|
Le maestre L'epoca Lucchesi 1919-1922 Della Sig.na Maria Lucchesi, come maestra di Quercegrossa, si hanno notizie grazie al resoconto di una visita pastorale compiuta dall'arcivescovo di Siena mons. Scaccia, in occasione delle cresime nel giugno 1920. Il segretario così ricorda l'avvenimento: "Nel partire la Sig.na Maestra Maria Lucchesi fa presentare dai suoi bambini fiori a Mons. Arcivescovo accompagnati da brevi parole di un bambino". Nel 1889, al Castellare, da una famiglia di contadini residenti dal 1865, nasce Maria Lucchesi. Non ci sono prove per affermare che le due Maria siano la stessa persona, ma niente ci impedisce, per ora, di crederlo. Se così fosse, Maria avrebbe nell'anno della visita arcivescovile 31 anni e potrebbe essere lei l'insegnante della foto, datata con certezza 1920. Prima maestra della scuola pubblica, risiedeva nel Palazzaccio e insegnò probabilmente sia nelle case Ticci sia nel Palazzaccio. Lasciò l’insegnamento a Quercegrossa alla fine dell'anno scolastico 1921-1922 dopo esservi rimasta per almeno tre anni.
L'immagine più antica relativa alla scuola di Quercegrossa è questa foto del 1920 che immortala tutti gli alunni di quell'anno scolastico. Una fortuna la conservazione di questa fotografia, documento eccezionale ed unico per il nostro paese. Sono circa ottanta i ragazzi ripresi sullo sfondo di casa Mori, a conferma di una larga partecipazione popolare alla scuola ormai obbligatoria per i ragazzi fino a nove anni. Se la foto fosse stata scattata in occasione delle venuta del vescovo di Siena, al quale la scolaresca al completo diede il benvenuto, risalirebbe al giugno 1920. L'aula in quell'anno era nelle case sopra la bottega Ticci, ma già stava per essere trasferita in una stanza del Palazzaccio dal gennaio successivo. I piccoli in posa vestono abiti diversi. Alcuni il grembiule con tanto di fiocco altri con la marinara e un buon numero portano abiti, diciamo da festa, indossati proprio per l'occasione. Ricordiamoci che oltre la metà di questi bambini quello stesso pomeriggio potrebbe essere stata fotografata nei campi intenti a guardare pecore o maiali e vestita in tutt'altra maniera. La maestra Lucchesi lasciò in quell'anno il posto alla Periccioli.
L'epoca Periccioli (1922-1939) I dati disponibili fanno risalire all'anno scolastico 1922/23 l'arrivo della Periccioli, dato confermato anche dalla buona memoria della figlia Fara, nata nel 1913 e recentemente scomparsa ultranovantenne il 14 dicembre 2006: venne preparata dalla mamma a Quercegrossa per l'esame di Quarta e Quinta, negli anni dal 1922/23. Etra Petreni in Periccioli, indimenticabile maestra, fu educatrice severa ed esigente, e nonostante l'età ormai matura, aveva 49 anni all'insediamento, si prodigò senza risparmio per la scuola. Per ben venti anni fu legata a Quercegrossa: si prese cura dei suoi ragazzi; visse tra le loro famiglie; abito nelle sue case; vi perse il marito; e infine vi morì, mentre ancora insegnava all'età di 67 anni. ![]() Il matrimonio si fece ugualmente e da questa unione nacquero cinque figli: Vittorio (1904), Angelo (1906), Mario (1908) e Fara (1913), unica femmina della sig.ra Periccioli. Questa bella e spensierata ragazza continuerà a frequentare il nostro paese fino alla morte della mamma, legandosi in amicizia con tutti. Etra Petreni Periccioli 1872-1939 Dal 1922 al 1928, anno dell'inaugurazione della nuova struttura scolastica, Etra e Zeffiro Periccioli abitano durante la settimana a Quercegrossa nel Palazzaccio e frequentano diverse famiglie del paese: i Brogi, i Tacconi e soprattutto i Mori nella villa. In queste e in altre famiglie si intrattenevano a veglia nel dopocena. Dal 1928, con la sistemazione nell'appartamento sopra la scuola, avranno una nuova dimora. Il sabato sera, Etra e Zeffiro, prendevano il postale per Siena diretti alla propria abitazione. I Periccioli in Siena cambieranno tre volte residenza in questi venti anni: da Santo Spirito ai Pispini al Palazzo Bianchi al Ponte di Romana, a Via Doccino, l'ultima. E il lunedì mattina di nuovo al proprio posto. Lei alla scuola, lui impiegato del Comune di Monteriggioni nella sede di Fontebecci, oggi Banca Monteriggioni, dove andava e tornava in bicicletta. Ma nel marzo del 1935 avvenne la disgrazia che destò gran commozione in paese e scosse il quieto vivere della stimata famiglia: Zeffiro Periccioli morì in un incidente stradale. Partito da Quercegrossa di buon ora e giunto, passato Montarioso, all'altezza dell'attuale svincolo della superstrada per Firenze, nel tratto in discesa un contadino sbadato gli fa perdere l'equilibrio, la bicicletta gli va sottosterzo, non riesce a riprenderla sul fondo sterrato, cade e batte mortalmente la nuca. Era a duecento metri dalla meta. Zeffiro aveva sessanta anni. ![]() Etra e Zeffiro Periccioli Nel 1938 Etra ha 66 anni, è sempre sulla breccia ma appaiono i primi sintomi di una brutta malattia. Ai primi del 1939 lascia l'incarico per sottoporsi ad applicazioni radiologiche, facendosi sostituire da una supplente di nome Gioia. Un’apparente miglioramento del suo stato di salute fa dire al dottore curante: "Ma se proprio vuol tornare a insegnare, accontentatela". Si ripresenta in classe e con la supplente finisce gli ultimi due mesi, maggio e giugno, della sua lunga stagione didattica iniziata non si sa quando, forse da privata insegnante, continuata poi nelle scuole pubbliche di Maggiano, Scorgiano e Quercegrossa. Morirà, si può dire, "con la penna in mano", dedita fino all'ultimo alla sua grande passione: l'insegnamento. Brava, ma rigida: in queste due parole si condensa tutta la grandezza e il metodo della signora Periccioli. Brava, è un riconoscimento universale, unanime di tutte le voci