Accattani
Un altra figura importante era quella degli accattani, ossia coloro che si recavano ai poderi in cerca di grano. Un ruolo svolto da sempre da alcuni Fratelli, ma che viene fin dal 1800 istituzionalizzato. Se ne parla la prima volta in Capitolo nel 1812 quando è deliberato di dargli un Pavolo per ogni staio di grano che trovassero, coll’intento di incentivare la loro cerca visto che in qualche anno il grano era stato insufficiente. Avevano il diritto al desinare il giorno della consegna ed erano esentati dalla tassa del capitolo e dal 1847 potevano partecipare al pranzo della Compagnia.
Diventano inoltre oggetto di nomina da parte del Capitolo dei Fratelli e nel 1847 si fanno i loro nomi in numero di
"quattro accattani per la cerca del grano": Pianigiani Filippo - Sancasciani Sabatino - Landi Angiolo - Taliani Santi. Nel bilancio del 1805 si registrano un’uscita
"Per gli accattani del grano, lire 6" ed una curiosa entrata di lire 4 ricavate da
“uno staio di mescolo fatto di rifatture con un po’ di biada fatte dall’accattano Bonci l’anno passato”. Le mansioni dei festaioli e degli accattani devono essersi fuse nel Novecento e a memoria d’uomo esiste soltanto il ruolo dei festaioli con l’incarico di raccogliere elemosine dalle famiglie e grano presso i contadini.
Accatti ed elemosine
Il grano raccolto era utilizzato per la confezione del pane per la festa, e quello avanzato veniva venduto costituendo così un’ulteriore voce di entrata. Altri soldi provenivano dalla cassetta delle elemosine raccolte in chiesa nella Tornata della quarta domenica di ogni mese e il giorno della festa. La somma messa insieme nell’anno non era rilevante e variò dalle 3 alle 5 lire dei primi tempi fino alle 10/15 lire di metà Ottocento. Questa entrata ricompare in bilancio nel 1916 e registrata come
"Accatti fatti" con soli 57 centesimi che però saliranno a 7,81 lire nel successivo bilancio e per triplicarsi poco dopo. Registrati come accatti alle funzioni e alle messe, questi soldi andranno progressivamente ad aumentare e nel 1939 assommeranno a oltre 100 lire, un quinto di tutte le entrate. Dopo guerra l’accatto fatto dai festaioli rappresenterà una importante voce di bilancio.
Per quanto riguarda il Novecento si nota dal 1908 una diversa impostazione della raccolta del grano che viene acquistato e poi rivenduto con un discreto guadagno. In quell’anno vennero rimessi il 21 luglio da Modesto Boddi logaiolo di Quercegrossa 28 staia di grano a lire 1,60 lo staio, e rivenduti il 5 novembre 27 staia a lire 15 lo staio per un utile netto di lire 90,20. Queste rimesse di Modesto, che dovrebbero riferirsi al grano della cerca pagando una quota al contadino, continuano fino al 1920 registrando in quell’anno un utile di 170 lire. Poi cessano i compensi ai contadini e il grano accattato, che si riduce della metà, viene direttamente venduto al mugnaio Masti che paga un prezzo leggermente inferiore al mercato. L’ultima registrazione risale al 1939 con soltanto 13 chili e mezzo venduti con incasso di lire 20,40. La guerra mise fine agli accatti e bisogna andare al 1947 per trovare 51 kg. di farina che diventeranno 70 kg. nel 1948, raccolta per fare i panini. Da allora e per vent’anni la farina ricevuta sarà destinata a quel fine, sostituendo parzialmente la raccolta del grano. In un foglietto volante del 1957/58 sono segnati i nomi di famiglie, non solo contadine, che in numero di 41 hanno dato la "Farina portata per i panini di San Antonio". Questo sistema rimase in vigore fino agli anni Sessanta quando la raccolta di poche staia entrò nella voce
“Capitoli e accatti”.
Le Uscite della Compagnia
Fin dagli inizi costituiscono le principali voci di spesa: le limosine ai poveri, gli uffizi per i defunti, le onoranze a S. Antonio e la refezione per i sacerdoti e festaioli il giorno della Festa e, una domenica al mese, la cosiddetta Tornata, per la celebrazione delle funzioni. Nel ricordato consuntivo del 1785 sono elencate le spese per le Tornate, per le celebrazioni dei defunti e la spesa del grano per fare il pane. Quest’ultima voce intesa come compera del grano, quando non fosse sufficiente quello dell’accatto, si ripresenta soltanto nel 1803 con l’acquisto di staia 2 a lire 11.10 lo staio per una uscita di lire 23.
