La soppressione delle Compagnie - 1785
Ho già accennato all’anno 1785 e alla grave decisione presa dal Granduca di sopprimere tutte le Compagnie, nessuna esclusa, ma nello stesso tempo la legge prevedeva la ripristinazione di compagnie di carità che dovevano sorgere dalle ceneri delle precedenti. Non è difficile comprenderne le motivazioni, comunque le ragioni furono molteplici e non va sottaciuto il fatto che molte di dette congregazioni erano venute meno ai loro originari compiti, essendosi trasformate in organismi amministranti beni, lasciti ed elemosine. Titolari di belle chiese ed oratori, vivevano in piena autonomia. Il Granduca Pietro Leopoldo emise il decreto di soppressione il 21 marzo 1785, nel quale si configuravano i motivi di tale decisione, precisando che
“il servizio che si presta nelle chiese parrocchiali, e nelle altre più che esistono nelle Città, e luoghi popolari, danno tutta la libertà e comodo di soddisfare in tutte le ore del giorno ai doveri della religione”. Ribadiva inoltre che le adunanze, messe e preci, fatte nelle chiese delle compagnie distoglievano il popolo dall’intervenire dalle funzioni parrocchiali, dall’ascoltar il Vangelo, dal Catechismo e dalle Morali Istruzioni in genere che sono una parte essenziale della religione e i doveri più importanti di ogni cristiano. Così
"…il numero eccessivo in cui sono aumentate quelle società, specialmente nella città di Firenze, gli abusi che vi si sono introdotti e l’inutilità della massima parte nelle attuali variate circostanze di tempi, impegnano le nostre paterne cure ad un generale provvedimento". Metteva anche in rilievo che ormai era venuto meno il primitivo intento delle associazioni, ed essendo diventate, invece di adunanze di edificazione e carità, luoghi di scandalo per le disunioni, le liti, per l’attacco all’interesse, per i maneggi alle collazioni, per l’indipendenza dei curati, per le spese inutili e il lusso, per l’improprietà dei pranzi e per l’indecenza dei luoghi di culto. Stando così le cose si comprende facilmente come la Chiesa, attraverso i suoi vescovi, abbia accettato passivamente il decreto granducale che finiva per sanare una situazione che probabilmente era sfuggita loro di mano. Dal momento della pubblicazione del bando nelle varie comunità si dovevano considerare soppresse tutte le Compagnie, Congregazioni, Congreghe, Centurie e Confraternite di qualsiasi nome, secolari o religiose, di donne o di uomini così ogni Terzo ordine di qualunque sorta che da quel giorno dovevano cessare ogni attività.
Agli amministratori dei Patrimoni ecclesiastici era dato il delicato compito di entrare immediatamente in possesso di tutti i beni delle Compagnie che comprendevano chiese, case, libri, arredi sacri e fondi, avvalendosi nelle campagne, se necessario, dell’aiuto del Cancelliere comunitativo. Dovevano sanare i bilanci con la pronta vendita dei beni, ed esigere i crediti. Tutti gli immobili dovevano essere immediatamente stimati e venduti. Gli arredi sacri di dette Compagnie, dopo inventariazione, dovevano passare alle chiese più bisognose. Dava disposizione inoltre sui beni dotali e sussidi che passavano al Patrimonio ecclesiastico che li avrebbe gestiti senza maneggi col concorso dei parroci e dei giusdicenti locali. Una volta appurato il patrimonio delle Compagnie, ogni avanzo doveva passare al Patrimonio ecclesiastico e impiegato, con ogni altra rendita di questi beni, per l’aumento della congrua ai curati delle chiese povere della diocesi di competenza, secondo la proposizione dei vescovi. Considerando però l’utilità di una associazione in ogni parrocchia, all’editto di soppressione era allegato quello per l’erezione delle nuove Compagnie di carità che dettava le norme per la loro attivazione, con tutte quelle condizioni e limitazioni che di fatto superassero la precedente critica situazione. Infatti, dal 1 maggio, ordinava che in ogni parrocchia del granducato sorgesse una sola confraternita dipendente direttamente dal rettore che ne sarebbe stato il Correttore. Ognuna di queste associazioni doveva assumere il titolo dei protettori della parrocchia, non possedere chiese e oratori né patrimoni