ascoltate. Ma è ricordata in prevalenza per i suoi modi che definire educativi è dir poco: senza mezze misure colpiva, picchiava e puniva severamente ogni sgarbo, ogni negligenza nello studio e ogni indisciplina. Molte volte i suoi atteggiamenti provocavano la reazione dei ragazzi, i quali, insofferenti, si ribellavano con gesti talvolta clamorosi come il lancio di calamai o la fuga nei campi. "La Periccioli era birba"; "La Periccioli era birbotta"; Vaga: "Quante cannate; per punizione mandava in ginocchio sulle scale"; Giulio Carli: "A Guido di Bruttini gli diede la chiave grossa nel capo che gli venne un borchio di nulla. Venne il su' babbo e lo portò via". "Si giocava e il Lapi si mise a piangere. Venne la maestra per darmi uno scapaccione, mi parai con la penna e gli infilai il pennino nella mano"; Spartaco: "Che botte mi dava. Sarà che avevo poca voglia di studiare, sarà che facevo chiasso. Un giorno avevo il calamaio davanti, lo presi e glielo tirai con forza senza colpirla, ma imbrattai il muro. Scappai a corsa e mi rifugiai da Ersilia Rossi che mi nascose in cucina sotto al focolare. Non mi trovò nemmeno la mia mamma. Veniva con una bacchetta fina e dai nelle dita”. Piera Rossi: “La maestra mi diceva: "Metti le mani sul banco, per battermi con la canna”. Ma io al momento giusto le levavo. Una volta mi voleva far mettere gli orecchi da ciuco. Io scappai e andai a casa. Ma la mia mamma mi riportò a scuola"; Gina Rossi: "Quante volte mi mise alla finestra con gli orecchi da ciuco, Ero un po' zuccona. La maestra metteva in castigo anche con i chicchi del granturco sotto i ginocchi". Per andare al bagno era una tragedia per i bisognosi. Lea Oretti ricorda benissimo: "Ore intere con la mano alzata che finivi per stancarti. Si chiamava: “Signora, Signora”, e non ti rispondeva. Quando poi mi chiamò alla cattedra gli feci la pipì per terra”. Questi sono alcuni dei commenti raccolti tra gli ex alunni della Signora. Che dire? Le testimonianze di tutti confermano la durezza delle punizioni corporali e morali verso gli alunni. Ma a ben vedere la signora Periccioli non è un'eccezione in un mare di tranquillità. Essa applicava le regole in vigore nella scuola da molto tempo e che perdureranno fino agli anni Sessanta; addirittura in altre scuole raggiungeranno forme di violenza inaudita, tali da costringere i genitori a denunciare gli insegnanti per i danni fisici causati ai ragazzi. Esse fanno parte della sua cultura professionale, lei non è “birba”, non è severa, non è cattiva, agisce soltanto per il bene dei ragazzi. I metodi educativi scolastici si richiamano ad una severità figlia del suo tempo (non dimentichiamo la sua data di nascita, il 1872). Le famiglie e la società erano intransigenti in fatto di educazione e le botte e le punizioni erano il naturale correttivo all'errore e nello stesso tempo avevano una funzione preventiva. A ulteriore comprensione dell’atteggiamento della Signora, e dei suoi principi educativi, si racconta in famiglia Periccioli di quando il proprio nipote Mario, che iniziava ad accostarsi allo studio all'età di cinque anni nella scuola di Quercegrossa, entrando si lasciò andare un "Buongiorno nonna", senza salutare romanamente. La Maestra-nonna con severità lo guardò e gli indicò la porta: "Quando sono in classe sono la Signora maestra, esci e rientra salutando". Questo episodio vale più di mille parole. Di tali metodi si rammenta bene Bruno Sestini, alunno nella scuola di Lucignano di Castelnuovo. Il babbo Sallustio si era dimenticato di dargli 5 lire per il Fascio (forse la tessera o qualche raccolta speciale). Messo sull'attenti con le mani di dietro, la maestra Vittoria Mazzi lo sgridò minacciosa con l'aggiunta di due forti ceffoni, “e domani porta i soldi!”. ![]() L’anziana maestra a Quercegrossa nel 1939, poco prima di morire, con la figlia Fara alla sua destra e il nipotino Mario. Ho accennato alla preparazione fatta, in tempi diversi, alla figlia Fara e al nipote Mario, ma furono molti coloro che per conseguire il "Certificato" di Quinta elementare continuarono o ripresero lo studio con lei da privatisti, la mattina oppure il pomeriggio. Li preparava ad affrontare l'esame, sostenuto a fine anno scolastico nelle scuole abilitate "agli studi di grado superiore", ossia alla licenza di Quinta. Tra gli alunni si ricordano Anna Tacconi e Corrado Castagnini, alunni del 1926, con esame finale nella scuola di Monteriggioni; Lea e Silvano Socci conservano ancora il certificato per l’ammissione alle scuole superiori, da loro ottenuto nel 1939 nella sede scolastica di Vagliagli dopo la preparazione svolta con la Periccioli. La Maestra per queste ripetizioni non pretendeva soldi da nessuno, allora le famiglie si sdebitavano con prodotti in natura, da lei, in parte, portati a Siena il sabato sera con la postale. Durante il tragitto trovava le colleghe di Castellina e Fonterutoli, invidiose per questo, ma lei ribatteva: "Non faccio come voi che vi fate dare soldi dalle famiglie". La scuola di Quercegrossa era sottoposta al controllo di un direttore, il quale avrebbe dovuto almeno ogni tanto far delle visite per controllare la qualità dell’insegnamento, la preparazione dei ragazzi ecc. Ma il direttore non si vedeva quasi mai, e la sig.ra Periccioli si lamentava per la sua latitanza, perchè ci teneva; evidentemente il direttore si fidava ciecamente di questa ottima maestra. ![]() ![]() A sinistra: Fara Periccioli, l'elegante figlia della maestra che trascorreva lunghi periodi a Quercegrossa partecipando attivamente alla vita di paese e aiutando l'anziana mamma nell'insegnamento. Foto di destra: l’anziana maestra con Anna Tacconi in una giornata senese. Curava in particolare l’igiene dei ragazzi