Dopodiché, la spesa per il grano riguarda esclusivamente la quota agli accattani che giravano per i poderi e ritiravano il grano, la macinatura, la confezione dei pani che, come appare evidente fin dal 1803 si ricorre a Siena, e il trasporto di essi. Infatti risulta una spesa per la
“quocitura e fattura” del pane e trasporto al fornaio di lire 8 che nel 1806 viene suddivisa in lire 6.13.5 per quanto detto, e lire 1.2.8 "Spesi per gabella della farina mandata a Siena per fare pane per la nostra Compagnia". Nel 1813
"Per fattura di pane al Vitellozzi"spese lire 8. La macinatura del grano avveniva certamente al mulino di Quercegrossa e nel 1803 comporta una spesa di lire 2.13.4
"Pel grano macinato fin dall’anno scorso" e ancora nel 1820 si spendono lire 2
"Per straporto di grano e farina fatto da casa al mulino". Compare nel 1815 un piccolo esborso di lire 1.13.4
"Per bozzolatura di sei staia di grano". Negli anni seguenti questo genere di spesa confluisce nella voce descritta come
“pane per i fratelli” che nel 1829 appare così dettagliata:
“19 giugno - per n° 180 pani per i fratelli lire 30; per n° 90 pani per le sorelle lire 22.10; per n° 16 pani per i discepoli del Giovedì santo lire 6.13.4; Per n° 21 corolli per i suddetti lire 1.13.4”. Dalle ricevute dei fornai rilasciate ai vari camarlenghi, relative al periodo 1830-1852, possiamo farci una precisa idea della grandezza del pane consegnato e del suo costo. Il forno Manetti nel 1830 consegna un conto complessivo di lire 68.16.8 per 16 pani del peso di circa 270 grammi ciascuno a soldi 8.4 l’uno per lire totali 6.13.4; 20 corolli per un importo di lire 1.13.4; n° 180 pani di circa un etto ciascuno a soldi 3.4 per una spesa di lire 30; altri 90 pani di grammi 160 a 5 soldi per un importo di lire 22.10; infine 16 pani di tre etti e mezzo a 10 soldi l’uno (mezza lira) che fanno 8 lire. Nel detto periodo il totale speso presso i fornai rimane pressoché invariato, andando leggermente a diminuire negli ultimi anni, mentre il peso presenta delle eccezioni negli anni 1847 e 1851 quando vengono fatti confezionare tutti pani di mezzo chilo. Il prezzo dal fornaio subisce una forte diminuzione scendendo a meno di 4 soldi la libbra (339 grammi).
Proseguendo tra le varie voci di spesa osserviamo che dalla ripristinazione del 1801 non comparisce mai come voce di spesa l’elemosina per i poveri o qualche dote per le fanciulle ma tutto sembra rivolto al suffragio dei defunti e alla Festa della Compagnia.
Spese di culto
Le spese di culto erano articolate in diversi momenti dell’anno comprendendo la celebrazione in ogni quarta domenica del mese, quella del giorno della Festa con processione, l’Uffizio generale per tutti i defunti della Compagnia il giorno successivo, e le messe per gli eventuali defunti. Da tenere presente che ad ogni evento si abbinava sempre il costo della cera delle candele o ceri che si usavano per la liturgia. In riferimento alle messe per i defunti sappiamo che fin dal 1801 furono stabilite in numero di quattro da celebrarsi alla morte di un Fratello o Sorella, ma qualche decennio dopo, nel 1841, si addivenne a una leggera modifica che, fermo restando le quattro messe, si deliberò di celebrare un Uffizio per ciascun defunto della Compagnia. La differenza consisteva nel celebrare tutte le messe contemporaneamente o almeno nella stessa mattina, invece che in giorni diversi. Le messe degli uffizi vennero ridotte a tre nel 1923. L’uffizio solenne, con catafalco del morto, veniva celebrato da più sacerdoti, qualche tempo dopo la morte. Gli ultimi uffizi si ricordano verso il 1959/60. La mattina verso le otto, un prete ad ogni altare celebrava la S. Messa alla presenza di pochi fedeli, per lo più donne della famiglia del morto. Noi, insonnoliti sacrestani, si faceva il possibile per tutti e tre i sacerdoti. Il catafalco, montato con le panche che solitamente si trovavano a fianco dell’altare e altre prese nelle stanze, ricoperto dal grande drappo nero con croce e frange dorate, circondato da sei grandi candelieri e dalla croce infilata nel suo ceppo di legno rotondo, riempiva completamente lo spazio davanti agli altari. Una colazione per i preti e una mancia a noi chiudeva la mattinata.
