LA VITA MILITARE DEI PAPEI
Chissà se qualcuno della famiglia Papei, avrà preso
parte al lungo conflitto che nel '500 oppose i senesi ai
fiorentini? Non lo sappiamo, ma abbiamo azzardato l'ipotesi
che, dopo la caduta di Siena, Lorenzo Papei da Belforte,
possa aver fatto parte di quelle truppe mercenarie presenti
nel territorio intorno a Casole d'Elsa. Un altro Papei,
Vincenzo, fu arruolato invece nell'esercito regolare: di lui
non conosciamo quasi nulla, né il nome dei genitori, né la
provenienza, anche se abbiamo quasi la certezza che fosse
del nucleo di Valmontone.
Dobbiamo tener presente che quando egli era militare
(intorno al 1813), i territori del Lazio e della Toscana
erano direttamente soggetti alla Francia. Napoleone era
sceso infatti in Italia per la prima volta nel 1796 e un
anno più tardi, con il pretesto di sedare dei tumulti
scoppiati a Roma, ordinò l'occupazione dello Stato
Pontificio, dando inizio alla Repubblica Romana.
Anche in Toscana, per evitare una possibile reazione
sanguinosa, il Granduca dovette cedere, nel 1798, il posto
ad un regime repubblicano sotto la protezione francese.
E proprio in questo contesto storico, s'inquadra
Vincenzo, uno degli ultimi Papei di Valmontone, che
probabilmente faceva parte di una famiglia benestante,
poichè solo le persone agiate, potevano permettersi di
accedere alla carriera militare.
Di diverso ceto erano invece le figure che abbiamo
trovato nei registri degli arruolati di Sovicille. Infatti,
fra le ottocento reclute che il comune doveva "somministrare
alla Milizia", c'era pure un Giovanni Papei (di Agostino),
nato il 4 settembre 1819, che viveva in un podere a S.Rocco
a Pilli. Questo Giovanni, è il primo Papei dei toscani
individuato come militare e, come tutti i suoi parenti che
svolsero tale servizio, faceva parte della fanteria di
stanza a Siena.
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Nel suddetto corpo erano generalmente arruolate le
persone più basse di statura, come ci conferma un registro
matricolare del 1865, attraverso il quale veniamo a
conoscenza che fra gli appartenenti alla seconda categoria,
c'era un certo Cesare (di Giovanni), garzone a Radi, alto un
metro e cinquantotto, mentre il fratello che faceva il
vetturale e si chiamava Raffaello, lo superava di "ben" 4
centimetri. Pur considerando che la statura media degli
uomini di allora si aggirava sul metro e sessantasei e che
l'altezza minima per essere fatti abili era di un metro e
cinquantasei, possiamo trarre la conclusione che i Papei
fossero persone piuttosto basse, come del resto lo era la
maggioranza.
Tutte le notizie ora riportate, le abbiamo apprese dai
carteggi conservati nell'Archivio di Stato di Siena, che
comprendono, oltre alle liste di leva, anche i bandi e le
lettere: quest'ultime erano inviate all'autorità militare,
di solito dalla povera gente, allo scopo di ottenere favori.
Quasi sempre era lo stesso pievano, tra i pochi che
sapevano scrivere, che segnalava qualche giovane perchè
venisse "scartato". Così si legge in una nota dei 1849
inviata dal parroco di S.Rocco a Pilli, per raccomandare
Giuseppe Papei, primogenito di sette fratelli, che:
"dimorava insieme con il padre Pietro al luogo detto il
Castello. Suo padre miserabilissimo si ridusse in breve in
stato d'impotenza nel suo lavoro, perchè oltre ad essere
vecchio è quasi cieco".
Nonostante che i Papei avessero avuto una vita
disagiata (si pensi come era ridotto il "padre Pietro" a
soli 59 anni), da un lato il caso o il destino, come ci
piaccia chiamarlo, sembrerebbe averli favoriti, infatti nel
XIX secolo, nessuno prese mai parte ad alcuna guerra e
per vederne qualcuno impegnato in battaglia, bisognerà
attendere il primo conflitto mondiale, quando due fratelli:
Gustavo e Adamo (di Raffaello), nonchè Guido (di Mario), si
trovarono in prima linea a
combattere gli austriaci, tantochè
quest'ultimo, il 29 ottobre 1917,
"nel fatto d'armi di S.Gabriele"
(monte che adesso è in Slovenia,
dirimpetto al Sabotino e vicino a
Gorizia), fu ferito e, come riporta
il referto medico, dovette subire
l'amputazione al 3° inferiore della
gamba destra.
Tanto è vero che per il
valoroso comportamento dimostrato
contro il nemico, il 26
aprile 1932
ricevette la giusta decorazione
della "Croce al merito di guerra".