richiamandoli al rispetto delle norme con il curioso metodo dei bigliettini, consegnati come un memorandum per l'igiene personale: “Bisogna lavarsi il martedì, il giovedì e il sabato ... tre volte alla settimana ... bisogna fare così ... bisogna fare questo e quest'altro”. D'altronde ne aveva il motivo soprattutto a causa dei pidocchi che spesso infestavano i ragazzi, come rammenta Gina Rossi: "La mia mamma Ersilia me li levava e li schiacciava con le unghie. Alcune ragazze erano sempre piene e li attaccavano a tutti". In definitiva una maestra coscienziosa e seria, attenta a non trascurare nessun aspetto dell’insegnamento e dell’educazione dei suoi ragazzi. Una maestra che, comunque si pensi, aveva la sua dote di umanità e si dimostra, forse inaspettatamente, persona sensibile e comprensiva leggendo una sua composizione manoscritta conservata dalla famiglia. Si tratta di un breve racconto, tipo libro Cuore, dove parla della generosità dei suoi ragazzi verso un compagno colpito da un grave lutto di famiglia, a motivo della guerra, e da lei intitolato "Il cuore dei nostri bimbi". Una narrazione espressiva, ricca di particolari, e anche se si tratta di un lavoro fatto antecedentemente al suo trasferimento a Quercegrossa ho ritenuto utile inserirlo fra queste memorie.
L'anziana maestra tra i suoi scolari in una foto del 1928/29. Sono circa sessanta gli alunni ripresi. La foto è scattata con i ragazzi schierati a ridosso del fabbricato della Canonica. Nell’ingrandimento si riconoscono Alda Losi (1), futura bidella, con la sorella Duilia alla sua destra, Rina Riversi (2), Albana Tacconi (3) e Libera Bernardeschi (4). Le righe bianche sui grembiuli rappresentano la classe frequentata.
L'epoca Bongini (1939-1957) e Grassi (1946-1966) Il 1° ottobre 1939 fa il suo ingresso nella scuola di Quercegrossa la signorina Cesarina Bongini, senese di Via del Re (oggi Via Cecco Angiolieri), figlia dell’artigiano Bongino Bongini. La “Signorina Bongini” è del 1913 e proviene dalla scuola di Chieci dove insegna fin dal 1934. Arriva quando già la guerra affligge l'Europa da un mese e giorni duri si profilano i all'orizzonte. Cesarina vivrà questi anni difficili insieme alla popolazione di Quercegrossa e sarà presente nei momenti critici. Reggerà l’insegnamento da sola fino al 1944, abitando l'appartamento sopra l'aula, già della Periccioli. Dal 1° ottobre 1944, con l’abilitazione della scuola di Quercegrossa all’insegnamento della Quarta e Quinta classe, sarà affiancata da un'altra maestra la quale convivrà con lei per due anni. Usava la postale per viaggiare, ma alcune volte era stata vista arrivare a piedi da Fontebecci percorrendo la strada sterro con i lunghi tacchi. Il periodo di insegnamento della Bongini si estenderà per circa venti anni: arrivò a Quercegrossa all’età di ventisette anni e smise di insegnare per andare in pensione a quarantacinque. Molti di questi anni li trascorrerà insieme alla signora Grassi, e lascerà un bel ricordo nelle generazioni a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Una figura, quella della Bongini, che si distinguerà dalla collega per una presenza del tutto diversa e molto più apprezzata. Minuta nel fisico, magrolina, Cesarina curava quasi con passione il suo aspetto. Raccoglieva i lunghi capelli neri dietro la nuca fissandoli con forcelle. Non lesinava il trucco agli occhi, alle labbra e alle lunghe unghie sempre smaltate di rosso. Vestiva elegantemente e si muoveva con grazia al di sopra dei suoi altissimi tacchi. Portava collane e anelli che le davano quel tocco di signorilità e la facevano apparire nell’insieme una distinta signora, gentile, educata, con un timbro di voce fine e argentino che incantava. Più tardi, quando si accorse di perdere qualche capello, iniziò a coprirsi la testa con un fazzoletto. Nella stagione invernale indossava un cappotto spinato bianco-nero e teneva, per vincere il freddo di un ambiente poco riscaldato, uno scaldino rotondo con applicata sopra una retina metallica per proteggere le vesti dal fuoco. Sopra questa retina posava ad abbrustolire piccole fettine di pane condite con qualche goccia d'olio, sgranocchiate durante la lezione. Da grande fumatrice qual era mangiava pochissimo. Durante la ricreazione, sia lei, sia la Grassi, avvicinavano i ragazzi intenti a divorare le loro fette di pane, e con l’indice e il pollice staccavano un bocconcino di pane e companatico; un pezzo a quello, un pezzo a quell'altro ed era fatta. I ragazzi portavano di tutto per la colazione delle 10,30 e insieme ai più tradizionali affettati e marmellate si trovavano il pane con i fichi secchi, con le noci, oppure un pezzo di polenta fritta. Ogni tanto le due maestre venivano invitate a pranzo dai Mori, dai Buti, dai Brogi, dai Tacconi o da altre famiglie, ma capitava anche frequentemente di vedersele arrivare all’improvviso in casa a mangiare una scodella di minestra di pane, perchè sapevano non mancare mai in certe cucine. Di carattere amabile era solitamente affettuosa verso gli alunni, ma Cesarina sapeva però essere inflessibile quando occorreva di fronte a ragazzi cocciuti e caparbi: “bastone e carota”. Però si distingueva perchè se anche lei metteva in castigo dietro la lavagna, anche se lei usava una lunga canna e colpiva inesorabilmente ma, per quanto ricordo, era tutt'altra faccenda: “c'è modo e modo”, e nel suo non c'era né violenza né cattiveria; un fare assai diverso dalle gratuite prepotenze e prevaricazioni di altre insegnanti. Si mostrava in fondo capace e socievole, quanto bastava per la sua professione, per questo era stimata e rispettata da tutti. Ma come tutti gli esseri umani anche lei aveva il suo lato debole espresso da certi scatti d’ira manifestati ogni