da amministrare. Soltanto i parrocchiani ne potevano far parte, partecipando a quelle attività caritative da rivolgersi ai malati, morti e bisognosi. Tutto doveva avvenire a norma dei capitoli generali validi per tutti. Nella sostanza la nuova Legge sulle Compagnie le riduceva fin quasi ad annullare la loro personalità nelle parrocchie, e solo col tempo furono riattribuiti simboli e funzioni. Infatti, il nuovo regolamento dava la possibilità a tutti di aderire senza essere messi ai voti, nessuna croce, stendardo o bandiera doveva distinguere la Compagnia, ma seguire solo quello della Cura, né avere feste particolari né tornate o funzioni. Si proibiva persino di fare l’uffizio delle quattro messe per ogni Fratello deceduto, ma soltanto ogni prima domenica del mese, dopo il vespro si poteva celebrare l’uffizio per i Fratelli defunti. Restava concesso l’uso delle cappe in chiesa e nelle processioni per le feste. Seguivano le regole per l’organizzazione delle nuove Compagnie e per la loro ricostituzione era dato incarico a quattro persone probe, scelte dal parroco. Successivamente, con l’estrazione a sorte fra tutti i Fratelli, sarebbero state attribuite tutte le cariche capitolari. Nella prima borsa dovevano essere messi soltanto i nomi dei maggiori di 26 anni che sapevano leggere e scrivere e dalla quale sarebbero usciti il Governatore, il Primo Consigliere, il Camarlingo e i Buonuomini. Molto spazio era dedicato a quello che secondo il legislatore era il primario compito delle associazioni: l’assistenza ai poveri. Questo compito era affidato ai Buonomini, e ai poveri, che vengono divisi in quattro categorie, si aggiunge l’infanzia abbandonata. Un capitolo a parte è riservato alle concessioni delle doti matrimoniali alle ragazze povere delle parrocchie. Venne anche introdotto il principio del sussidio o paga per un "servo", al quale era assegnata la cura delle cose della Compagnia e della Chiesa parrocchiale, della loro pulizia, la custodia delle cappe e del cataletto, suonare le campane, avvisare ecc.
Si trattò in definitiva di una grossa potatura ormai necessaria. Il provvedimento mise fine ad una intensa attività religiosa pubblica, che aveva trovato nel Settecento la sua massima espressione. Ma quel che più conta l’opera assistenziale non venne meno e nell’arco di vent’anni molte Compagnie erano ripristinate e si riappropriarono di facoltà loro negate in un primo tempo dalla legge. Anche la nostra di S. Antonio entrò nella lista delle soppresse e l’ultimo camarlengo chiuse i conti.
Il magnifico Antonio Ticci, camarlingo dal 29 giugno del 1783 fino al marzo 1785, tempo della soppressione, stilò l’ultimo bilancio in cui figuravano le solite voci di cassa.
Al momento della sua nomina ricevette dal predecessore Giuseppe Marzi lire 164.3.4 prodotte dall’accatto del grano. Nel 1784 riscosse da Fratelli e Sorelle per i capitoli della festa lire 77.6.8, il che ci porta a considerare che il numero degli iscritti, con 10 soldi di tassa a testa, raggiungesse i 150. Il 21 giugno di quell’anno spendeva in grano per fare i panini lire 13.-.4 e per l’uffizio dei defunti lire 18. Infine per le tornate in ogni domenica del mese lire 12. Fatte le somme, rimanevano in cassa al 2 settembre 1784 lire 163 e soldi 16 che il Ticci consegnò all’entrante camerlengo Isidoro Bozzoli, il quale però non ebbe tempo di gestire né entrate né uscite. Fu, come prevedeva la legge, fatto l’inventario dei beni e venne stilata una nota dei paramenti sacri, arredi e utensili che erano le uniche e misere proprietà della Compagnia, proprietà che si ricavano da due elenchi diversi:
sei candelieri verniciati di celeste, croce e cartegloria simili;
due tovaglie da altare e una tendina gialla di drappo di seta per coprire il quadro di S. Antonio;
uno stendardo in tela esprimente da una parte S. Antonio e dall’altra S. Jacomo;
numero ventidue cappe di tela nera, otto della quali lasciate dal Nob. Sig. Tiberio Seggardi alla nuova Compagnia di S. Iacomo e Niccolò a Quercegrossa (la nuova associazione prevista dalla Legge, ma non ancora costituita);
una banda di broccatello per la croce;
due lanternoni di latta (vecchi) e due mazze.
