delle guardie partì per Siena per consegnarlo al carcere segreto.
Mancava dalla roba rubata una chiavina argentata e la lunetta dell’ostensorio che il ladro disse di aver perso. E infatti non mentiva perchè entrambe vennero ritrovate. Ventura Taddei narra al Cancelliere: “Mi era io scordato di dirgli prima, che essendo io andato Domenica mattina p.p. alla messa alla cura di S. Leonino, ove vi era la festa della processione del Corpus Domini, ed essendo passato per il bosco suddetto sapendo io che mancava dalla suddetta sfera d'ostensorio la lunetta, dove si mette l'ostia consacrata per l'esposizione del SS.mo ritrovai la medesima lunetta del detto bosco nel posto dove il detto ladro aveva agguattata l'altra roba rubata e la trovai in terra, sicchè essendo roba che non la potevo toccare per quanto io credevo la rinvoltai in un pezzo di carta, ed arrivato che fui a S. Leonino dove vi era pure il mio padrone S. Curato Borselli li dissi che avevo ritrovato la lunetta e glie la restituì e lui mostrò tutto il piacere che io l'avessi ritrovata”. Aggiunse inoltre, perchè il Cancelliere vuole stabilire se era stata usata violenza con i bastoni nei confronti del ladro arrestato: “Si signore mi ero scordato di dirgli che avendo io domandato al predetto arrestato se il di lui compagno sapeva dove aveva agguattate le robe rubate Lui mi rispose che il suo compagno non ne sapeva nulla e che lui solo l'aveva in consegna devo dirli ancora che non so se i miei compagni sentissero questo discorso come pure devo dirgli che quando si andò al Bosco con il detto arrestato per timore che v'avesse qualche compagno io vi andai armato di bastone come pure mi pare che l'avessero tutti, o buona parte dei miei compagni e siccome io tenevo per il petto il detto arrestato gli levai il coltello e le forbici che aveva in saccoccia acciò non mi dasse qualche colpo, quali robe consegnai ai famigli”. Anche la chiavina d’argento mancante venne ritrovata da Giuseppe Sampieri, il quale, convocato il 16 giugno, rese questa testimonianza: “Comparve Giuseppe Sampieri altro testimone nominato dal curato derubato ...
R. Io sono e mi chiamo Giuseppe Sampieri del fu Piero, ho anni 23 circa sono giovinotto, sono nativo di Petroio del Comune di Querce grossa sono mezzaiolo in detto podere di Petroio del Sig. Marc'antonio Fortini e fo il mestiere di fornaciaio di lavoro quadro e tondo.
D. Se sappia per qual motivo venga esaminato
R. Suppongo che mi voglia esaminare per una chiavetta d'argento maschia ... qual chiave la trovai giovedì giorno del Corpus Domino p.p. circa le ore quattro dopo mezzogiono per la strada maestra che conduce alla mia cura di Quercegrossa lontano circa un miglio ... ero solo e non fui visto da nessuno ... perciò mi da a credere che il ladro la perdesse per la strada ... Cosa ne fece della chiavina ... Essendo andato come ho detto alla funzione del giorno alla mia cura e avendo raccontato al curato di aver trovato la chiavina e avendogliela fatta vedere lui disse che era la sua che gli era stata rubata e io gliela restituì ... chiavina d'argento larga circa tre dita trasverse grossa quanto una penna da scrivere ... aveva in una estremità come un cerchio ma non tondo per bene e nell'altra estremità vi era il suo ingegnino ed era maschia.
Le venne mostrata la chiavina che lui ... "Questa chiavina che lei mi fa vedere è quella medesima che io trovai nella strada e che restituii al Sig. Curato Borselli ... davanti ai testimoni Giuseppe Vannuccini e Domenico Giannozzi”.
Dai verbali e atti processuali si ricavano tante e particolari notizie. Da una di queste possiamo farci un’idea della fisionomia del ladro e delle espressioni usate nella descrizione di un individuo: ”Fatto estrarre dalle carceri segrete un giovanotto di statura piuttosto bassa d'età per quanto disse e dall'aspetto dimostrava d'anni 28 non terminati, asciutto di viso, e di vita con cappello in stoffa di feltro nero tondo, capelli castagnoli corti con zazzera, un poco increspati e barba in volto più chiara con una cicatrice nella fronte due dita traverse sopra il ciglio destro, vestito con giubba corta rappezzata di panno lano color di marrone con toppe turchine a piedi delle falde di mezzalanina con due soli bottoni uno per fianco dell’istessa roba con suo bavaro simile e una toppa di detta roba turchina nel mezzo delle spalle camiciola di bianchetta con bottoni di metallo giallo ed uno bianco, più tosto lacera, camicia di panno canapino, calzoni di fustagno bigio laceri con bottoni simili calze di lana bianca scarpe di vitello nero con i treccioli neri”.
