Quercegrossa (Ricordi e memorie)
CAPITOLO VI - LA COMPAGNIA DI S. ANTONIO
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Introduzione
(1) La Compagnia a Quercegrossa
(2) La soppressione del 1785 e ripristinazione
(3) Il Libro dei Capitoli
(4)Amministrazione e attività
(5) Arredi e culto
Funerali e varie
Funerali
La morte di un Fratello della Compagnia, che di solito avveniva nella propria abitazione dove aveva ricevuto i sacramenti della penitenza, dell’eucaristia, l’olio degli infermi, e la raccomandazione dell’anima da parte del parroco che quando era possibile ne vegliava anche l’agonia, metteva subito in moto una liturgia funebre codificata da secoli alla quale si abbinavano una serie di comportamenti familiari e sociali che ogni comunità aveva ereditato e mantenuto e trasmessi fino a noi. In breve sintesi essi comprendevano l’esposizione del morto nella sua abitazione, e più precisamente nella sua camera nella quale con lenzuola venivano coperti gli specchi della mobilia (secondo un’antica superstizione si evitava che l’immagine del morto rimanesse nello specchio, ma molto più semplicemente serviva forse a coprire un simbolo di vanità). Dopo la sua vestizione da parte dagli addetti della Compagnia, con i suoi abiti ma non sempre le scarpe, era adagiato nel suo letto funebre illuminato da quattro ceri posti agli angoli del medesimo. Il defunto, con le braccia incrociate al petto o lungo i fianchi, aveva di solito una corona del Rosario avvolta alle mani. Seguiva la visita di parenti e amici, immediatamente avvisati, per l’omaggio al morto e la consolazione dei familiari. La sera la recita del Rosario con il parroco e la veglia notturna da parte di familiari e parenti. Il giorno successivo il trasporto in chiesa per le esequie sul corpo, l’incensazione e la benedizione con la partecipazione di tutta la comunità. Il trasporto al cimitero e l’interramento operato dai Fratelli della Compagnia era l’atto finale della cerimonia. Tutto avveniva in religioso silenzio e a bassa voce nel rispetto del morto e della famiglia, il cui dolore si manifestava con dignità. Il mesto ritorno a casa vedeva i familiari circondati da parenti e amici che si intrattenevano a consolarli. Non era in uso nel nostro popolo, almeno a memoria d’uomo, un vero pranzo funebre. Molti dei passi citati vedevano la presenza del parroco con numerose benedizioni e assoluzioni, il quale avrebbe poi celebrato l’uffizio funebre che spettava al morto e, negli anniversari fatte le messe che i familiari gli avrebbero ordinato per l’anima del defunto. Il giorno del funerale il sacerdote, in stola nera accompagnato dai sacrestani recanti la croce, i lanternoni e l’acqua benedetta, si recava alla casa del morto dove recitava il "Si iniquitates" e il "De profundis" dal Salmo 159 e benediva la salma. Dopodiché il convoglio funebre partiva dall’abitazione diretto alla chiesa parrocchiale. Quando vi erano Fratelli della Compagnia vestenti la cappa, questi precedevano il corteo. La messa delle esequie, celebrata nella chiesa parrocchiale era il momento culminante dell’emozione e le lacrime dei familiari portavano alla commozione generale. La cerimonia comprendeva anche l’omelia del parroco che ricordava ed elogiava le qualità del morto o della morta. Faceva parte della liturgia funebre, affermatesi fin dall’alto medioevo, il conosciuto Libera me Domine: "Libera me Domine de morte aeterna in die illa tremenda: Quando coeli movendi funt, e terra: Dum veneris judicare faeculum per ignem. Tremens factus fum ego, e timeo, dum discusso venerit, atque ventura ira. Dies illa dies irae, calamitatis, e miseria, dies magna, e amara valde. Requiem aeternam dona ei Domine, e lux perpetua luceat ei. Kyrie eleison. Christe eleiso. Kyrie eleison. Pater noster (detto in segreto mentre benedice e incensa il morto). Et ne nos inducas in tentazione. Sed libera nos à malo. A porta inferi. Erue Domine animam ejus. Requiescat in pace". Questo commovente canto funebre che il popolo aveva volgarizzato nel "Quando c’eri, c’eri" era seguito dall’altrettanto intensa preghiera "In paradiso ti portino gli angioli": "In paradisu deducant te angeli". Preghiere che hanno accompagnato l’addio di ogni credente. Il rito suddetto si compiva a fine messa quando il sacerdote deposta la pianeta, pregava, benediva e incensava la bara girandogli intorno. Terminate le esequie gli uomini si facevano carico a spalla del cataletto o della bara e il corteo, nello stesso ordine con cui era entrato in chiesa, cioè croce davanti e lanternoni al fianco, si metteva mestamente in marcia avviandosi verso il cimitero per la cristiana sepoltura, con il sacerdote che recitava le preghiere dei morti e le donne il Rosario, che spontaneo sgorgava dalle bocche. L’uso dei lanternoni era stato preceduto da quello delle torce e fin dal 1871 era stato deciso di trasportare i defunti con due "torce a vento" a spesa del popolo con accatti. Al cimitero seguiva la benedizione della fossa e l’ultima assoluzione del morto.
Il rito accennato presentò poche varianti nel tempo, ma alcuni fatti legati allo svolgimento dei funerali rimasero nella memoria collettiva di Quercegrossa.
Avviso alle famiglie
Ricorda Dedo che quando era bambinetto don Luigi Grandi lo chiamava e lo mandava insieme ad altri ragazzi, ad avvisare tutte le famiglie della parrocchia che nel tal podere o casa era morto tizio o tizia “e gli dicevano anche quando c’era il funerale”. Tale usanza, certamente in uso da sempre, era stata codificata dalla Compagnia in una riunione del 4 agosto 1844 quando, insieme alla nomina dei due sagrestani, fu deliberato "Che i detti sagrestani debbino prendere l’incarico di avvisare alle case della cura il luogo del morto. In riconoscenza di un diligente servizio li saranno date il giorno della festa lire quattro per ciascuno". Da allora rimase pratica consueta fino agli anni Cinquanta del Novecento.