Fin dai primi tempi il costo di ogni messa ascendeva a una lira e il totale annuo incassato variava col numero dei defunti. Ma dai resoconti dettagliati rilasciati da don Pratesi a metà Ottocento ci possiamo fare una precisa idea su questo capitolo di spesa. Nel resoconto che va dal giugno 1837 al giugno 1838 il totale della ricevuta è di lire 52.6.8. che corrisponde esattamente al 23% delle uscite della Compagnia in quel periodo:
“Per n° 12 Tornate dal giugno 1837 - lire 12
Per n° 4 messe celebrate per il fu Pietro Cennini - lire 4 (non conteggiate)
Per Festa titolare nel 10 giugno 1838; in cera - lire 12
Per numero messe tre dette in detto dì - lire 3
Per altro sacerdote di Siena con messa e confessioni - lire 3
Per altro sacerdote di Siena con messa senza confessioni - lire 2.6.8
Per doppia della messa cantata in detta Festa - lire 4
Per Ufficio di Compagnia il dì 11 detto Messe 5 - lire 7.10
Per doppia della Messa Cantata in detto Uffizio - Lire 3
Per libbre 1 e mezza di cera per detto Uffizio, come di regola - lire 2.10”.
(Per doppia si intende un maggior pagamento al parroco per la celebrazione).
Dopo la decisione di far celebrare l’Uffizio invece delle singole messe, la spesa per quattro sacerdoti era di lire 7.10 e non veniva inserita nel resoconto suddetto, ma calcolato a parte. Infatti il costo degli Uffizi fatti dal marzo 1842 a tutto giugno 1844 fu pari a lire 90 per 12 uffizi (quattro messe con la cantata) mentre i resoconti di spesa per il culto simili a quello illustrato importavano lire 63 circa dal giugno 1842 a 1843 e lire 61 dal giugno 1844 al 1845. Negli anni che vanno dal 1850 al 1860 la spesa per il culto si ridusse a circa 44/46 lire. L’anno 1859 ad esempio per
"Pagato al Correttore per Culto di Chiesa per Tornate" lire 44 con una percentuale sulla spesa generale del 15% mentre per 4 uffizi furono spese lire 30. Con il registro del 1908 vediamo che si sono avute delle grosse novità nelle celebrazioni liturgiche della Compagnia. Sono sparite le dodici messe annuali ed è stato soppresso anche l’uffizio per tutti i defunti celebrato il giorno successivo alla festa. Rimangono in bilancio le spese per gli Uffizi dei defunti nell’anno, con un costo di lire 8 ciascuno, e quelle relative al giorno della Festa comprendenti le messe, la processione e il calo della cera come si distingue nel bilancio 1909:
“Per due uffizi per Landi Santi e Gaspero Sancasciani - lire 16
Per il 19 giugno speso per messe compreso la doppia - lire 16
Detto giorno speso di calo di cera in chiesa - lire 7
Speso di calo di cera della processione - lire 7,50”.
Il calo di cera consisteva nel pagare la cera consumata al curato o al ceraiolo di Siena come risulta evidente nel 1910 quando il camarlengo scrive: "Pagato il calo di cera al Bianchi ceraiolo". In quegli anni al consumo della cera si aggiunge la voce "laceri" che non è altro che il consumo di spezzoni di candele.
Il 21 giugno 1915 le spese per il culto furono le seguenti:
“speso per calo di cera da Siena lire 5;
speso per calo di cera di Chiesa - lire 7;
speso di laceri - lire 4;
speso di 5 messe compreso la doppia - lire 20”.
Negli anni successivi le voci vengono unificate e messe e cera comportano spese fra le 60 e le 80 lire. Poi dal 1932 vi viene conteggiata anche la luce e in certi anni la carta bollata e dal 1937 le spese auto e posta, mentre le messe sono tre. Nel dopoguerra questo insieme di voci comporta le seguenti spese: 1946 - lire 830; 1947 - lire 1282; 1948 - lire 2740 e questa è l’ultima registrazione di don Luigi Grandi. Con don Ottorino Bucalossi tutto entra in un generico
"Spese di Chiesa".
Facendo un passo indietro, nel 1915 viene aggiunta una nuova voce di spesa e si tratta delle Funzioni di S. Antonio celebrate un mese o due prima della Festa con una spesa di lire due che diventeranno ben presto tre. Conteggiate sempre autonomamente diventano un momento importante per la Compagnia tanto da essere celebrate più volte l’anno fino alle sei degli anni 1935-1937. Alle suddette Funzioni cominciarono ad aggiungersi quelle della
"Buona morte per fratelli e sorelle" sempre a carico della Compagnia con una spesa maggiore di una lira rispetto a quelle di S. Antonio. Le funzioni della buona morte, praticate già dall’Ottocento, venivano celebrate per Fratelli e Sorelle che versavano in gravissime condizioni di salute, quasi di coma, senza speranza di guarigione. A Quercegrossa nel 1863 venne stabilito di praticare anche l’esercizio della buona morte e accendere per l’occasione 20 lumi in chiesa, assegnando al parroco lire 3 toscane oltre alla solita lira per le funzioni. Il costo per la Compagnia rimase invariato fino al 1915 quando si riscontra essere ancora di lire 3, salite a 4 nel 1918. Anche queste venivano ripetute più volte nell’anno, ma insieme a quelle di S. Antonio scomparvero con don Luigi Grandi per essere riportate ad una sola funzione mensile da don Ottorino che le registrava come spesa
"Per le sacre funzioni di suffragio" con un importo annuo di lire 1700, aumentato a lire 4000 nell’ultima registrazione del 1967/68. Il costo di un Uffizio per un defunto della Compagnia che abbiamo visto essere lire 8 nel 1908, aumentò progressivamente fino a lire 20 nel 1926 e così rimase fino alla guerra per salire a 47 lire nel 1945, 70 lire nel dicembre 1946, 190 nel 1947, 235 nel 1948, 1500 nel 1955, 2400 nel 1961 e 3500 nel 1967/68. Col parroco don Pierino Carlini si ritornò all’antico applicando ad ogni Fratello o Sorella defunti tre messe da dirsi in giorni diversi, segnando così la fine degli Uffizi.