La lista descritta non comprendeva altri oggetti di proprietà della Compagnia presenti all’altare di S. Antonio nel 1774.
Tutte gli elenchi inventariali finirono sul tavolo dell’ arcivescovo che, come previsto, riciclò tutti gli arredi alle parrocchie che ne avevano fatta richiesta, dando all’Amministratore il potere della distribuzione dopo un preventivo spurgo dei materiali inservibili
"che danno solo imbarazzo alle sacrestie", con la facoltà di disporre come voleva di quelli avanzati perchè non richiesti, a profitto della cassa di Religione. Tra le pretendenti non poteva mancare la parrocchia di Quercegrossa, e il curato don Sebastiano Borselli inviava all’arcivescovo un elenco di voci per integrare gli arredi mancanti o insufficienti:
"Robba delle soppresse Compagnie della quali avrebbe bisogno la parrocchia di S. Iacomo a Querciegrossa: tovaglie numero quattro; cotte numero quattro; calici numero uno; stole pavonazze; pianeta bianca; pianeta pavonazza e l’ombrello per la comunione”.
Tutto questo movimento ebbe come esito finale un risultato parzialmente soddisfacente e nel palazzo arcivescovile il 26 luglio 1786 l’arcivescovo Tiberio Borghesi e il Cancelliere Palagi firmavano il documento che assegnava alla nostra parrocchia alcuni arredi, dopo aver in precedenza confermato la proprietà di quelli dell’ex Compagnia di S. Antonio. Dalla Compagnia del Beato Ambrogio Sansedoni arrivarono una portiera di rigatone a fiamme con ferro (una tenda), un campanello di bronzo, un crocifisso grande di legno, croce di legno e iscrizione dorata, una pianeta di cataluffa bianca con trina d’oro, una pianeta di cataluffa nera con gallone di seta nera e bianco, due guanciali di damasco con gallone d’oro falso, due guanciali di damasco verde, sei candelieri mezzani, croce e crocifisso con piede d’ottone, sei candelieri d’ottone da mensa, un secchio di rame da lavare le mani, tre berrette da preti, due vasi grandi di legno con rame di fiori, un camice di tela, un camice di panno lino, due amitti e due cordoni. Dalla soppressa Compagnia di S. Domenico in Campo Regio pervennero due corporali, due palle, quattro fazzoletti, due purificatoi, un calice con coppa e piede e patena d’argento. Di tutte le richieste fatte da don Borselli solo il calice e una pianeta bianca corrispondevano. Il resto era tutta roba in più che venne, si può dire, attraventata alle parrocchie.
L’inventario delle robe della Compagnia di Quercegrossa ci dà l’interessante notizia che le cappe portate dai Fratelli erano di colore nero. Dopo la ripristinazione si cambieranno in bianche in quasi tutte le compagnie con eccezione di quelle particolari che hanno differenti colori. La cappa era il simbolo di appartenenza alla Compagnia e portarla significava aver aderito in pieno al suo spirito e non a caso si indossava il giorno dell’accettazione, come un rito di vestizione con tutti i suoi significati. La cappa antica era dotata di cappuccio più o meno accennato detto "buffa" che doveva rendere anonimo l’operatore di bene. Ogni colore distingueva l’appartenenza a un tipo di confraternite: l’azzurro era il colore della cappe delle confraternite mariane; il nero di quelle della Buonamorte e di altre con gli stessi fini, tutti colori carichi di significati. Altre vestivano di verde o di rosso, altre di grigio o color tabacco tipo abito cappuccino. Interessante è anche la nota che attribuisce alla proprietà della Compagnia il grande quadro dei protettori S. Giacomo e Niccolò.