tanto, quando la pazienza si esauriva: due strilli secchi e gli occhi luccicanti facevano capire ai ragazzi l’opportunità di adeguarsi. Era in quei momenti che minacciava l’irrequieto Pallanti con la famosa frase: “Pallanti t’impallo”. Scatti d’ira, ma ben presto repressi. Quando colpì con un sonoro ceffone a tutta mano, causando con il suo braccialetto una ferita alla guancia di Cornelio, mio compagno di banco, apparve dispiaciuta e con modi premurosi cercò di farsi perdonare il malfatto. Fabio Provvedi, il nipote della bidella Maria, è molto esplicito: “La maestra Bongini picchiava a mano aperta e dava sempre sul capo. Era un po' isterica, spesso mi rinchiudeva nello stanzino del gabinetto da dove scappavo, così le buscavo anche dalla mi' mamma”. Per tutto il suo mandato fu sensibile all’istruzione dei singoli e procurava in continuazione ai giovani lettori più interessati opere della letteratura mondiale, come ricordava Silvano Socci, il quale per anni lesse avidamente i libri della Bongini nelle ore libere, e queste letture ebbero il grande merito di accrescere e affinare sensibilmente la sua formazione culturale post scolastica, tornata poi utile nei suoi numerosi incarichi pubblici. Dopo la guerra la Bongini professò ideali socialdemocratici, ma durante il regime, nella scuola fu ligia ai dettami e ai precetti dell’ideologia fascista. Infatti rispettò i programmi ministeriali puntualmente inviati da Roma tramite circolari contenenti precise indicazioni didattiche da attuare, come l’esercizio da fare o il tema da proporre. Ricevuta dalle autorità la cosiddetta radio Balilla, formata da un'alta verticale affiancata da due fasci, lei, gli alunni e anche la popolazione ascoltavano la voce del duce e vi sentirono la notizia dell'armistizio del 1943. L'alunno, entrando in classe la mattina, doveva salutare alla romana con il braccio destro alzato e teso, e dire: "Buongiorno signora maestra". A chi se ne dimenticava, pensava lei a ricordarglielo con un energico scapaccione sulla testa e la ripetizione dell’entrata. La Quinta a Quercegrossa dal 1944/45 Con un colpevole ritardo finalmente anche a Quercegrossa viene istituita la licenza di Quinta elementare. L'anno scolastico è il 1944/45. Termina così quello spiacevole emigrare di alunni a Siena, Fonterutoli o Vagliagli e persino a Corsignano e le Badesse per avere la licenza di Quinta. Questo richiese però l'impiego di una seconda insegnante e il reperimento di un'altra aula per permettere lo svolgimento delle lezioni. L'aula in Parrocchia La seconda maestra è la signora Delia Chiantini, anche lei senese residente in via del Refe Nero. Della sua provenienza dalla scuola di Fonterutoli, dove ha insegnato in Quarta e Quinta l'anno precedente, ne dà testimonianza la firma sulla pagella di Losi Alighiero, il quale ha completato il ciclo di studi elementari in quella scuola, con questa insegnante. Non sappiamo come e quando partì il progetto per la modifica all'esistente struttura scolastica per predisporre all'insegnamento anche il piano di sopra, fino ad allora adibito all’abitazione dell'unica maestra. Certo è che per almeno tre anni si rese necessario occupare una camera della canonica per effettuarvi le lezioni. Questa stanza situata al piano superiore nella parte destra del fabbricato, venne messa a disposizione da don Luigi Grandi e adattata alla meglio per ospitarvi le due nuove classi. Due tavole scompagnate e malferme messe a squadra fungevano nello stesso tempo da cattedra e da banco di scuola; sopra vi veniva messo di tutto: cartelle, astucci, quaderni, libri e calamai, in una colorita confusione. Seggiole multiformi di legno, di schiancia e di pelle completavano l'arredo. Qui i nati nel 1935 vi frequentarono la prima Quarta di Quercegrossa. La signora Chiantini, mantenne l'insegnamento per soli due anni, dal 1944 al 1946. Fu costretta ad abbandonare il lavoro per motivi di salute, sembra per problemi di cuore, ma fece in tempo in quel breve periodo a dare un nuovo impulso all'attività scolastica e ricreativa. Le commedie scolastiche Dopo l'interruzione causata dalla guerra, la maestra Chiantini riprese con esito quasi trionfale la rappresentazione di commedie, coadiuvata sia dagli scolari sia dalla gente del paese. Non saranno le piccole recite o balletti che caratterizzeranno l’iniziativa della signora Grassi negli anni seguenti, ma veri e propri spettacoli teatrali con testi da lei stessa procurati e dei quali ogni attore era obbligato a trascrivere la propria parte per la memorizzazione. Luogo della rappresentazione teatrale era la "Società", l’ex sede del Dopolavoro. Per quella che fu l'ultima recita della Chiantini nel 1946, la quale avrebbe abbandonato poco dopo l’insegnamento, venne costruito, dall'impresario del momento Augusto Buti, un grande palco comprendente uno spazio come camerino per gli attori, luci adatte alla circostanza, e la "buca" per la maestra nel ruolo di suggeritrice. Numerose prove precedettero la serata finale e quella volta, per la grande partecipazione di pubblico, la commedia venne replicata perché molti erano rimasti fuori. Tra i tanti attori giovani e meno giovani che salirono sul palcoscenico di quelle memorabili commedie si ricordano Armando Losi, Buti Pierugo, Mori Annunziata, Ines Losi, Bruno Sestini, Giulia Carli, Rina Riversi, Renato Minghi, Vaga e i Vigni di S. Stefano, fratello e sorella. Alcune immagini di quei giorni sono rimaste impresse nella memoria: il Sestini Bruno deve far la parte del "poliziotto"; ha avuto anche una giacca di carabiniere da Alberto Tacconi, ma è richiamato continuamente nelle prove. Pronuncia con la sua parlata di campagna: "Sono un puliziotto", e la Chiantini spazientita "Si dice