Spesa per la Festa
La Chiesa festeggia S. Antonio da Padova, protettore della Compagnia, il 13 giugno di ogni anno ma “ab immemorabili” il giorno della festa della Compagnia è stata la domenica successiva. Era un momento particolare e alle celebrazioni liturgiche si accompagnavano tutta una serie di faccende che impegnavano Fratelli e Sorelle concretamente per tre giorni dal sabato al lunedì. C’era da pensare ai sacerdoti, alla riscossione dei capitoli, alla fattura e consegna del pane, agli accatti, al sorteggio per l’anno successivo dei festaioli, alle elemosine, ai particolari del pranzo la cui organizzazione iniziava giorni, se non mesi, prima della festa. Quella domenica era insomma un giorno diverso, di festa, che aveva il suo culmine nella processione pomeridiana nella via del paese con la statua di S. Antonio e il bacio della reliquia a fine funzioni.
Pranzo della Compagnia
Il pranzo della Compagnia era nato per i Festaioli. Si trasformerà in pranzo per tutti i capofamiglia in un periodo imprecisato del Novecento e gli ultimi banchetti furono fatti al tempo di don Ottorino e per la circostanza i contadini e pigionali avevano mantenuto l’usanza della decima per la parrocchia. In quegli anni Cinquanta del Novecento si apparecchiava nell’ingresso della canonica, poi nei nuovi locali parrocchiali e le donne di casa Bucalossi, aiutate da alcune massaie, preparavano e servivano in tavola. La giornata prevedeva anche la colazione per i sacerdoti invitati. Nelle ricevute rimaste in archivio è interessante rileggere il resoconto di quelle domeniche per capire quanto importante fosse la giornata e il pranzo. Fin dai primi anni dell’Ottocento si accenna nel registro soltanto ad alcune spese che ancora non sono un rendiconto omogeneo e dettagliato del pranzo, ma comprendono altre voci come nel 1817 quando 120.3.4 lire sono spese per il pranzo fatto a festaioli e sacerdoti, e per il vino per i Fratelli che pagano i capitoli, o come nel 1823 quando alle spese del pranzo si assommano
"diverse robbe comprate". Ma dal 1825 s’incominciano a registrare precise voci di spesa relative ad acquisti di prodotti alimentari per il pranzo con caffè, paste, parmigiano, galletti, sale, pepe, cannella, spezie, zucchero, piccioni, capretti, carne grossa, “presciutto”, “ova”, unto, olio, uva asciutta e vino.
Ma per aver un elenco completo voce per voce si deve attendere un paio di decenni e nel 1853 la nota delle spese per la festa della Compagnia di S. Antonio del 19 giugno riportava:
Ova, legna e galletti ……………….. lire 23.6.8
Caffe, zucchero e droghe ………….. 3.3.4
Ortaggi, limoni e burro ……………. 5.6.8
Carbone ……………………………. 1.1.8
Salame, tonno, cacio e riso ………… 5.19.4
Carne grossa libbre 15 ...…………… 5.-.-
Fegato libbre 4 ……………………... 1.6.8
Sale libbre 2 e ½ …………………… -.10.-
Ostie per le Messe …………………. -.3.4.
Colazione a Siena per il bifolco per prendere la roba …………… 1.3.4
Dal ceraiolo Sacchi - mocholi per le sorelle …………………….. 2.6.8
Agnello con coratella comprato dal Gori ………………………… 2.6.8
Agnelli di Pietralta n° 2 = Lib. 74 ………………………………... 15.10.-
Olio Lib. 8 ½ a soldi 11.8 la lib. ………………………………… 4.18.-
Vino Some 1 = fiaschi n° 2 a Lire 24 la soma …………………… 27.12.-
Farina, cacio e uova per cucina e altro …………………………… 3.13.4
Pagato a Luigi Brogi per fare il cuoco …………………………… 4.-.-
Pagato al medesimo per andare a prendere il pane per la lavanda .. -.13.4
Pagato al detto Brogi per la cercatura dell’Uova
e mezza giornata dopo la festa per assettare …………………….. 1.10.-
Pagato a Sabbatino del castello la vettura per portare il pane
e altro per la Festa ………………………………………………… 2.-.-
Totale spese Lire ………………………………………………….. 121.5.4
Retratto di n° 2 pelli d’agnello vendute ……………………… .. 3.6.8
Totale ……………………………………………………………… 117.8.8
In quegli anni di metà Ottocento, col parroco Pratesi, il compito di cuoco è svolto da persone del paese, ma anche da altre ingaggiate a Siena. In anni precedenti il menu del pranzo richiede l’acquisto di altre voci alimentari come butirro (burro), sparagi, insalata, carciofi, conserva, radici, piselli, saragie, tonno, trippa e rigatino.