Dall’interrogatorio del parroco Borselli:
“D. Chi erano presenti allor quando portarono l'arrestato
R. Saranno stati presenti più di cinquanta persone ma io in quella buglia (confusione) non posso nominargli che quelli gl'ho nominato sopra
D. Se lei nell'ostia suddetta consacrata che trovò sopra l'altare vi osservasse alcuna mancanza e quale
R. Mancava un frammento della grossezza di un grosso capo di spillo che ritrovai con la patena sopra la tovaglia
D. Se nel ciborio c'erano ostie consacrate
R. Ce n'erano circa 15 e non notai nessuna mancanza, solamente trovai il coperchio d'essa un poco aperto per la levata di circa un dito trasverso”
La procedura di riconoscimento in vigore in quegli anni al Tribunale di Siena consisteva nel far osservare tre persone simili nel fisico ed avere la conferma dal testimone dell’avvenuto riconoscimento invitandolo a toccare la spalla del riconosciuto. Questo di seguito descritto è il riconoscimento fatto da Ventura Taddei; testo alquanto ridotto per evitare tutte quelle pignole ripetizioni del verbalizzante, tipiche dei tribunali:
“Allora fu fatto condurre dalle carceri segrete nella stanza delle ricognizioni il carcerato Antonio degl'Innocenti disciolto dai legami in compagnia di Giovanni Battista Bandelloni e Giovanni Battista Giacomelli persone più simuli al possibile che siansi potute avere al detto degl’Innocenti al quale fu detto che si ponga in fila con i suddetti due in quel posto che più gli piace con la faccia rivolta alla finestrella della porta”. Al Taddei, il quale si trova in altra stanza, viene ora rinnovata la monizione di dire la verità e alla domanda se conosca G. B. Bandelloni e G. B. Giacomelli, lui afferma di non conoscerli: “E’la prima volta che li sento nominare”. Allora viene fatto avvicinare alla finestrella della porta e invitato a osservare i tre uomini in attesa nell’altra stanza, e se fra questi ve ne conosca qualcuno. “E affacciatosi il Taddei alla finestrella doppo fatte le necessarie osservazioni disse: “Si Signore che fra le tre persone che vedo da questa finestrella in fila dentro la stanza ve ne riconosco una ed è quella a man sinistra ed è quel ladro che si arrestò come ho detto nel mio esame“. Fatta aprire la porta della stanza gli venne ordinato di toccare con le mani la persona riconosciuta “... introdottosi il Taddei nella stanza andando alla volta del carcerato degl’Innocenti e toccandolo nella spalla destra con la mano destra disse: ”Questo è quel galantuomo da noi arrestato a Quercegrossa come gl’ho detto e lo conosco benissimo per tale”. Presente il detto Antonio degl’Innocenti intelligente e replicante “ed io vi riconosco sicuro per uno di quelli che mi arrestarono”.
Il riconoscimento come richiedeva la legge avveniva davanti a due testimoni, e quel giorno furono Giuseppe Vannuccini e Domenico Giannozzi.
Anche le testimonianze di alcuni personaggi, convocati per confermare se la chiesa era stata consacrata solennemente e se l’argenteria rubata fosse anch’essa consacrata (aggravando così il furto), rivestono particolare importanza perchè unite a quella del parroco (che riporto nella storia religiosa) ci fanno un quadro completo della liturgia celebrata nella chiesa di Quercegrossa, e altro: “Sacerdote Domenico Alberti ... viene in villeggiatura ... credo che non sia consacrata perchè nelle muraglie non vi sono le dodici croci le quali sono il segno della solenne consacrazione ... come tutte le chiese e io nel tempo della villegiatura vi celebro tutti i giorni la S. Messa posso dirle anche ... la Via crucis ... la buona morte coll'esposizione del Santissimo ... vi si spiega l'evangelio e la dottrina cristiana ... si amministrano i sacramenti della Confessione e Comunione ... vi si fanno due volte all'anno feste solenni di S. Giacomo e S. Antonio di Padova ... e le processione delle Rogazioni”.
“Io sono Luigi Andreucci figlio del fu sig. Giovanni Francesco ho anni 57 compiti, sono nato in questa città di Siena, sono scapolo e il mio esercizio al presente è quello di aiuto del S. Pandolfo Spannocchi Provveditore dell'Ufficio delle Comunità della Provincia Superiore di Siena ... perchè a poca distanza da detta cura vi vado continuamente ad una mia villa, che vi ho ... chiesa pubblica ... vi si fanno le pubblicazioni di matrimonio e i matrimoni medesimi ... e vi concorre moltissima gente in detta cura ... anche forestieri”.

L’istruttoria che seguì dopo la denunzia inoltrata dal Tenente del Bargello Giovanni Fantini accertò, attraverso la confessione del reo, le numerose testimonianze, i confronti, i sopralluoghi e perizie la verità dei fatti e il danno subito dal parroco, ma mise in luce anche una precedente pendenza di Antonio degl’Innocenti con la giustizia aggravando la sua posizione e ci spiega anche perchè si trovasse in territorio senese. Era, infatti, un tal Tonio fiorentino, già condannato per tre furti, ricercato dal Tribunale di Pistoia per aver sottratto furtivamente, otto mesi prima, diverse stoffe dal negozio di Tommaso Barelli, merciaio alla porta al Borgo di Pistoia, il quale lo ospitava per carità in casa propria dandogli da mangiare e da dormire. L’accusa di un certo Giraldi da Lamporecchio, il quale lo conosceva benissimo avendogli dato lavoro per un mese circa facendogli vendere cocomeri davanti alla porta ricordata di Pistoia, mise in luce la vendita fatta all’oste di Lamporecchio della mercanzia rubata e si seppe inoltre che il ladro “deve avere il dito di una mano mancante di tutta l'ugna”, cosa facilmente accertata e riscontrata nel degl’Innocenti che mancava della falange del dito anulare della mano sinistra.
A conclusione del processo, non avendo io trovato la sentenza, riporto le parole di don Merlotti: “Il processo che ne segui condannò il reo alla berlina per il giorno 12 ottobre e al trasferimento a Pisa "a subire il meritato gastigo".



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