poliziotto; poliziotto". In apertura di scena, Ines sostiene la parte di una cameriera mentre sta spolverando un tavolo. Quando si apre il sipario, è con le spalle al pubblico, e le viene da ridere. Ride, ride e continua a spolverare per un tempo interminabile prima di profferir parola. Le prove si svolgevano dopocena e al termine la signora Chiantini si faceva accompagnare alla scuola dove abitava, da chi capitava perché il breve tragitto era appena illuminato e non vi erano abitazioni intorno. Nella commedia di S. Crispino (una rappresentazione sacra alla buona), Pierugo era il garzone del fabbro e questi gli doveva tirare il martello in un momento di rabbia, naturalmente senza prenderlo. Ma per la recita il fabbro sbagliò la mira e Pierugo prese la martellata in pieno petto. In un altro episodio doveva essere svegliato da un getto d'acqua che gli veniva tirato di fianco con una bottiglia, ma regolarmente era preso in pieno e inzuppato. Come se non bastasse la commedia, nell’intervallo tra gli atti "si faceva la falsa". La falsa, o corretto “farsa”, era una breve rappresentazione, ripresa, forse, dalla maestra dall'opera settecentesca, dove questo tipo di intrattenimento veniva chiamato "intermezzo", cioè nell’intevallo tra gli atti dell’opera. Miracolo! Grazie ad Armando Losi si è conservato il testo di una "falsa" scritta dalla signora Chiantini: fogli sgualciti di quaderno ricopiati in quei lontani anni. Armando lo ha tenuto per quasi sessant'anni in un cassetto della sua bottega. La falsa è recitata da Buti Pierugo, il quale interpreta “Cecco”, e dallo stesso Armando nei panni di “Meo”. Nella foto precedente la prima pagina del testo. La falsa è impostata in un rigido alternarsi di battute domanda/risposta tra i due interpreti, uno dei quali appare poco vispo. La base della sua riuscita sta in trovate stimolanti l’ilarità dei presenti come l'ombrello aperto e il russare, ma soprattutto è in mano agli attori, i quali da un contenuto modesto devono, attraverso l’interpretazione di gesti e le parole, esprimere situazioni di comicità. L'aver conservato il testo della falsa ci impone farlo conoscere a tutti come un documento prezioso, inserito in un capitolo.
Nella sua breve stagione a Quercegrossa, la signora Chiantini riuscì anche ad organizzarsi un viaggio a Roma approfittando della presenza nella capitale dei parenti di un suo alunno e precisamente di Pierugo Buti. Desiderosa da tempo di compiere questo viaggio per visitare la mai vista città, e venuta a conoscenza, forse parlando a bottega con la sor'Ada, mamma di Pierugo, che a Roma vi abitava lo zio, non esitò a partire e farsi accompagnare da questo bambino di dieci anni per essere ospitata dai suoi parenti. Siamo nell'agosto 1945, la guerra, da poco terminata, ha lasciato il paese in rovina e anche i servizi stentano a riprendere; un viaggio in treno in quell'Italia disastrata si rivelava un'avventura. Sulla linea Siena-Chiusi il treno ha poco carbone, si deve fermare spesso e i macchinisti scendono nei campi a far razzia di legname per la caldaia. Bene o male in serata arrivano a Chiusi, dove però devono attendere l'indomani per ripartire e, come rifugiati, passano la notte nella stazione. Ma giunti a Roma e accolti e alloggiati dallo zio, la strana coppia di turisti si gode per una settimana le bellezze della città eterna, senza dimenticare di trascorrere una giornata al Lido di Ostia. Chi l'avrebbe mai pensato!
La signora Grassi (1946-1966) Il ritiro dall’insegnamento della Chiantini apre le porte di Quercegrossa alla "Signora Grassi". Rina Petrucci Grassi lascerà nel nostro paese un ricordo indelebile in coloro che la conobbero. Essa arrivò alcuni anni dopo la signorina Bongini, ma con la sua personalità prese subito in mano le redini di comando all'interno della scuola. Di famiglia senese abitante in S. Martino al n° 6, Rina Grassi nasce il 27.11.1900 da Cesare fu Luigi ed Elena Scardigli. La buona statura, le larghe spalle che facevano tutt'uno con l'ampio bacino e il vistoso petto la rendevano imponente a noi ragazzi. I capelli corvini, tenuti legati a crocchia dietro la nuca, si accostavano bene a lineamenti facciali piuttosto marcati, dove raramente appariva un sorriso, dandole nell’insieme un aspetto severo e grave. Se a queste peculiarità fisiche si univano una voce squillante e potente al punto da risuonare minacciosa nell’aula facendo schiacciare i ragazzi impauriti sui propri banchini, e uno sguardo indagatore lampeggiante dai suoi occhi neri, chiunque si può fare un’idea di questa maestra, capace di mettere in soggezione tutti quanti, alunni e famiglie. Continuò, se così si può dire, i metodi educativi della Periccioli, usando largamente la canna e il righello, preferibilmente sulle dita, e alzando le mani sugli intimoriti alunni. I suoi modi decisi, quasi brutali, si manifestavano anche verso genitori con i quali accadeva sovente di essere in discussione e disaccordo per motivi soprattutto disciplinari. Una delle sue mancanze come maestra, a sentire i genitori, era quella di dimostrare apertamente simpatie verso alcuni alunni e le loro famiglie, rendendosi per questo invisa a molti. Gli scolari che godevano della sua stima erano continuamente portati ad esempio e raramente subivano le maniere forti della maestra. Guai però, quando avveniva il contrario e venivi malvisto e preso di mira dalla Signora: ogni circostanza era buona per ricevere offese, brutti voti, punizioni e delle manate che dovevano a parer suo insegnarti la lezione. In classe molti ragazzi hanno trascorso delle ore dietro la lavagna o rinchiusi nel gabinetto. Il povero Pianigiani fu visto diverse volte in ginocchioni sul marciapiede della scuola “fino al tocco”, come alla gogna.