Nel 1843 il vino per i Fratelli e per il pranzo fanno barili 3 e boccali 10 a Lire 20; Vermuth, 2 fiaschi lire 1 e l’aleatico e fiaschi per lire 4.
Nel 1846 i galletti comprati sono sei paia e la spesa per le donne che aiutano è di tre lire mentre sono pagate per la vettura a Cencio Gori per portare la robba da Siena col barroccio lire 1.6.8.
Nel 1847 la vettura del Gori per il
“sabbato” e la domenica costa lire 2 mentre per il pane e il riso dal Bongiorni si spendono lire 63 circa. Il cuoco costa lire 4 e al suo aiutante lire 1.6.8.
Appare anche un certo Cappa che per le pulizie del sabato, domenica e lunedì riceve lire 2.15.4.
Nel 1850 una lira è data alla donna del sig. Curato e le coppie d’uova acquistate sono 139. Il vino consumato e di barili tre circa.
La spesa totale per il pranzo della festa del 1840 ammontò a lire 88.18.8 per salire a 93 l’anno successivo e 127 lire nel 1842. Poi 149 nel 1843, 171 nel 1845 assestandosi poi intorno alle 150 lire.
Dal 1908 si regista la spesa di lire 2 al “Coco” per fare il pranzo e 1,60 lire per portare il frate a Siena, mentre il pranzo nel giorno della festa costa lire 43,75. Nel 1909 la stessa voce è di lire 32,60. Nel 1910 si registra la spesa di lire 11 di vino e altri
“gingilli” per la festa, oltre a lire 24,40 per il pranzo. Poi per alcuni anni il costo rimane invariato, ma nel 1918 sono già lire 60. Nel 1921 per il pranzo e incomodi lire 98,90; 105 lire nel 1922, 106 nel 1923, 114 nel 1924; 158 spese nel 1925 di pranzo tutto compreso. Fino alla Seconda guerra la somma spesa rimane su quei livelli con un massimo di lire 176 nel 1931 registrata come
"Spese di desinare, tutto compreso". Nell’anno 1945 per la solita voce si spendono 1870 lire che aumentano via, via con l’inflazione e sono già 4.356 lire nel 1947. Con don Ottorino dal 1951 il costo del pranzo è registrato alla voce
"Pranzo e panini" e assomma a lire 7.720 salendo costantemente fino alle lire 10.585 del 1958. L’ultima registrazione del giugno 1969 è di lire 10.000 nette
"Per il pranzo".
Fin dal 1807 la Compagnia si dota o rinnova stoviglie e tovaglie per il pranzo dei festaioli e risulta in quell’anno aver comprato 25 braccia di panno a lire 1.1.8 il braccio per confezionare una tovaglia e 12 tovaglioli per un totale di lire 27.1.8., e n° 2 asciugamani e n° 2 pezze da cucina a lire 4.12.4. Per la cucitura dei tovaglioli vennero spese lire 1.10. Il 15 giugno 1809 si acquistano 18 forchette e 18
“cuchiari” d’ottone per lire 9. Per una pentola e un suo cucchiaio si spendono lire 4.6.8.
Trenta anni dopo si ha l’inventario di questi beni fatto dal camarlengo uscente Valentino Rovai all’entrante Antonio Nencini. L’11 giugno 1836, l’inventario, che presenta un modesto numero di pezzi, rivela notevoli smarrimenti:
n° 1 tovaglia e 8 tovaglioli usi assai;
n° 10 forchette di ferro;
n° 10 cuchiai d’ottone;
n° 5 coltelli con manico di legno;
n° 3 tegami con due coperti;
n° 2 pignatte;
n° 12 piatti con filetto;
n° 11 mazzette;
Un bacille con suo brocchino per la lavanda di placché.
Appare chiara l’insufficienza di questo vasellame e biancheria che richiese nel tempo nuovi acquisti, che il camarlengo puntualmente registrava.
Nel 1860 si sostituì completamente tutto il materiale di cucina acquistando 16 forchette 16 cucchiari, 16 piatti, 12 bicchieri, un tegame grande, una pentola e una tovaglia per uso dei festaioli nel giorno della festa, con una spesa di lire 17.7.