Funerali del passato: cera, fiaccole e pagamenti
Prima che intervenisse il legislatore a modificare il regolamento, i funerali venivano celebrati nelle prime ore notturne alla luce delle fiaccole o flaccole con la relativa spesa della cera a carico della famiglia. Se sono limitate al minimo le informazioni che i parroci ci forniscono nei libri dei defunti, talvolta però aggiungevano note sull’avvenuto pagamento o come quella che per la sua singolarità riporto il testo. E’ uno dei tanti defunti di Basciano nel Seicento: "Domenico di Giovanni Pianigiani d’età d’anni circa sette morse il dì 8 agosto e seppellito nel cimiterio senza lumi e al buio per avaritia del padre overo di Betto suo zio". Cosa avrà spinto il curato Antonio Martelli ad aggiungere questa nota non lo sapremo mai, ci si può solo immaginare. A modificare la situazione intervenne il Granduca con una legge del 10 ottobre 1748 stabilì che per le città i funerali si effettuassero all’un ora di notte con esclusione dei nobili e con sole quattro torce mentre per la campagna dopo il mezzogiorno. Nel 1780 la legge fu modificata e nella città di Siena soltanto dall’aprile a tutto ottobre il trasporto dei cadaveri si doveva fare notturnamente, dopo l’Ave Maria. "Questo privilegio ebbe vita in contemplazione della situazione delle strade (nell’inverno) in molti luoghi scoscese e difficili nei tempi di pioggie, nevi, geli, ecc.". Ben cinquant’anni dopo, nel 1832 l’arcivescovo di Siena viene invitato “a togliere il riprovevole uso di trasportare in pieno giorno dalle Case alle rispettive chiese i cadaveri per l’associazione". L’arcivescovo rispose richiamandosi alla precedente legge del 1780 che permetteva il trasporto diurno a causa delle stato delle strade ecc. Gli fu risposto che la città di Siena aveva le strade lastricate ben migliori di quelle del 1780 e comunque "in via di semplice tolleranza" di continuare fino a nuovi ordini. Facile intuire che piano, piano, il trasporto notturno sparì del tutto. Un’altra problematica legata ai defunti venne affrontata nell’Ottocento a causa della prematura sepoltura dei cadaveri per la quale la legge prevedeva l’attesa di 24 ore e in alcuni casi di 48. Si portavano esempi di defunti sepolti dopo sole dodici ore e che la pratica era molto diffusa. In una lettera del Vicario datata 1824 e inviata ai vicari foranei della diocesi, e quindi ai parroci come il nostro Pratesi, si richiamava "a scampo di perniciosi inconvenienti" al rispetto e all’osservanza delle reali leggi mortuarie.
La quota che una famiglia doveva al parroco per il servizio funebre, detta anche di "stola nera", era nel Settecento di lire due per i “corpi piccoli” e lire quattro per gli adulti. Inoltre al parroco spettavano gli avanzi della cera, ossia le candele usate, poi coll’Ottocento questa pratica decadde. Ma ancora il 3 giugno 1820 il parroco di Quercegrossa don Bianciardi, a causa di una disputa, chiedeva al Cancelliere di Curia lumi sull’applicazione della tassa sui funerali ed uffizi, e i diritti di cera che si dovevano al parroco nelle campagne della diocesi. Precisava che lui applicava le seguenti tariffe: tassa nei funerali per i corpi grandi lire 4 e libbre 3 di cera; per i corpi piccoli lire 2 e ½ libbra di cera. La limosina delle messe negli uffizi è di lire 1.6.8, senza cera tassata, ma per convenzione fra i popolani e i parroci si usa dare due libbre di cera o una libbra di cera o due paoli. Dal primo libro di morti della parrocchia di Quercegrossa, redatto dal primo curato don Carducci tra il 1653 e il 1663, si ricava che ogni funerale pagava lire 2 di tassa per i corpi piccoli e 8 per gli adulti ai quali venivano aggiunte spese di "accompagnatura", per la cera e "sacrifizi" si ché il parroco incassava in alcuni casi, fino a lire 16. Pochi anni prima, intorno al 1630, in parrocchia di Basciano le tariffe sono le solite, 2 lire per i piccoli e 4 per i grandi ma, vi vengono assommate sempre altre spese che portano il costo a lire 4 per i piccoli e lire 8 o maggiori per gli adulti. Dai dati soprastanti si comprende che la tassa rimase invariata per circa due secoli. Come vediamo rivestiva massima importanza l’uso della “cera” nella liturgia funebre e il diritto di appropriazione dei parroci che se ne servivano poi per uso in chiesa e nelle varie cerimonie. Con questa voce si intendeva cera gialla e bianca, fiaccole e torce formate da più candele unite, e le singole candele, e il tutto veniva valutato a peso in libbre (una libbra corrispondeva a 339 grammi). Alcuni interessanti esempi ci illustrano come erano disposte le candele ai funerali e molto altro.
A fine Seicento alcuni parroci fanno memoria che “quando si esponga” un cadavere della propria parrocchia, anche se in altra qualsiasi chiesa compresa la Metropolitana: "Il paroco del Defonto esposto, si piglia tutta la cera che arde intorno al Cadavere e le Candele d'altrettanti altari, quanti sono nella Chiesa propria, et a sua eletione ... riceve inoltre la metà della Cera che arde intono alla Croce, mentre si celebrano l'esequie al Defonto, e ciò senza alcuna contradditione, sendo consuetudine introdotta e pacificamente osservata da tutti i parochi e Chiese rispettivamente dove il Cadavere si seppellisce con questa differenza però, che la suddetta consuetudine si osserva nelle sole Chiese che hanno il jus sepeliendi ò de jure, ò per privilegio perchè dandosi il caso d'eleggersi sepultura in Compagnie, o altri Oratorii che non hanno il jus sepeliendi, tutto acquista il proprio paroco del Defonto, non dando la quota a simili Chiese o Oratori. Che per essere così la pura verità si soscriveranno manu propria confermando quanto sopra”. Si legge tra le righe del testo una delle tante polemiche sorte tra il clero officiante e le Compagnie per i diritti di cera e di cassa. La seguente cronaca ci parla di una morte prematura di una giovane educanda di buona famiglia che è sepolta secondo l’uso del tempo: “La sig.ra Vittoria Nenci, della parrocchia di S. Antonio in Fontebranda, essendo ammalata dopo esser stata cinque anni nel monastero delle monache di S. Giacinto dette della Vitaeterna essendosi nel mese di settembre 1695 "resa inferma di male lungo e pericoloso" fu resoluto dal suo Sig. padre e col beneplacito del medico che l'aveva curata nel monastero di condurla nella loro villa di campagna il 15 ottobre "sperando che la mutazione dell'aria contrubuisse molto alla recuperazione di sua salute. Condotta in lettiga alla ville ma l'aria non portava alla Convalescente nessun profitto di Sanità desiderando elle tornare a Siena la sera del 4 di novembre fu ordinata la lettiga, ma la notte stessa presa da mortale peggioramento passò a miglior vita senza ricevere nessun Sacramento. Fu esposto il cadavere nella cappella della detta villa con 6 falcole imprestate dal sig. curato di "Ricciano" mentre il sig. Feriolo, padre della defunta faceva provvista a Siena della cera per i funerali. Onde furono consegnate 4 torcie di cera veneziana di libbre 3 per ciascuna, e 14 falcole di cera di oncie 4 da distribuirsi a chi avesse accompagnato il cadavere alla Parrocchia, e ne furono messe sei all'altare maggiore e due all'altro altare per ardere mentre stava esposto il cadavere, tanto le dette ciò quanto le suddette candele. In oltre fu consegnata per la Compagnia, e con questo apparato, e provista di furono circa le 17 hore, celebrate l'esequie e data sepoltura al Corpo”. Molti altri documenti ci parlano dei diritti di cera e distinguono tra morti della Compagnia o parrocchiani semplici o estranei, tra sacerdoti correttori e cappellani diversi, tra chiesa del morto o altra chiesa, e tutto questo distinguere si riduceva in pratica alla riscossione della tariffa e della cera, ma alla base di tutto vi era la difesa dei propri diritti da parte dei soggetti coinvolti siano stati laici o religiosi, compagnie o parrocchie.