Una sorridente Rina Grassi circondata dai suoi scolari nell’anno scolastico 1956/57. Da destra nella foto: Fiorella Guarducci, X, Elina Volpini, Raffaella e Lorenza Mori e Luciano Sarchi
La maestra Grassi (a destra nella foto, col cappotto) invitata al matrimonio di Vanda Castagnini insieme all’alunna Paola Pagliantini che porge gli auguri alla sposa, rivolgendogli un pensierino a nome della scuola. E’ l’8 febbraio 1962 e si vedono Dino Castagnini, il babbo della sposa, e la sor Ada, mamma dello sposo Pierugo Buti.
Alcune vive memorie degli scolari del tempo ci aiutano a capire meglio l’atmosfera regnante nelle classi della signora Grassi. Un giorno la Maestra si mise accanto a Luigino Tacconi e interrogava la classe rivolgendosi di tanto in tanto anche a lui "e quando non sapeva le risposte lo sbatacchiava nel muro". Giorgina non si ricorda le tabelline; le studia, ma non c'era niente da fare, specialmente quanto fa sette per sette. La Grassi, piena di inventiva gli trova la medicina. Gli si pone davanti e gli fa mettere le mani sul banco: "Quanto fa tre per otto", “ ... ventiquattro"; "e sette per sette", "uhmm, sette per sette fa...". La risposta non arrivava e così la bacchetta colpiva inesorabile sulle dita la smemorata alunna, e bacchettata dopo bacchettata si risentivano le tabelline. Oggi Giorgina si ricorda bene quanto fa sette per sette. Alcuni alunni istintivamente toglievano la mano che stava per essere colpita e allora si vedeva la bacchetta svolazzare e battere a caso sulla testa e dove poteva. Una ragazza di S. Stefano si era abituata, forse a causa di una leggera miopia, a stare troppo vicino al quaderno e per questo veniva aspramente richiamata dalla Grassi. Naturalmente il difetto permaneva e il rimedio venne da un’altra idea geniale della maestra. Aveva questa scolara una lunga treccia e quella mattina la Grassi per correggerle il difetto gliela legò allo schienale del banco costringendola ad una posizione eretta. In terza elementare Isanna Sestini e Luigino Tacconi sono irrequieti. Lui incidentalmente le getta il calamaio addosso macchiandole il vestitino. La Grassi perde il lume, si butta su Isanna percuotendola pesantemente con schiaffi e manate, tirandole anche i capelli e strillando come una forsennata. La vittima piange e singhiozza a lungo e all’uscita della scuola non ha coraggio di andare a casa col vestito macchiato. Il babbo viene a sapere tutto e la mattina seguente si presenta risentito dalla maestra dicendole: "Se combinano qualcosa lei mi avverta, che a punirli ci penso io. Lei non le deve mettere le mani addosso". Volarono parole grosse e la signorina Bongini si mise a piangere, mentre la signora Grassi inginocchiata tentava di spiegarsi. Il Sestini non fu l’unico a parlarle chiaro e tondo per questo suo vizio. Anna Guiggiani non ha dimenticato i forti rimproveri che subì per tutti i mesi della sua frequenza a Quercegrossa: “Io non ricordo niente se non le tirate d'orecchi della maestra Grassi". Dopo averla richiamata aspramente, mentre le tirava le orecchie che si arrossavano sempre di più, fino al dolore, la maestra si allontanava dal banco brontolando: "... e poi ti do zero spaccato". Anche Egidio Fosi di Belvederino fu costretto a seguirla dal banco alla cattedra, se non voleva perdere l'orecchio che lei stringeva con forza e tirava per vincere la resistenza del ragazzo. Questo sistema fu sperimentato da molti. Mario Landi si muove e si gira continuamente per copiare il compito da Fabio Francioni. La Maestra lo vede; qual è la miglior soluzione se non quella di legargli il capo a pochi centimetri dal tentennante tubo della stufa in modo che non si possa muovere per non farlo cadere? (Ma era la Bongini o la Grassi? I ricordi si confondono). In altra circostanza la Signora maestra superò se stessa ideando una punizione che ha dello straordinario: "Il banco della morte". Alcuni ragazzi di ritorno dalla scuola, passando accanto a un podere tacciarono di "troia" una ragazza del posto. La cosa venne riferita alla maestra, la quale pensò bene di ergersi a giudice e punire i responsabili dandogli una severa lezione. Creò appunto "il banco della morte", un banchino nell’angolo lontano, riservato per i peggiori, per i cattivi, i reprobi, dove mise i colpevoli alunni. Il risultato fu che tempo dopo si presentò la mamma di un ragazzo pregandola di togliere la punizione al figlio, il quale avvilito per il castigo, aveva iniziato a fare la pipì a letto. Ricorda bene Lucia Mori, nell’anno 1956/57, in una delle tante gite in campagna, si fa per dire, tre alunni, tra cui l’autore, si erano attardati notevolmente ed entrarono in classe al piano superiore, quando ormai la maestra si era spazientita essendo assai pesante il ritardo accumulato. Lucia era già agitata dalla situazione e impaurita dalle minacce della maestra Grassi: “Vedrai al tuo cugino quando entra in classe che gli succede”. Infatti, quando sentono bussare, aprono, ed io, Giorgio Rossi ed Enzo Stazzoni s’entra nell’aula un po’ accaldati e con le scarpe fangose. Ci avviciniamo alla cattedra e dalla cucina retrostante esce la maestra, puntando decisa verso di noi: un pedatone nella pancia dato a ciascuno di noi tre, ci fa volare alla porta dalla quale poco prima s’era entrati. Lucia rammenta il suo pianto e le successive parole della Grassi: “E ringraziate il cielo che vi dovevo buttare dalla finestra per