Dieci anni dopo, nel 1870, nell’adunanza generale il camarlingo Desiderio Masti espose ai presenti che la Compagnia una volta aveva della biancheria in proprio per uso del pranzo che si dà ai festaioli il giorno della festa e che attualmente si ha una sola tovaglia. Chiese di essere autorizzato un poco per anno al
“bisognevole” di detta festa e siccome il camarlingo da quanto disposto dal Capitolo 7 non può fare una spesa maggiore di lire 1,68 pari a lire toscane 2, era necessario il consenso dei Fratelli. Sentiti i Consiglieri e i Fratelli fu deciso all’unanimità di provvedere al necessario per la festa, e derogando al capitolo 7 si dava facoltà al camerlengo di spendere lire italiane 50 senza aver bisogno di adunare il Capitolo, con l’obbligo però che
“la biancheria sia marcata con le seguenti lettere C. S. A. (Compagnia di S. Antonio) e ne faccia esatto inventario e provveda pure un armadio o cassa dove si conservi la detta roba e la chiave stia sempre presso il camarlingo avendone esso la responsabilità”. Nel bilancio del 1872, sempre il camerlengo, comunica di aver effettuato qualche spesa maggiore per acquisto di poca biancheria e oggetti per uso pranzo come due zuppiere di terra, dei fiaschi e una cesta. Ancora nel 1877 il Camarlingo fu autorizzato a fare una botte nuova cerchiata di ferro con tenuta di circa tre barili di vino per uso della Compagnia. L’ultima registrazione per questo genere di acquisti risale al 1949 quando si spesero 350 lire per un tegame.
I Bilanci
Un obbligo che incombeva al Camarlengo di turno era tenere il registro delle entrate e delle uscite in buono stato. Era questo uno dei maggiori doveri delle Compagnie e se ne faceva espressa menzione nel libro dei Capitoli. Essendo andati persi i registri precedenti all’Ottocento, soltanto dalla ripristinazione del 1800 e fino al 1814 si ha una redazione dei conti nel libro delle deliberazioni da parte del parroco don Bianciardi, comprese alcune pagine scritte dalla mano del priore Pasquini e di altri Camerlenghi. I bilanci di quei primi anni si presentano con leggere differenze fra l’entrate e le uscite e ciò sarà per gran parte della storia fino ai giorni nostri. Ci sono si stati degli anni di crisi, ma generalmente si è sempre avuto un bilancio in attivo, anzi, in qualche anno sono state accantonate somme interessanti.
Per certi periodi il bilancio ha avuto come riferimento cronologico il tempo di carica dello stesso Camerlengo, il quale, al termine del suo mandato, restituiva la cassa se attiva, oppure rimaneva in debito. Senza entrare nel merito delle cifre riporterò soltanto una sintesi con i dati più interessanti.
La prima chiusura dell’anno che, ripeto, avveniva nel mese di giugno, presenta nel 1800 un attivo di 5 lire e 8 soldi, mentre due anni dopo a causa delle prime spese c’è un debito verso il Camerlengo di lire 28.4. Nel 1813 si ha invece un attivo di 23.19.4. lire. Per gli anni che vanno dal 1836 al 1854 è rimasto un prospetto degno di nota perché contiene il consuntivo di tutte le entrate e uscite redatto dal camerlengo Antonio Nencini, riferito al periodo in cui rimase in carica. Diciotto anni nei quali la Compagnia ebbe entrate totali per 5.242 lire ed uscite per 5.232 con un avanzo di lire 10. La media annuale delle entrate è di 291 lire e di conseguenza altrettante di uscita. Nel seguente anno 1855 solo 25 lire rimangono in cassa, ma diventano 160 nel 1863. Poi i bilanci cominciano a lievitare positivamente anche per le fruttuose vendite del grano e i sopravanzi vengono investiti in banca, come appare dal verbale dell’urgente consiglio tenuto
"in questa chiesa" il 10 settembre 1865, su richiesta del priore Pietro Bandini che in considerazione del residuo utile di franchi 170 propone di
"porre questa somma a frutto nella Cassa di Risparmio fondata nella città di Siena".
Ancora nel 1868 c’è un avanzo di cassa di lire 452 che l’uscente camarlingo Antonio Rovai consegna al Priore soltanto in parte, 263 lire, rimanendo in debito nei confronti della Compagnia di 189 lire. Nel 1869 sono 308 le lire di avanzo, ma ci sono comprese quelle 189 lire che il Rovai non ha restituito, come non le restituirà nel 1870, e chi sa se le avrà mai restituite. Abitava a pigione dagli Andreucci in Quercegrossa, e poco dopo la sua rinuncia deve essere partito.
Nel 1874 rimangono in cassa lire 420 con un sopravanzo totale di 890 lire; nel 1875 restano in mano al Camerlengo 440 lire; nel 1876 attivo totale di lire 456,39 delle quali 300 fruttifere e le altre per le spese correnti; nel 1877 sono 587 le lire d’avanzo e nel 1878 il rendiconto dà un avanzo di lire 526,99.