A questo proposito non posso tralasciare quanto avvenne nel 1644 dove appunto si parla di Diritti per una questione nata tra l’economo spirituale di Petroio Giovanni Cerchi, al tempo anche rettore di Basciano, e il pievano di S. Leonino (diocesi di Colle). Alla denuncia del Cerchi segue un processo dove alcuni coloni sono chiamati a testimoniare. Il fatto riguarda la morte e il seppellimento di Caterina Guerranti moglie di Francesco Sancasciani, morta nel podere di Sornano il 24 giugno 1644. La premessa al processo è la seguente:
“L’anno del Signore 1644 a dì 25 giugno
Il Rev. Sig. Giovanni Cerchi economo della parrocchiale di S. Michele Arcangiolo a Petroio Diocesi di Siena deduce a nota di V. S. Rev.ma come tale perchè il di precedente cerca le vinti un hora sendo passata a miglior vita M. Caterina moglie di Francesco San Casciani della cura di Petroio habitante a Sornano il suo corpo fu cavato dalla detta casa di detto Francesco e fu portato alla pieve di S. Leonino da pievano di detto luogo e fratelli della Compagnia del Corpus Domini pure di detto luogo di San Leonino et pressa Compagnia fu sepolto, ...... et per informatala di quanto sopra fa istanza esaminare Caterina di Santi Masini mezzaiola del Sig. Pievano Vieri di Lornano
Iacomo Guerranti e Pierantonio suo figlio nel podere di Macella Comune di S. Stefano
Francesco Sancasciani marito della morta
Camilla moglie di Domenico Mazzarri nel Podere di Lornanino
Francisca serva del detto piovano Vieri.
Dall’esame dei testi si cerca di appurare la verità dei fatti e soprattutto se siano stati calpestati diritti di giurisdizione con conseguente appropriazione indebita di tassa e cera.
Chiamato a testimoniare Francesco Sancasciani compare il 13 luglio 1644:
Francesco di Bartolomeo Sancasciani habitante a Sornano testimone come sopra precettato al quale dato il giuramento toccato e monito
D. Se sappia la causa per la quale è stato precettato à comparire in questa Corte
R. Io la cagione non la sò ma me lo immagino
D. E di questa sua immaginazione che dice
R. La mea immaginazione credo ed ha per certo della mea moglie morta.
D. Come si chiamasse sua moglie ed dice? et e morta
R. La mia moglie si chiamava Caterina
D. Quanto tempo hà et detta Caterina sua moglie e morta
R. La mia moglie Caterina morse la vigilia di S. Giovanni circa l’Avemaria di notte
D. Dove morse detta Caterina sua moglie
R. La mia moglie morse nel podere di Sornano dove stiamo a mezzaria con i Sig. Squarcia Lupi
D. Dove e quando fusse seppellita detta Caterina
R. La mia moglie fu sepolta nella chiesa di S. Leonino la sera proprio di S. Giovanni et venne la Compagnia et era vicino all’Ave Maria di notte, e era con detta Compagnia cioè con i fratelli il Curato di S. Leonino per cui fu sepolta
D. A qual cura ha esso teste
R. Io so della cura di Petroio
D. Per qual causa la detta Caterina sua moglie essendo della Cura di S. Michelagnolo a Petroio fusse sepolta fuori di detta chiesa e senza l’intervento di chi amministra i Sacramenti in essa
R. Mia moglie haveva ordenato vivente et fusse sepolta nel Lavello della Compagnia del Nome di Gesu nella Chiesa di S. Leonino e perciò fu sepolta la ... a Petroio vi amministrava i Sagramenti il Barbucci ma è poco manco di un anno et lui non val più e per questo non fu chiamato
D. da chi hano stati amministrati i SS. Sacramenti à quelli della Cura di S. Michelangiolo da et esso come esso teste dice, il detto Barbucci non ha potuto ciò fare
R. Havendo io male di quaresima prossima passata anzi detta quaresima prossima passata ho fatto un anno, e non potendo il Barbucci venirmi a sacramentare feci chiamare il rev Sig. Iacomo rettore di Vagliagli il quale venne a confessarmi e poi mi comunicò, et anco amministrò i Sacramenti ad una donna chiamata Fiore d’Agnolo nel podere di Mocenni la quale poi ci morse e fu sepolta nella chiesa di S. Michelagnolo a Petroio e vi fu il detto curato di Vagliagli , e non so se sia stato ad amministrarli ad altri
D. Se in occasione di bisogno di ammalati siano stati chiamati Preti d’altre Cure, quali, e da chi
R. Io non so et hano stati chiamati altri Preti
D. Da chi fusse sacramentata detta sua moglie
R. La mia moglie fu sacramentata dal Piovano di S. Leonino
D. Se fusse chiamato il detto Piovano di S. Leonino o pure venisse da se ad amministrare i S. Sacramenti
R. Io mandai Marco mio fratello à chiamare detto sig. Piovano acciò la venisse a confessare, sicome venne e così la sera vi mandai Lorenzo mio fratello Cugino accio venisse detto Piovano venisse a dargli l’olio santo per raccomandargli l’anima, e similmente lo feci chiamare quando fu morta accio la venisse ad accompagnare alla sepoltura et i fratelli della Compagnia del detto Nome di Dio la portonno alla detta sepoltura
D. Per qual ragione non chiamasse il detto curato di Vagliagli ad amministrare i Sacramenti alla sua moglie
R. Io chiamai detto Piovano di S. Leonino atteso che la Settimana Santa prossima passata fui a Siena et ottenni licenza da Mons. Vicario Arcivescovile diretta a detto Piovano acciò esso potesse amministrare i Sacramenti all’Ammalati a detta Cura di S. Michelangelo atteso che il Barbucci non poteva fare più niente e l’ebbi in servitio e la portai al medesimo detto Piovano
D. Se detto R. Piovano di S. Leonino si ha mai tenuto a detta licentia per altri della detta Cura
R. che nò perchè era solamente per la mia Fameglia e la medesima licenza havevo ottenuta ancora per mano di Fabio Sergardi Vicario Arcivescovile
D. Chi fusse presente quando fu portata a seppellirala detta Caterina sua moglie
R. Iacopo Guerranti mio suocero, Pavolo Bianciardi mio Cognato, Vincentio e Pierantonio Guerranti miei Cognati, donna Menica di Iacomo Guerranti mia Suocera, Menica di Santi Manni mia Zia, et i fratelli della Compagnia fra quali vi conobbi il detto Piero Francesconi e vi poteva essere altra Gente et non mi sovviene
Soggiungendo da per se Io quando fu morta la mia moglie mandai Menico Semplici mio cugino e Raffaello dell’Olmicino accio i medesimo chiamassero il R. d. Antonio Barbucci se menasse seco quattro altri preti ò questo meo per accompagnare il corpo della mia moglie alla sepoltura, et che venissero alle diciannove hore, o al più a venti ore, e loro non solo vennero a venti ore, ma sebene erano ventidue hore sonate, e quando comparveno appunto era andata via perchè per il gran caldo non vi si poteva più tenere, et allora quei Preti cominciorno a sclamare e non volsero andare a seppellirla perché s’era appunto portata come ho detto
D. In qual diocesi ha la Chiesa di S. Leonino dove la sua moglie è stata sepolta come dice.
R. La Chiesa di S. Leonino è della Diocesi di Colle
D. Se abbi pagati cosa alcuna per i funerali quando et a chi
R. Io per ancora non ho pagato cos’alcuno perché non mi è stato domandato niente
D. che quantita di cera comprasse esso per il detto funerale, e a chi ne fusse fatta la divolutione, e come
R. la cera pare a me che fusse otto libbre, e la mandai alla detta Compagnia accio fusse distribuita conforme al consueto
D. Stando accettato fu licentiato con ammonimento e che non paghi i detti funerali senza ordine di SS Rev.ma sotto la pena”.