Le rigide regole dettate dal Granduca per l’erezione delle nuove Compagnie furono negli anni modificate per ridare vigore alle stesse che evidentemente stentavano a riproporsi desiderando i vecchi adepti recuperare in pieno il nome, usanze e quindi l’identità. Comunque le prime ripristinazioni risalgono al 1791.
La ripristinazione
Anche a Quercegrossa, quindici anni dopo, l’arcivescovo Zondadari il 26 settembre 1800 autorizzava la ripristinazione della Compagnia di S. Antonio da Padova nominando Priore provvisorio il Sig. Giovanni Pasquini, confermato poi nella prima adunanza del Capitolo tenuto nella chiesa di Quercegrossa alle ore 9 della mattina di venerdì 26 settembre 1800. Convocata la riunione dal parroco e Correttore don Francesco Bianciardi, vide la partecipazione di 33 Fratelli che furono chiamati ad eleggere gli uffiziali. Venne confermato con votazione il Priore Giovanni Pasquini, con 30 voti favorevoli e tre contrari, fino alla domenica dopo l’ottava della festa di S. Antonio del 1802. Si passò poi all’elezione del Vicario nella persona di Luigi Ticci che ottenne 28 lupini bianchi e 5 neri. La carica di vicario, prevista dalla nuova legge, non verrà confermata successivamente. Dopodichè si elessero i Consiglieri che mandati a partito ottennero voti favorevoli e così Francesco Fusi fu Primo Consigliere e Bartolomeo Brogi Secondo Consigliere. Proposto poi Michele Fusi come Camerlengo, ottenne 29 favorevoli e 4 contrari, risultando eletto. Chiusa la parte elettiva, il nuovo Priore propose che ogni Fratello o Sorella aderente alla Compagnia pagasse annualmente un Capitolo o Tassa di dieci soldi ciascuno, e che alla morte di un iscritto si celebrassero quattro messe di suffragio. Le proposte messe ai voti ottennero 31 favorevoli e 2 contrari.
Da questo storico giorno la Compagnia riprese ufficialmente la sua attività e tutto venne verbalizzato da don Bianciardi nel nuovo registro che reca il titolo in prima pagina di copertina
"Libro delle deliberazioni della venerabile Compagnia di S. Antonio da Padova a Quercegrossa". Questo registro, acquistato presso la Cartoleria e libreria Mazzi
"In faccia alla Posta delle Lettere In Siena" al prezzo di lire 1,50, contiene scritte sulle sue pagine di carta rigata genovese quasi tutte le deliberazioni della Compagnia dal 1800 al 1878, mancando alcuni anni che sono andati persi per essere i verbali fatti su foglietti. Alcuni di questi sono stati riportati successivamente. La documentazione dell’Ottocento è soddisfacente anche per esser stato conservato il registro di cassa, oggi all’Archivio Arcivescovile di Siena, il quale riporta le entrate e uscite, e ricevute di conti che ci forniscono particolari importanti e anche curiosi della nostra associazione.
Dopo questi anni così ben documentati subentra un vuoto di circa trent’anni essendo andata persa ogni memoria cartacea di quel periodo. Si riparte così dal 1909 con il registro
"L’amministrazione della Compagnia di S. Antonio di Quercegrossa" che riporta gli annuali conti fino al 1968, e termina con la partenza di don Ottorino Bucalossi. Si conservano inoltre tutti i registri del pagamento dei Capitoli, che vanno dal 1915 ai giorni nostri. Un vuoto, quindi, che riguarda un lasso minimo di tempo nell’attività della Compagnia, ma col materiale a disposizione possiamo farci un’esauriente idea di come era organizzata e quali fossero le sue funzioni principali di quegli anni, senza dimenticare che queste associazioni, nonostante la riforma, avevano mantenuto una forte continuità col passato. Leggendo i suddetti registri si entra in un’atmosfera paesana vitale e solidale, con i suoi momenti di culto, ma anche con giornate di festa dove tutta la popolazione partecipa accanto al parroco e ai sacerdoti, e dalle cose minori traiamo quella realtà che fa diventare il passato, presente: le votazioni per le cariche, i personaggi, la lista delle vivande per il pranzo della festa, la processione, tutto diventa vivo e reale.
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