Anche il subentrante secolo Novecento si presenta positivo fino alla Seconda guerra. Ad un periodo iniziale attivo di poche decine di lire segue un primo dopoguerra con resti di cassa sostanziosi, con il massimo di 1323 lire toccato nel 1931.
Poi, dai modesti bilanci degli anni Cinquanta si giunge al primo disavanzo di lire 3.755 nel 1955. Bilancio in perdita anche negli anni successivi, quando sarà pareggiato con le entrate di altre feste. L’ultimo anno di don Ottorino Bucalossi, nel 1968, si registrerà una perdita di 17.820 lire pareggiata come detto sopra. Poi, con don Pierino Carlini, tutte le spese e le entrare relative alla Compagnia e alle altre Feste finirono in una sola cassa, pur mantenendo ancora separati i resoconti nel
“Libro cassa delle Feste della Parrocchia di Quercegrossa”, iniziato il 31 agosto 1951.
I Benemeriti
La lunga vita della Compagnia di S. Antonio da Padova a Quercegrossa, circa 350 anni, è stata resa possibile dalla devota adesione di tutto un popolo, e in particolare per la fattiva disponibilità di alcuni personaggi, i più in vista per condizione sociale e attitudini pratiche. Mentre i primi hanno ricoperto le cariche di maggior prestigio, gli altri emergono per la loro continua disponibilità ad assumersi quelle materialmente più onerose. Da non dimenticare che nelle elezioni della Compagnia si mettevano al voto i candidati e i signori del tempo come i Ticci, i Nencini e perfino gli Andreucci, non si sono sottratti a questa prova accettando, come si dice, il responso delle urne, che non sempre è stato loro favorevole. Del periodo Settecentesco e quello anteriore nulla sappiamo dei Priori, ma ci rimangono alcuni nomi di camerlenghi come nel 1774 che risulta essere Michele di Lorenzo Fusi o nel 1784 quando è in carica Antonio Ticci. Quest’ultimo era stato preceduto da Giuseppe Marzi e lasciò a Isidoro Bozzoli, il quale non fece in tempo ad operare per la soppressione della Compagnia.
Dal già ricordato primo seggio votato nel 1800 conosciamo il nome del priore Giovanni Pasquini, signore di Siena e padrone della Gallozzole da molti decenni. Poi, sempre per la carica di Priore della durata di due anni nei primi tempi, abbiamo i nomi di Giovanni Federigo Andreucci eletto il 26 giugno 1803; di Lorenzo Taliani il 30 giugno 1805, con nota scritta dal parroco
“perché non sa leggere”, e riconfermato nel 1806; di Francesco Fusi nel 1807, riconfermato nel 1808; di Luigi Ticci nel 1809; di Giovanni Federigo Andreucci eletto il 21 giugno 1812 e riconfermato nel 1814; nel 1815 Gaetano Rovai con 11 favorevoli e contrari
"punti"; 1824, ancora Luigi Ticci
"a pieni voti vocali"; nel 1835 è nominato don Giuseppe Rivi, proposto di S. Leonino e confermato nel 1841 e 1842; nel 1865 risulta confermato Pietro Bandini; poi Giovanni Ticci nel 1868; Serafino Pianigiani nel 1870; Bernardino Cerpi nel 1877 e l’anno successivo per rinunzia del Cerpi è Priore Cesare Ticci. Qui termina la documentazione dei priori e solo nel 1920 grazie ad una relazione di don Grandi conosciamo le cariche della Compagnia con a priore Pietro Barucci del Poderino:
"Scopo primario della Compagnia è il suffragio dei fratelli e sorelle defunti e onoranze religiose per la festa di S. Antonio titolare della Compagnia.
Gli ufficiali: Barucci Pietro Priore; Masti Angiolo Camarlingo.
Giovanni Manganelli e Pellegrino Panti, Consiglieri eletti a norma dello statuto.
Per statuto si fa un uffizio con tre messe per i fratelli e sorelle defunti ed ogni prima domenica del mese una funzione di suffragio e in onore di S. Antonio alternativamente.
Spesa annua: per ogni Uffizio Lire 20; per n° 12 funzioni Lire 42.
Inscritti: Fratelli 121; Sorelle 97”.
Per la mansione di Camarlengo dal 1800 abbiamo la nomina di Miche Fusi nella prima adunanza, sostituito poi nel 1802, quando si mettono ai voti Luigi Ticci e Giovanni Federico Andreucci e prevale il primo con 26 favorevoli e contrari 2; nel 1803 e 1805 è confermato il Ticci; 1806: Bartolomeo Brogi; 1809: Giuseppe Barbucci; 1812: Antonio Tognazzi; 1814: confermato; 1815: Luigi Ticci per nove anni; 1824: Valentino Rovai; 1835: Nencini Antonio; 1841: confermato; 1855: don Ferdinando Taddei; 1865: Antonio Rovai conferma; 1867: sempre Antonio Rovai; 1868: Desiderio Masti, 1870: Desiderio Masti; 1877: confermato. Dal 1870 con Desiderio (1870-1912) poi con Angiolo e infine con Armando la famiglia Masti del Mulino ha tenuto ininterrottamente la carica di camarlengo fino al 1986, anno di morte di Armando, il quale, insieme a Silvano Socci, rimase per decenni un punto di riferimento della Compagnia.