Le successive deposizioni confermano quanto sopra detto da Francesco e in base alle testimonianze il 23 luglio il Vicario Arcivescovile condannò il Pievano di S. Leonino Lorenzo Carapelli e ordinò di fargli presente che entro cinque giorni “deve haver restituito alla Chiesa di S. Michelangelo di Petroio il cadavere della detta già Caterina moglie di Francesco Sancasciani con la cera distribuita nel funerale di lei, et la spesa di funerali et ognaltro sotto pena di scudi cento ... fino alla scomunica”. Ordinò anche di farsi “Cedola” “quale mandò affissarsi alla porta della chiesa di S. Iacomo di Querciagrossa”.
Il 30 luglio seguente don Lorenzo Carapelli, stante la condanna, era chiamato a discolparsi e comparve dichiarando in sostanza di aver fatto il proprio dovere munito della licenza del Vicario e senza nulla ricavarne “et così con la medesima Compagnia andai con la Cotta, e stola, e con il Crocifisso di detta Compagnia conforme all’obbligo d’un Curato, e detta Compagnia la portò, e la sotterò nella sua Compagnia et io vi ero presente et io non ho pretenso ne pretendo alle ragioni del detto curato di Petroio perché quando un morto lì alla Compagnia a me non mi viene Cera, et quando la morta fu sepolta la cera fu messa insieme e posta sopra ad un altare per darla a chi sarà giudicato da Mons. Vicario Arcivescovile di Siena, e tutto per la verità”.
Il collegio giudicante presieduto dal Nob. Sig. Francesco Andreocci alla presenza dei testi Ippolito Periccioli, et Bastiano Meniconi confermò la precedente condanna e gli vennero assegnati dieci giorni per eseguire quanto doveva. Ma per la restituzione del cadavere il pievano si rivolse il giorno stesso all’arcivescovo con queste parole “… è stato condannato a restituire e riportare il Cadavere alla detta Chiesa di Petroio, il che volentieri eseguirebbe se gli fusse lecito e gli potesse riuscire il farlo, attesoche per essere detto Cadavere di così lungo tempo sepolto non si può onestamente fare però genuflesso avanti V.S. Ill.ma Supplica la medesima che gli vogli far grazia di tal condanna, e liberarlo onninamente dall’eseguirla in detta parte, che quanto al resto sarà paratissimo, il che ottenendo come spera la riceverà dalla clemenza di lei e perpetuamente obbligato gle ne rimarrà”. La lapidaria e ragionevole risposta dell’arcivescovo non si fece attendere e mise fine alla storia: “Concedesi quanto si domanda”. 12 agosto 1644. Erano trascorsi quasi due mesi dal funerale.
La bara
Prima dell’avvento delle bare, come oggi le conosciamo, vi era una portantina detta anch’essa bara o cataletto o feretro, di proprietà della parrocchia o della Compagnia e serviva per trasportare i defunti al cimitero, avvolti in un semplice lenzuolo o sudario, oppure vestiti dei propri panni. Questo strumento funebre aveva quattro bracci e quattro gambe ed era dipinto di nero spesso decorato con fregi d’oro. Alcune compagnie si erano dotate di cataletti artisticamente lavorati e anche dipinti da famosi pittori con soggetti e scene sacre sulle tavole verticali che dividevano il morto dalle aste per i portantini. Il piano sul quale veniva adagiato il cadavere era una rete di forti corde tese. Per coprirlo si usava la coltre o panno funebre di velluto nero o lana dello stesso colore con il centro d’oro e seta gialla e la parte nera ornata con frange.
L’uso del cataletto rimase in vigore, specialmente nelle campagne, fino alla fine dell’Ottocento, come si ricava dalle lettere di don Rigatti, ma anche oltre, poi venne sostituito gradualmente dalla bara di legno chiusa, come stabilivano i vari regolamenti di polizia mortuaria. Per i bambini sotto i sette anni il colore della coltre era bianco. Sia col cataletto che con la bara era usato un guanciale per rialzare il capo del defunto.
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Un cataletto ottocentesco.
Al falegname della zona veniva dato l’incarico di costruire la bara ed egli in poche ore vi provvedeva assemblando tavole rustiche di legno. Anche Brunetto Rossi eseguiva questi lavori, ma alcune famiglie artigiane o contadine per le morti infantili provvedevano da sole. Il 20 giugno del 1875 il correttore don Luigi Regoli all’adunanza degli iscritti della Compagnia proponeva alcuni acquisti per migliorare la qualità dei funerali e degli accessori. Già acquistati due lampioni nuovi a lire 14, essendo gli altri indecenti per le processioni, propose di comprare quanto prima un panno funebre per il trasporto dei “defonti” e una barina o grande paniera per l’associazione, cioè il trasporto, dei fanciulli, più "due funi con cigne per poter con decenza tumulare e Defonti", e la nomina di due Fratelli per le tumulazioni, per non dover ricorre a persone non appartenenti alla Compagnia, né alla Parrocchia. Evidentemente ancora il compito di becchino viene svolto da volontari e uomini del popolo, tardando l’organizzazione comunale. Infatti, ancora nel 1875 "le spese di tumulazione dei cadaveri rimangono a carico del parroco pigliando per i grandi o adulti lire una, per i corpi piccoli cent. 50, e i due fratelli che si presteranno a questo servizio saranno esonerati nell’annuo capitolo e se estratti festaioli dall’intera paga e goderanno l’interi privilegi e diritti di coloro che avevano corrisposto l’intera quota di lire cinque".
Nella successiva adunanza del 16 luglio 1876 venivano inserite nell’inventario della Compagnia una coltre funebre e una paniera con sei manici "per il trasporto degli angeli". Una nota negativa per i funerali, sorprendente per quei tempi, venne dibattuta e risolta teoricamente nella riunione del 14 luglio 1878 e riguardava la partecipazione dei Fratelli ai funerali che stava diminuendo, "e per evitare l’inconveniente verificato più volte di non avere numero sufficiente di fratelli per l’Associazione dei defonti l’onorando priore (Cesare Ticci) propone che da qui d’inanzi uno per famiglia sia sempre presente all’associazione anzidetta; che in mancanza, senza causa giustificata, come di parentele è dovere ogni capofamiglia depositare al camarlengo lire una dando facoltà al parroco di segnare in ogni associazione i mancanti eccetto le famiglie dei luogaioli e pigionali".