quello che avete fatto”. Frequenti e varie erano le punizioni collettive: si andava dal sospendere la ricreazione al rimanere in classe dopo l'orario. Una mattina al ritorno da una passeggiata nel bosco un gruppetto di ragazzi si attardò di alcuni minuti nel rientrare in classe e la Grassi li accolse strillando innervosita: "Oggi non uscite, si rimane qui tutto il pomeriggio e guai a chi apre bocca". Si sedette alla cattedra affaccendata con ferri e righello (si dice facesse dei tappetini), mentre noi ammutoliti si appoggiò la testa sulle braccia incrociate sul banco. Passarono diversi minuti e nessuno fiatò. All’improvviso, nell’irreale silenzio, accadde un fatto che sbloccò la situazione. La sig.ra. Grassi, o raffreddata, o a causa della polvere, starnutì rumorosamente. Altrettanto imprevista si alzò una vocina dai banchi: "Salute!". La Signora, la quale non si aspettava certamente l'augurio, rimase perplessa, quasi contrariata e "Chi è stato?", gridò con voce secca. Fu la paura, e non altro, che fece alzare timidamente la mano a Cornelio; la mano non il braccio, anzi il dito. La Maestra sempre con tono severo e di rimprovero per tutti, lodò la sua educazione e gli disse: “Sei stato l'unico, puoi andare a casa, gli altri rimangono". Trascorsero altri dieci minuti, poi lei doveva partire per Siena con la macchina delle maestre di Castellina e si fece festa tutti. Della considerazione che aveva verso gli scolari è bene tacere. Al dr. Morelli di Castellina, presente in classe, non so per quale motivo, fu sentita dire nel cucinotto con sarcasmo: "Guardi che merce", indicando gli alunni. I ragazzi si rifacevano con la rima: “La maestra col capo di cesta”. "Mi ha fatto odiare la scuola", è il rimpianto e la risposta, a tanti anni di distanza, di un suo allievo da lei ingiustamente tartassato. Per raggiungere Quercegrossa la maestra Grassi ricorse nel tempo a differenti mezzi. I primi anni usava la Sita, ma appena la stagione lo permetteva la potevi vedere arrivare in bicicletta. Ai suoi ragazzi, ma specialmente a Marcello Landi, dava l’incarico di gonfiare le ruote. Poi iniziò anche a prendere la macchina delle maestre che prestava servizio espresso da Castellina a Siena. Negli ultimi anni, per tornare a Siena, approfittò della Seicento condotta dalla collega Elina Fineschi. Insieme alle tante voci che, come visto, hanno sempre un comune denominatore sulla maestra Rina Grassi, se ne sono levate altre in sua difesa. Sono esperienze di alunne e alunni i quali non si ritrovano in quanto detto nel loro rapporto con la maestra in questione. La rivedono si, severa, esigente e amante della disciplina, ma qual è quella maestra che non lo è stata; e certi fatti descritti hanno valore episodico che non possono incidere sulla vera personalità della maestra, perchè nei loro ricordi c’è anche una donna paziente, benevola, propositiva, seguita con entusiasmo in molte delle sue iniziative, rispettata e stimata dalle famiglie. Una delle più significative testimonianze è di Carla Buti: “La Grassi era una donna meravigliosa, era esuberante, ma non era cattiva”. Carla era da tutti trattata con riguardo e compassione perchè non aveva il babbo morto in guerra. Ammette anche che “la Bongini era diversa...”. La didattica al tempo della Grassi e della Bongini La realtà purtroppo dava ragione alla maestre, quando si lamentavano della qualità dei loro alunni. Nelle campagne, specialmente nelle famiglie contadine e operaie, crescevano ragazzi lontani da ogni stimolo culturale e pochi erano gli interessi per mezzo dei quali potevano applicarsi in un grado più elevato che non fosse il gioco o qualsiasi passatempo. L’impegno di studio rimaneva ai livelli della semplice sufficienza, perciò non c’è da meravigliarsi se le scuole rurali sfornavano alunni di modesto profitto, ai quali naturalmente facevano eccezione i più volenterosi e idonei allo studio. A questo punto mi sembra opportuno accennare, con qualche esempio, alla metodica dell’insegnamento nella nostra scuola prima che i nuovi criteri didattici stravolgessero completamente la scuola italiana negli anni Sessanta. A Quercegrossa, con l’impiego della seconda insegnante, avviene la suddivisione fisica della scuola in due sezioni: una al piano superiore formata da due classi, la Quarta e la Quinta e l'altra al piano terra con i primi tre anni. Il fatto di gestire l’insegnamento in contemporanea di due o tre classi causava confusione e perdite di tempo a scapito dello studio, e quando era assente una delle due insegnanti tutte le classi si riunivano in un’unica aula. Lascio immaginare cosa succedeva con tre o quattro ragazzi per banco. Il programma, di per sé molto semplice, si basava quasi esclusivamente nell’apprendimento del leggere e dello scrivere. Le settimane iniziali della Prima classe, servivano per acquisire ordine e precisione del segno (e ciò non era negativo) attraverso innumerevoli ripetizioni di aste, quadratini, cerchi, triangoli e altre figure geometriche opportunamente colorate. Poi, nel prosieguo dell'anno scolastico si trasformavano in fiorellini, farfalle e altri semplici disegni che in serie intercalavano le prime composizioni dei segni alfabetici. Questa forma di espressione decorativa rimaneva anche per le classi successive, quando qualsiasi componimento e problema doveva terminare con un bel disegno, spesso più impegnativo del problema stesso. Le