Le elezioni
Con il sistema già descritto dei lupini bianchi e neri avvenivano l’elezioni alle varie cariche della Compagnia. Questo metodo, che presenta alcune successive varianti sulla nomina dei candidati, deve esser rimasto in auge fino al 1870/80, poi non viene più rammentato. Come esempio riporto alcuni verbali di votazioni tenute nell’Ottocento: Il dì 26 giugno 1803, di domenica, si radunarono nella chiesa 28 Fratelli per l’elezione del Priore e del Camarlengo. Il Priore uscente Pasquini nominò quattro Fratelli e quello che avrebbe ottenuto più voti sarebbe stato il prescelto. I Fratelli nominati furono: il Sig. Francesco Bartalini con 21 favorevoli e 7 contrari; il sig. Giovanni Federigo Andreucci con 24 e 4; il Sig. Luigi Ticci con 22 e 6; il sig. Lorenzo Taliani con 14 e 14. Come conseguenza della votazione restò eletto a nuovo Priore il Sig. Andreucci.
Si passò poi all’elezione del Camarlengo con le stesse regole come sopra e furono presentati quattro nomi: Giovanni Pasquini che ebbe 14 favorevoli e 14 contrari; Luigi Ticci 21 e 7; Bartolomeo Brogi 16 e 12; Luigi Bartalini 15 e 13. Rimase eletto Luigi Ticci.
Il 4 luglio 1824 per l’elezione del Camerlengo furono mandati a partito, cioè votati, i signori Alessandro Buti che ebbe 14 voti contrari e 9 favorevoli; Antonio Nencini, 14 favorevoli 10 contrari; Valentino Rovai, 21 favorevoli e 2 contrari; Giuseppe Fiaschi, 17 contrari e 7 favorevoli. Rimase approvato il Sig. Valentino Rovai con 21 voti favorevoli.
Nell’anno 1868 per la rinuncia di Luigi Ticci,
“il quale pregato di essere mandato ai voti per la sua riconferma, non vi acconsentì”, il correttore don Luigi Regoli,
"letto il capitolo 1° della Costituzione che tratta del modo di eleggere il priore, propose i seguenti quattro individui che riportarono i voti che sotto": Fiaschi Luigi che riportò 17 favorevoli e 20 contrari; Landi Angelo, 24 e 13; Buti Giuseppe, 16 e 21; Pianigiani Serafino, 28 e 9. Rimase Priore il Pianigiani e si scelsero a consiglieri Ticci Giovanni e Bartalozzi Luigi i quali tutti insieme proposero a camarlengo Desiderio Masti, da considerarsi eletto se avesse riportato due terzi di voti favorevoli. Infatti riportò 33 favorevoli e solo 4 contrari, e la sua elezione segnò l’inizio del camarlengato dei Masti.
Intorno agli anni Trenta dell’Ottocento si cominciò a votare anche per le cariche minori della Compagnia, oppure si
"approvava a voce" la conferma. Nel 1839 il 23 giugno fu mandato a partito il crocifero, e Francesco Gori riportò 17 voti bianchi e 13 neri mentre l’eletto risultò Pietro Masti con 28 bianchi e 2 neri. Per i lanternieri, votati a coppia, rimasero approvati Giuseppe Buti e Pavolo Cappannoli con 22 favorevoli e 8 contrari. Per i mazzieri, Francesco Gori e Antonio Landi, con 20 bianchi e 10 neri. I sagrestani furono Niccolò Sancasciani e Pasquino Landi con 24 e 6. Gli ultimi verbali del 1860/70 parlano ancora di elezioni dei cercatori di grano o dei sagrestani. Tale usanza si modificò col passare degli anni con progressive semplificazioni nella nomina degli addetti fino a trasformarsi in semplice sorteggio praticato fino al 1960 circa, quando il parroco don Ottorino Bucalossi, estraeva, tra gli uomini iscritti e segnati in bigliettini ripiegati, i cercatori ossia i festaioli per la raccolta del grano e delle offerte in denaro. Sorteggiava anche per i vari ruoli alla processione, come i mazzieri, il crocifero, i lanternieri e i portantini della statua di S. Antonio. L’estrazione era fatta anche per i discepoli della lavanda del Giovedì Santo. Don Ottorino bandiva poi dall’altare, all’omelia, la domenica precedente la festa, i nominativi estratti che, salvo qualche eccezione tenevano fede al loro impegno, ma negli ultimi anni incominciò ad addomesticare il sorteggio per rimediare alle defezioni sempre più numerose. Tutto questo finì con don Carlini.
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