Il trasporto della bara con dentro le spoglie del defunto avveniva esclusivamente a braccia e in un solo caso si ricorda l’uso di un carro trainato da bovi. Ai tempi di don Luigi Grandi il giorno del funerale il sacerdote in cotta e stola con l’occorrente per la benedizione, partiva, sempre a piedi, dalla canonica, insieme ai sacrestani che portavano la croce, i due lanternoni e le staffe con le stanghe che la parrocchia possedeva per rendere più agevole e meno faticoso portare la pesante bara. Le due staffe di ferro, come una morsa, la stringevano nella parte bassa e negli occhielli vi venivano introdotte le due stanghe. Questi accessori erano indispensabili per tragitti non sempre agevoli anche di sei, sette chilometri, perché consentivano più equilibrio e saldezza nella presa cosa invece difficile con la sola, levigata bara, le cui quattro maniglie (quando c’erano) poco aiutavano nel tenerla. Il corteo, o convoglio funebre, partiva dall’abitazione del morto o dalla chiesa con la croce e i lanternoni per primi e il sacerdote davanti la bara e dietro di essa, oltre ai più stretti parenti, vi si collocavano gli uomini se il morto era un uomo oppure le donne se era una morta, ma in alcune comunità erano sempre gli uomini dietro al feretro; più portantini si alternavano alle stanghe. La messa funebre per i morti dei poderi della zona di Petroio veniva celebrata nella chiesa di Petroio e da lì portati al vicino cimitero. "Da Sornano, per il funerale di una Rossi si passò il bosco e si traversò a guazzo lo Staggia, risalendo fino alla cappellina di Petroio". Per tutti gli altri la chiesa era quella parrocchiale, da dove ripartivano per il cimitero. Come accennato in una sola circostanza si ricorse al trasporto della bara con un carro agricolo date le condizioni di impraticabilità del terreno, scivoloso dalla pioggia: "Quando morì il vecchio Fosi dei Belvederino nel 1940, col carro si scese al borro verso Belvedere e nella risalita era molle e la bara scivolo e con un tonfo cadde a terra". L’uso del carro agricolo trainato da bovi per il trasporto di un morto era escluso nella maniera più assoluta e vi si ricorreva solo in circostanze eccezionali come avvenne nella parrocchia di Crevole per l’epidemia di spagnola nell’anno 1918, circostanza che abbinata all’assenza di uomini ancora mobilitati costrinse il parroco a prendere un colono col carro e, accompagnato dall’11enne sagrestano Emilio Rossi, partì da Crevole e raggiunse il podere di Poggio alle Monache in mezzo al bosco vicino al Passo del Rospatoio. Benedetta la salma, la caricarono sul carro e attraverso tortuose ma scorcianti strade di bosco, dopo aver percorso alcuni chilometri, raggiunsero Murlo dove la morta venne seppellita.
Di grande disagio i funerali nelle giornate piovose, come rammenta Pierugo: "Con don Luigi si partì per Monastero che già pioveva: un giorno sotto l’acqua con la strada fangosa; specialmente lungo le aste dei lampioni ti colava l’acqua nelle maniche. Ci si riparava alla meglio con qualche cappottaccio. Si partì la mattina e si tornò la sera. Ricordo la stanchezza delle persone che portavano la bara". Una giornata intera ci volle anche per il funerale di un Marri di Gardina. Partirono dall’abitazione e il morto fu trasportato a piedi alla chiesa di Quercegrossa. Dopo le esequie ripartirono a piedi e andarono a Lornano (la sua parrocchia), con passo lento, dove venne tumulato in quel cimitero. A tutti i funerali c’era tanta partecipazione e il corteo si snodava tra strade principali e secondarie accompagnato dalla incessante recita del Rosario. Bruno Sestini ricorda bene quei tre funerali in un solo giorno: uno a Passeggeri, uno a Pietralta e uno a Sornano oppure due di Quercegrossa e uno di Petroio come asseriscono altri. Comunque due messe furono fatte a Petroio e una a Quercegrossa. “Appena bastò un giorno”. Ma l’evento memorabile ricordato da tutti fu l’incidente del camion sulla strada di Petroio. Era il 9 marzo 1937 e il funerale del conosciutissimo Clemente Ciupi detto "Mente" delle Gallozzole era accompagnato come al solito da tutta la popolazione. Il corteo superate le Redi si stava immettendo nella discesa del cimitero quando si sentì il rumore di un camion in arrivo da Vagliagli. Pochi secondi dopo il medesimo apparve all’altezza del madonnino di Petroio e l’autista, vista la processione, cominciò a suonare e sbracciarsi dal finestrino gridando "Posto, posto". Era Orfeo Mencherini che faceva pratica di guida col camioncino e con i freni difettosi era impossibilitato a fermarsi. Nella stretta strada sterrata prima i più vicini poi tutti quanti si gettarono nel bosco o si schiacciarono al muretto del campo di Petroio. Al fuggi fuggi generale non fecero eccezione i portantini, sveltissimi a gettare la bara per terra e mettersi in salvo. Nessuno venne ferito, soltanto Giocondo, della rivendita tabacchi, si disperò per un momento non ritrovando la sora Emilia che dalla paura era finita in fondo al bosco. L’unico "contuso" fu il morto, il poro Mente, che quando riaprirono la bara per il controllo prima del seppellimento, aveva il capo "un po’ torto". Era infatti obbligatorio prima del seppellimento riaprire la bara per l’ultimo controllo da parte del tumulatore comunale e per l’ultima benedizione sul corpo e alla tomba. La cassa era poi chiusa con il coperchio, fissato con tante viti e il becchino con l’aiuto dei presenti e alcune corde, calava la bara nella buca. Era questo un compito svolto in antico dai sacrestani delle Compagnie, aiutati dal popolo, fino a quando furono sostituiti da incaricati comunali a metà Ottocento e completamente esautorati dopo l’unità d’Italia con la nuova organizzazione comunale anche se a Quercegrossa nel 1875 si parlava sempre di sacrestani che tumulavano. Divenuto incarico comunale a pagamento si rammenta la difficoltà nel 1902 a trovare tumulatori, e successivamente si conoscono gli ultimi nominativi di coloro che sono stati i becchini di Quercegrossa. Dell’Ottocento si ricordano i sagrestani Luigi Bernini, Niccolò Sancasciani, Pasquino Landi, Giuseppe e Antonio Sancasciani, Giovanni Becatti, Landi Pellegrino e, l’ultimo menzionato nei verbali, Lucchesi Tommaso che come altri rimase in carica molti anni. Nel Novecento, Valentino Viligiardi era il custode e tumulatore del cimitero nell’anno 1949. Il custode aveva anche il compito di tenere in ordine il cimitero. Si ricordano poi Vasco Volpini e, l’ultimo, Attilio Guideri, dopodiché tale compito passò agli operai comunali.
Tra gli altri pietosi incarichi c’era quello di vestire i morti che i membri della Compagnia hanno svolto da sempre e si ricordano Damino Losi ed Ezio Losi gli ultimi ad aver svolto questa pietosa incombenza.
Era regola generale che i corpi dei Fratelli defunti venissero tumulati negli spazi del cimitero riservato alla Compagnia: poteva essere l’intero cimitero, una parte di esso o l’ossario che di solito si trovava al centro del cimitero o anche all’interno della chiesa. Erano gli ossari grandi buche in terra, in muratura, con una lastra come coperchio dove nell’ultimo secolo vi si depositavano i miseri resti dei morti, esumati dopo una decina d’anni per far posto nel cimitero, ma, come già detto, erano in precedenza usati anche come sepolcri delle Compagnie.