letterine alfabetiche cominciando dalla Aa, Bb, Cc ecc., apprese fin dai primi giorni una alla volta, erano ripetute sia minuscole sia maiuscole decine di volte sul quaderno a righe della prima classe, copiando quella tracciata dalla maestra a inizio rigo. Tutto ciò faceva sì che a Natale si potesse scrivere la prima tradizionale letterina ai genitori. Un po’ più complicato era l’apprendimento della lettura che procedeva lentamente e di conseguenza si incominciava a leggere con una certa padronanza soltanto dalla terza classe e alcuni ragazzi rimasero sempre indietro. Quando una bambina della Quarta fu visitata dal prof. Bencini per un controllo della vista e la fece leggere, questa sillabava e stentava con le parole. "Ma questa citta non sa leggere", esclamò stupito il professore. "Sara emozionata", aggiunse la mamma. "No, no, si leggeva proprio in quella maniera, cioè male", ricorda Vanda Castagnini, la protagonista dell'episodio. “Pochissimi sapevano legger come si doveva”. In buona sostanza l'attività di studio si poteva sintetizzare così: qualche semplice tema tipo "Cosa vedo dalla mia finestra", molto dettato, un anno intero per studiare e risentire le tabelline e spesso non bastava, un riassunto ogni tanto, poesia a memoria e problemini di una banalità e semplicità disarmanti. Arrivati alla fine del ciclo elementare appena si sapeva "legge e scrive", e questo e un concetto ripetuto da molti. Un discreto spazio era riservato ad altre attività sia comportamentali sia ricreative. Certe mattine si trattavano argomenti come l’igiene e l’educazione ossia come si stava a tavola, come si mangiava a bocca chiusa e come si teneva la forchetta e il coltello. Molto tempo, poi, era dedicato alla ricreazione e allo svago: quando la stagione lo permetteva, le nostre maestre si affrettavano ad uscire all'aperto e promuovevano senza sosta gite ai Cipressini o al boschetto dell'Arginano e altre simili iniziative. ![]() Nel 1958 una iniziativa didattica delle maestre ci tenne occupati per un paio di giorni. L’intera scolaresca fece il giro di Quercegrossa visitando le botteghe, intervistando brevemente, e fotografando con una piccola Ferrania gli aspetti essenziali degli usi e costumi del paese. La foto a fianco ritrae Caterina Costanzi che ci rappresenta una contadini in tenuta da lavoro, mentre purtroppo sono introvabili le foto scattate nella bottega del Cappelletti, in quella di Picciola e altre. Con l'arrivo di maggio il programma didattico andava a farsi benedire, preferendo una bella scampagnata a raccogliere viole per sfuggire alla monotonia della classe. In fila per due, a noi ragazzi non pareva vero. Magari poi ci davano il riassunto "Una gita in campagna". Per Natale e Carnevale il tempo era impiegato per l’immancabile recita, per la letterina ai genitori, per la poesia da leggere al presepio, che distoglievano la maestra dall'insegnamento. C’era in definitiva una grossa carenza derivata anche da programmi ormai antiquati e insufficienti a proporre creatività, concettualità, riflessione e una pur modesta ricerca. Quindi uno studio sterile con povertà di idee, e la nostra povera scuola di campagna non riusciva a formare adeguatamente, e grandi furono le difficoltà di inserimento nelle Scuole medie della città, non esclusi i più bravi. Ne ebbi la riprova quando fui mandato a Siena, in Piazza d'Armi, a frequentare la Quinta classe elementare, per poi affrontare meglio la Scuola media alle quali ero destinato. Ebbene, mi mandarono a ottobre in italiano per darmi più tempo per recuperare il ritardo dimostrato rispetto agli altri alunni e prepararmi ad affrontare il nuovo corso. Mi trovarono un maestro per l’estate, una persona seria e preparata che però non sapeva con chi aveva a che fare. Infatti, alla prima lezione di riparazione, in Fontegiusta, quando questi per saggiarmi mi rivolse la facile domanda "Dimmi il presente del verbo essere", io risposi: "Cheeee". Mancavano proprio le basi. Si vivevano poi momenti incredibili: Giorgio Rossi in Terza viene bocciato in italiano e mandato a settembre. Si presenta all'esame di riparazione e la sig.ra Grassi gli risente le tabelline e solo quelle. L'anno della mia Quarta classe con la Grassi fu l’ultimo a Quercegrossa, era il 1957. In occasione del compleanno della Bongini, la quale stava per lasciare l'insegnamento, la signora Grassi non si lasciò scappare l'occasione per rizzare una mezza recita. Dopo averci ammaestrato ben bene, muniti di bigliettini col testo, si uscì di classe. Si scesero le scale, si passò ratti, ratti, davanti alla porta dell’aula del piano terra e ci si mise zitti, zitti, sotto la finestra dell'angolo che dava sulla strada, per fare una sorpresa alla Bongini. Al perentorio comando della maestra Grassi, che usò le braccia a mo' di bacchetta, si iniziò il ritornello di un canto di sua fresca invenzione: "Affacciati alla finestra o Cesarina, cantare ti vogliam la serenata... di tutti noi bambini, sia grandi che piccini, sia buoni che cattivi, noi ti amiamo con tanto amor", e qui si allargavano le braccia per un simbolico abbraccio. Non ricordo altro, ma rivedo la signorina Bongini che a quello stonìo aprì la finestra, e rammento bene l’espressione meravigliata e imbarazzata che apparve per un istante sul suo volto. Questo si faceva nella scuola di Quercegrossa, e a quel tempo noi ragazzi svogliati non si chiedeva di meglio. |