La tragedia di S. Dalmazio
Pur non essendo storia di Quercegrossa, ma di estremo interesse per documentare quanto raccontato fino a ora, si ricorda una tragedia avvenuta nel camposanto di S. Dalmazio della Venerabile Compagnia delle Presentazione di Maria Vergine, il 15 aprile 1719, avendo come officiante del funerale il parroco di Uopini, Gerolamo Guelfi. Egli sul Registro dei Morti della sua parrocchia ha scritto l’espressiva e intensa cronaca: "… coll’occasione di dare sepoltura al cadavere del sopraddetto defonto Giuseppe Romagni seguì l’orrendo caso e funesto accidente, che non ha precedenti in questo secolo e nel contado senese”, aggiunge il parroco. Essendosi aperta la sepoltura (ossario) dove vengono messi i Fratelli della Compagnia, posta di fronte alla porta di chiesa, celebrata la S. Messa dal suddetto e fatte le esequie insieme al parroco di S. Dalmazio, il giovane Domenico Ciatti, sagrestano della detta Compagnia insieme all’altro sagrestano Domenico Quercini, vedovo, entrarono dentro all’ossario "e caddero addosso agli altri morti, affogati dal pestifero fetore di tanti altri cadaveri sepolti in breve tempo ascendenti al numero di 44 così come riferisce il curato Pini e come confermato dai registri della Compagnia". Vedendo i due uomini caduti senza vita nella fossa mortale, i presenti cominciarono a domandare misericordia e piangere per la disgrazia. In particolare la mamma di Domenico Ciatti e i fratelli e nipoti dell’altro Domenico, chiedevano soccorso e aiuto per tirar fuori i due sagrestani dalla fossa. In quel mentre passarono due vetturali che udendo le grida entrarono nel cimitero. Uno di questi era Antonio Vannini mezzaiolo del pievano di Monteriggioni che "mosso da pietoso zelo" e visto dentro la buca Domenico Ciatti, suo nipote, senza pensarci due volte si calò dentro per soccorrere coloro che ormai probabilmente erano morti. Fece la stessa fine. Soffocato dal fetore dei cadaveri si accasciò privo di vita sopra gli altri corpi. Tutti compresero allora che non era possibile entrare dentro la fossa e presi alcuni lunghi bastoni con degli uncini, aggangiarono i corpi e li trassero fuori. Al vetturale Vannini che ancora "palpitava" venne data l’assoluzione e l’olio santo in fronte "per come si sopperisce in tali subbitanei casi". Ai due sagrestani che palpitavano, ma non davano segni di vita, furono impartiti l’assoluzione e l’olio santo "sub conditione". Poi i loro corpi cominciarono a raffreddarsi e furono considerati morti. Morirono per l’esercizio della carità di seppellire i morti. Di questo fatto fu "fatta parte" tanto la Giustizia, dal sindaco di S. Dalmazio, quanto il Cancelliere della Curia arcivescovile di Siena, per mezzo di lettera scritta dal parroco Guelfi. Venne deciso che i tre cadaveri restassero esposti per tutto il tempo previsto dai Sacri Canoni e poi si seppellissero con incarico al parroco Bini. Vestiti i tre sfortunati con le cappe della Compagnia e collocati in tre bare, furono esposti nella chiesa di S. Dalmazio "... ove vi concorse molto popolo della città di Siena, quanto del contado circonvicino a vedere si lagrimevole spettacolo". Alle ore due della notte il curato Guelfi viene svegliato da un famiglio (guardia) e da Daniele Becatti suo popolano, che l’invitavano a presentarsi subito alla chiesa di S. Dalmazio per le esequie, come da ordine di Mons. Arcivescovo e del Magistrato della Sanità. Il parroco si reca immediatamente alla detta chiesa dove trova il Sig. Fancelli, Cancelliere della Sanità, e l’arciprete Tattarini attuario di Curia, i quali gli ratificarono i decreti per l’immediata sepoltura dei tre cadaveri. Gli fecero presente che sarebbe stato opportuno seppellire i cadaveri in buca all’aperto e che era stato scelto il cimitero di S. Martino a Quarto. Il parroco obiettò che non gli sembrava doveroso portare i morti in quel cimitero e a quell’ora notturna, perché si doveva passare davanti alle case dei familiari aumentando così il loro travaglio. Alcuni popolani aggiunsero che essendo il cimitero di S. Martino ripieno di “sassi macigni” era difficile farvi le buche conformi agli ordini prescritti: quando passarono le truppe tedesche e morì un soldato, trovarono grandi difficoltà e poterono fargli la buca soltanto un braccio e mezzo (80/90 cm.) profonda, poi alcuni giorni dopo trovarono il corpo del tedesco scavato e mangiato dai cani. Inoltre, per essere di notte, i becchini dovevano stare molto tempo esposti all’aria insalubre proveniente dal Pian del Lago. Di fronte a tante difficoltà fu presa la decisione di seppellire i tre corpi nel cimitero di Uopini. Il parroco di Uopini, il suddetto Guelfi, non volendo calpestare i diritti degli altri (cioè del parroco di S. Dalmazio), volle l’approvazione degli inviati del vescovo e del magistrato della sanità. E così, a notte alta, il corteo con le tre bare e la partecipazione di molta gente con torce accese e candele "e la croce inalberata precedente ed io curato con cotta e stola nera, per la strada cantandogli i soliti salmi delle Laudi de’ defunti", si diresse alla chiesa di Uopini. Lo accompagnavano il Fancelli, il Tattarini e alcuni famigli che comandavano a tutti di portare zappe, vanghe e pale. Giunti al cimitero di Uopini, deposte in terra le bare furono nuovamente fatte le esequie solennemente cantate da tutti i presenti. Dopodiché il cancelliere della Sanità ordinò che si scavassero tre buche profonde ciascuna cinque braccia per seppellire separatamente i cadaveri. E dopo che furono deposti nelle fosse, queste vennero riempite con sei some di calcina, fatta portare, per comandamento, "da popoli".
Questa pietosa cronaca contiene tutti gli elementi precedentemente descritti sulle sepolture delle Compagnie.
Un altra difficoltà che incontravano le popolazioni nel seppellimento dei loro morti era quella di non aver spazio nel cimitero, spesso piccolo, che ben presto, per l’alta mortalità di certi anni non era sufficiente ad accogliere altri cadaveri. Abbiamo visto che a Uopini si parla di 44 cadaveri in pochi anni e così era anche per le nostre zone e un po’ dappertutto come nella già rammentata lettera del parroco di Monteliscai dell’anno 1710. Una delle manifestazioni della solidarietà verso la famiglia toccata dal lutto, era la partecipazione di quasi tutto il paese alle esequie e per qualche ora sembrava che tutto si fermasse. A questo si aggiungeva la sospensione di ogni attività ludica. Quando c’era un morto a Quercegrossa, la bottega quella sera non apriva al gioco, anzi diciamo proprio che restava chiusa, come avveniva anche ai miei tempi. Al passaggio poi di un corteo funebre, ricordo che negli anni Cinquanta la saracinesca veniva completamente abbassata per alcuni minuti in segno di rispetto. Poi, col mutare dei tempi, negli anni Sessanta venne calata a metà per tutto il tempo della processione. Infine, qualche anno dopo, la bottega rimase aperta, chiunque passasse, corteo funebre o processione festiva.
Il lutto
Un’altra delle più antiche usanze delle famiglie colpite dalla perdita di un familiare è stata spazzata via dal progresso e, dalla fine degli anni Sessanta, completamente dimenticata. Si trattava del segno del "lutto" che ogni familiare portava per ricordare i genitori, il coniuge o un figlio scomparso, ma anche per la morte di parenti meno stretti. Il lutto era un distintivo per comunicare agli altri la propria condizione.
Bianciardi Adamo con la fascia da lutto alla giacca per la morte del babbo Giuseppe, nel 1924.
Da sempre aveva la durata di un anno e in questo periodo non ci si poteva sposare o risposare nel caso della morte del coniuge, e limitarsi nella comparsa nei luoghi di pubblico divertimento, rifuggendo il ballo o lo spettacolo in generale. L’anno di lutto stretto, nel quale le donne di casa si dovevano vestire completamente di nero e gli uomini portare una piccola fascia al braccio o ai risvolti del bavero della giacca oppure un bottone foderato di nero, proprio come un distintivo, era seguito da sei mesi di mezzo lutto. Si abbandonava il nero e il colore dominante diveniva il grigio, “a mezzo” con colori più vivi. Quando l’11 dicembre 1947 morì Ruggero Riversi, alla figlia 17enne Iolanda detta Vaga venne imposto il periodo di lutto: "Annita Rossi mi aveva confezionato una bella cappa per le feste, ricavata da una coperta militare. Era bella calda. Muore il babbo e la mi mamma la mise nel paiolo e la tinse di nero e per un anno vestii di nero, sembravo una bachera. Era la prima cappa che avevo. Dovetti aspettare due anni per averne un’altra nuova". In alcune famiglie la perdita di un familiare veniva ricordata con la recita quotidiana del rosario per molti mesi di seguito. Nel 1940, in casa Rossi muore la mi’ nonna Ersilia, mamma di otto figlioli. Per tutto il periodo del lutto, racconta la zia Piera, “si andò con le mie sorelle a dire il rosario sulla tomba e spesso si recitava anche per la strada cammin facendo. La sera rincasavano gli uomini e si diceva nuovamente il rosario in casa. Poi prima di andare a letto, in camera, ancora il rosario con la mi’ sorella Gina. Una volta non avevo voglia, mi cascavano gli occhi dal sonno: mi fece dormire sul tappeto”.
Commemorazione dei defunti
La commemorazione di tutti i defunti risale al principio dell’XI secolo quando venne istituita dall’abate di Cluny, Odilone, che la fissò al 2 novembre collegandola alle festa di tutti i santi del giorno precedente. Il fatto non rappresentò una novità perché già da tempo in molte chiese locali si era abbinato al culto dei santi quello dei defunti, ma con Odilone divenne obbligatoria in tutti i monasteri benedettini e così in poco tempo in tutti gli altri Ordini. L’usanza si diffuse subito in Europa e poi in Italia, nel secolo successivo. Il 2 novembre divenne così il giorno della pietà e i cristiani lo dedicarono alla visita dei cimiteri, e il mese di novembre al suffragio delle anime. I cimiteri con le tombe ornate da fiori e lumini divennero un momentaneo centro di ritrovo per parenti e amici che tristemente sospiravano sulla figura del caro estinto. Il giorno dei morti, a Quercegrossa, fino agli anni Sessanta si celebrava la messa nella cappellina, sostituita poi dalla recita all’aperto del S. Rosario. Nel primo pomeriggio anteguerra Attilio Bernardeschi attaccava la ciuca al calesse e portava don Luigi Grandi al cimitero di Petroio, con croce, lanternoni e l’occorrente per la messa e la benedizione. Nelle famiglie, davanti alle foto dei familiari scomparsi, tutti i componenti riuniti recitavano il Rosario. In casa Nencioni una grande foto appesa al muro ricordava lo zio Nello morto nella Grande guerra, e verso di essa si rivolgevano tutti, inginocchiati, mentre numerosi lumini messi sulla due panche della tavola illuminavano la stanza. Quella sera non erano ammesse defezioni. "In ginocchio il nonno diceva l’Ave Maria, poi il compito passò al mi’ babbo Giuseppe e dopo al mi’ fratello Delio, quello che morì nella seconda guerra. Si recitavano non uno, ma tre rosari. Alla fine si spengevano i lumini e solo la grande foto rimaneva al suo posto per tutto l’anno. A Cerna s’aveva la cantina distante dalla casa e noi giovanette s’andava a prendere il fiasco del vino per la cena. Ma la vigilia del 2 novembre ci accompagnava una grande paura perché si diceva che quella notte girassero i morti; così si credeva dappertutto e così si credeva anche noi (Ilda Rossi)”.
Il carro funebre
Passata la guerra cominciarono a cambiare i tempi e tra gli anni Cinquanta e Sessanta divenne “quasi a noia portare per chilometri e chilometri i morti a spalla”, con la perdita di mezze giornate. Incominciò quindi a diffondersi anche nelle campagne l’uso dei carri funebri a motore. Quando venne costituita la Misericordia di Quercegrossa nel 1951 uno dei primi passi fu ricercare un’intesa con quella di Uopini, per il noleggio del carro funebre. Purtroppo non si addivenne a nessun accordo e per alcuni anni si continuò con il vecchio sistema a spalla. Poi, concordato con la Misericordia di Siena, il servizio col carro funebre divenne continuativo con trasporto gratis per le famiglie associate e con forte sconto per le altre. Il trasporto a spalla scomparve del tutto.
La Misericordia di Quercegrossa
La questione del carro funebre ci fa parlare dell’altra associazione di assistenza sorta a Quercegrossa nel 1951: la Misericordia. Affiliata a quella di Siena, fu costituita ad esempio di tante altre sorte nelle parrocchie rurali. Mentre le Compagnie svolgevano il loro compiti devozionali e funebri, le Misericordie nacquero con l’intento di dare assistenza sanitaria alla popolazione, sia attraverso gli armadietti farmaceutici che con il sostegno dei soci infermieri, specializzati da corsi tenuti appositamente, ma soprattutto iniziare un servizio efficace di autoambulanze tra l’ospedale e le campagne, senza aggravi per le famiglie. La Misericordia fu costituita nel 1951 e si propose subito con la nomina del Consiglio ed eleggendo come presidente il promotore Silvano Socci, il quale mantenne la carica fino ai giorni nostri. Giorni che hanno visto un rinnovato interesse verso la Confraternita dopo anni di quiete. L’iniziale attività venne finanziata da una fiera di beneficenza e una recita organizzate in parrocchia che fruttarono 40.146 lire, e da una successiva lotteria con un incasso di 1.930 lire. A queste entrate si aggiunse l’introito delle tessere sociali, del costo di lire 100 a testa. Le iscrizioni raggiunsero subito le 150 unità. La riscossione delle quote sociali venne abbinata, dal 1952, a quelle della Compagnia, il giorno della festa di S. Antonio essendo Armando Masti cassiere di entrambe le associazioni. Questa sinergia tra Compagnia e Misericordia si era già avuta in altre parrocchie molti decenni prima e uno dei tanti esempi si ebbe a Brenna quando la Compagnia di S. Michele Arcangiolo si era trasformata, negli anni Venti del Novecento, in Confraternita di Misericordia sommando le specifiche attività di tutte e due le associazioni, unendo quindi al trasporto dei defunti, la vendita di medicinali, la spesa degli stangoni per portare la bara e l’acquisto di una borsa per il ghiaccio. Tornando a Quercegrossa, furono stampate tessere e statuti per i soci, con una spesa di 10.300 lire. Inoltre si fece cucire uno stendardo per la rappresentanza dell’Associazione che da allora viene portato dal presidente a tutte le manifestazioni civili e religiose, che ne vede l’adesione. Per concretizzare subito i buoni propositi si organizzò immediatamente un corso di pronto intervento, con buona partecipazione di soci e socie. Tenuto in parrocchia, comprendeva lo studio di anatomia e pratica di pronto soccorso spiegati da personale specializzato della Misericordia, per i quali si dovevano sostenere le spese di trasporto a Quercegrossa effettuate in taxi o dal Mencherini. Il superamento dell’esame finale con una votazione tra 25 e 30 dava il diploma di infermiere. Frattanto si procedeva all’acquisto di medicinali di pronto intervento, con una spesa iniziale di 10.000 lire per rifornire gli armadietti farmaceutici di Quercegrossa e quelli dislocati alla Magione, Gallozzole e Passeggeri. L’uso dei medicinali avveniva a prezzo scontato. Fin dai primi tempi le famiglie utilizzarono il trasporto gratuito dei malati all’ospedale e il primo beneficiario risulta essere lo Starnini delle Gallozzole che costò all’Associazione 927 lire, tanto era il prezzo di un viaggio della Misericordia. L’unico neo dei primi tempi si ebbe, come detto, con la questione del carro funebre che soltanto dopo anni venne risolta. Se il quadro sociale del dopoguerra favorì dapprima la nascita e lo sviluppo della Misericordia, dopo alcuni anni ne ridimensionò i programmi a causa delle tensioni politiche, non dimentichiamoci l’origine cattolica dell’iniziativa, dello spopolamento delle campagne e la motorizzazione che fecero perdere importanza agli armadietti farmaceutici e in generale costrinse l’associazione a vivacchiare e assistere soltanto per i viaggi della Misericordia e poi del carro funebre. Tuttavia non dobbiamo dimenticare il sostegno che l’associazione ha dato a tante famiglie in tempi difficili, sollevandole da spese e preoccupazioni in momenti di dolore e afflizione.
Una Confraternita dimenticata
Il 24 settembre 1708 nella chiesa di Petroio, alla presenza del M. R. Pier Guglielmo Pientini sacerdote da Corsignano e di Domenico Doccini da Belvedere, come testimoni, e Annibale Palagi come attuario della Curia di Siena, veniva ufficialmente approvata l’erezione della Confraternita della Beata Maria Vergine del Carmelo nella Chiesa di S. Michele Arcangelo a Petroio, annesso della Chiesa di Quercia Grossa. Avevano partecipato alla riunione anche Giovanni Doccini e Giovanni Maria Masini in qualità di Priore e Camarlengo della detta confraternita, con l’intervento di Anton Maria Lucchi parroco di Quercegrossa e correttore della erigenda Confraternita. Tutto era nato quando alcuni abitanti di Petroio e dintorni avevano richiesto l’erezione di una confraternita a maggior gloria di Dio e a onore della Gloriosissima Vergine Madre Maria, per svegliare ed esercitare devozione verso la medesima Vergine del Carmine. Essendo la protettrice scelta dagli uomini di Petroio "la Madonna del Carmelo", con il consenso dell’Arcivescovo Leonardo Marsili si supplicò il Priore generale dei Carmelitani, frate Angiolo da Gambassi, che permettesse ed "ereggesse" la detta Confraternita con tutte quelle grazie spirituali e privilegi che sono solite concedersi in questi casi. La richiesta era stata accolta e un Breve proveniente da Roma il 14 luglio 1708 stabiliva le condizioni per detta erezione. Condizioni che vennero accettate dai reggitori della Confraternita in quel 24 settembre a Petroio, e così si spiega la presenza di tanti personaggi in quella chiesa. Le condizioni stabilivano che qualora l’Ordine carmelitano avesse eretto nei dintorni di Petroio nel raggio di tre miglia, una chiesa od oratorio, la confraternita non si sarebbe opposta in alcun modo, e si sarebbe immediatamente trasferita con i suoi beni mobili e immobili nella nuova chiesa, senza richieste o istanze. L’arcivescovo di Siena concesse la licenza alla detta comunità e agli uomini di obbligarsi, per sé e per i loro successori nella Confraternita, all’osservanza delle norme contenute nel detto Breve. E ciò è quello che fecero come ultimo atto per l’approvazione. Esiste un unico documento che parla di questa Confraternita, della quale nient’altro sappiamo se non che una nota a margine, scritta anni dopo, ci dice che venne traslata nella chiesa di Quercia Grossa.
Un Uffizio a S. Stefano
E’ la cronaca di una giornata di preghiera e liturgia a Santo Stefano per il popolo dell’antica parrocchia che comprendeva anche Larginano, il Castellare e Macialla. Siamo a fine Seicento, ma si potrebbe essere benissimo a metà Novecento che l’usanza è sempre la stessa. “A dì 26 febbraio 1673, nella cappella della venerabile Compagnia del SS. Rosario in S. Stefano alla Ripa, annesso di S. Giovanni Evangelista a Basciano, si cantò l’uffizio per l’anime de’ fratelli e sorelle di detta Compagnia, celebrarono li seguenti sacerdoti nella sopraddetta cappella per l’anime de’ fratelli e sorelle defunte:
1 - Io Alberto Alberti, Curato di Basciano ho celebrato in detta cappella
2 - Cristofano Bizzarri cantò la messa (curato di Uopini)
3 - Io Alessandro Girolami hò celebrato in detta cappella (curato di Quercegrossa)
4 - Io Giovanbattista Mazzoni ho celebrato, come sopra
5 - Io Bernardino Vieri, Pievano di Lornano hò celebrato
Ricordo come a dì sopraddetto et anno si è cavato da Francesco Lippi camarlengo di detta Compagnia lire 8, soldi 6.8 per dare l’elemosina e fare la refettione a soprascritti sacerdoti che hanno celebrato e cantato Loffizio come sopra, e due benefattori hanno donato due fiaschi di vino”.
Oltre agli uffizi spettanti di diritto a ogni Fratello o Sorella defunti della Compagnia, vi erano le celebrazioni pagate dalle famiglie a suffragio dei propri morti e, come si ricava dalla vacchetta degli Uffizi iniziata da don Luigi Grandi nel 1908 e terminata con don Ottorino nel 1955, questi uffizi per il suffragio all’anima avevano una ben precisa data incominciando dal "die obitus", ossia il giorno del seppellimento, poi vi era in "die tertia" oppure in "die septima" o in “die trigesima”, cioè il trentesimo giorno dalla sepoltura. Successivamente, oltre agli uffizi, si applicavano le messe singole alla memoria dei propri morti. L’uffizio a pagamento vedeva la celebrazione di un numero variabile di messe che andavano da due a sei ma potevano toccare anche le otto. Per fare un esempio il 6 novembre 1911 si celebrò l’uffizio "in die obitus" per Amabile Bruni in Mencherini morta il giorno 4 novembre precedente, con 4 messe dette da don Luigi Grandi, don Posticci, don Calamati e don Lunghetti. L’11 novembre successivo la famiglia fa celebrare un secondo uffizio "in die septima" con sette messe celebrate dai suddetti preti ai quali si aggiunsero don Alessandro Muzzi del Poggiolo, don Alcibiade Pacini di Vagliagli e don Fallaci. Infine il 5 dicembre 1911 uffizio di "trigesimo" con otto messe. Molto diffuso in quegli anni l’uffizio in "die obitus" rimase in uso anche negli anni Cinquanta del Novecento per poi scomparire ed essere sostituito dall’uffizio nell’anniversario della morte, con le messe che si stabilizzarono mediamente a tre. Naturalmente non tutte le famiglie facevano come i Mencherini, ma comunque elevato era il numero annuo di queste ordinazioni e guardando le statistiche di anni sparsi ne risultano 9 nel 1910; 46 nel 1920, con diversi che interessano i caduti della guerra; 26 nel 1946 e 18 nel 1954, con tendenza a diminuire e infine a cessare del tutto. In tutti questi detti anni si dicevano uffizi "per i nostri defunti", quelli "per l’anime dei parrocchiani morti in guerra" e un particolare uffizio annuo "per i nostri defunti, detto delle Confessioni".
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