- PAPEI GUIDO -

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Diversa sorte ebbero altri quattro fratelli: Elio,
Gino, Dino ed Enrico (di Narciso), che parteciparono
all'intera seconda Guerra Mondiale, ritornando tutti a casa
sani e salvi. Dino ed Enrico furono inviati in Corsica e
Sardegna; Elio dovette invece andare in Albania, ma
fortunatamente, l'8 settembre del 1943, giorno
dell'armistizio, si trovava in licenza a Siena e così per lui
la guerra da soldato ebbe fine.
Piena di peripezie fu invece l'esperienza vissuta da
Gino, che arruolatosi nei carabinieri, dopo un breve periodo
vissuto a Genova, fu trasferito in Albania.
Dopo l'armistizio, per sottrarsi alla cattura dei
tedeschi, decise insieme ad altri soldati italiani di
rifugiarsi sulle montagne, ove rimase fino al marzo del '44,
quando catturato dai tedeschi, fu caricato in un carro
bestiame e deportato nel campo di prigionia di Mühlberg, a
nord-ovest di Dresda.
La fortuna volle che non vi subisse alcun sopruso,
tanto che gli era permesso perfino di poter lavorare
all'esterno del campo. Non scordiamoci però che la guerra
stava volgendo al termine e la Germania era ridotta allo
stremo delle forze. Poi, come egli stesso racconta: "nel
febbraio 1945, decisi per evitare di cadere in mano russa,
di recarmi verso sud, dove sapevo che c'erano gli americani.
Incontrato un campo di prigionia con molti inglesi, decisi
di fermarmi lì ad aspettare l'evoluzione degli eventi.
Giunti gli americani fui quindi rimpatriato. Era ormai già
iniziato, se pur da poco, il 1947 e finalmente terminava la
mia vita di militare, che era stata oltremodo avventurosa,
ma anche tutto sommato fortunata".
L'unico che non tornò da questa guerra fu il
ventunenne Nello (di Cesare), che arruolatosi nel "6° centro
automobilistico" di stanza a Bologna, morì nel 1942
all'ospedale militare di Budrio (paese in provincia del
capoluogo emiliano) per cause naturali.

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Per avere una visione generale di quelli che furono i tragici
avvenimenti che si
succedettero nell'ottobre del '17, abbiamo voluto riportare uno
stralcio della "Storia del
Regno d'Italia" di Indro Montanelli. - "...Cadorna non aveva
creduto possibile un attacco
nemico in grande stile nel mese di ottobre, tanto che se n'era
andato in vacanza. Il 13 il
Generalissimo ricevette un rapporto del Servizio informazioni
secondo il quale c'era da
prevedere come "molto prossima" un'offensiva nemica nel settore
di Tolmino. Ma non si
mosse da Vicenza perchè, secondo lui, un'offensiva in quella
stagione non era pensabile.
Solo dopo che il generale Capello, che comandava la II Armata,
gli comunicò che anche
secondo i suoi "servizi" il nemico si preparava ad attaccare,
Cadorna, il 19, si decise a
tornare a Udine. Inchiodato sul fronte francese, il Comando
germanico aveva deciso di dare
una "spallata" a quello italiano, prima che l'America facesse
sentire il suo peso. Perchè
la sorpresa funzionasse, sette divisioni furono rivestite in
uniformi austriache e
spostate di notte. Alle due del mattino del 24 ottobre
l'artiglieria austro-tedesca si
scatenò battendo però solo un tratto di quattro o cinque
chilometri. Subito dopo un
battaglione comandato dal ventiseienne Erwing Rommel, destinato
a diventare la famosa
"volpe del deserto" della seconda guerra mondiale, penetrava
nella piccola breccia
spingendosi dieci chilometri alle spalle delle nostre linee.
Della drammatica realtà,
Cadorna cominciò a prendere coscienza solo nella notte fra il
26 e il 27, quando già la
stessa Udine era minacciata dalle avanguardie nemiche. Il
fronte era stato tagliato in due
tronconi e nella falla di Caporetto, larga ormai una
cinquantina di chilometri, il grosso
del nemico irrompeva a fiumana. Solo la III Armata del Duca
d'Aosta si stava sganciando con un certo ordine. Ma la II, quella di Capello era in piena
dissoluzione e ridotta a una
torma di fuggiaschi che intasavano le comunicazioni e vi
creavano il caos. Il 27 Cadorna
diramò l'ordine di ripiegare sul Tagliamento, ma pochi furono
i reparti che lo
ricevettero. In quel marasma nulla più funzionava, e il
ripiegamento si fece non per
piano, ma per fuga. Solo il 28 il Generalissimo si decise ad
annunziare la disfatta. La
catastrofe sembrava irrimediabile. Udine era caduta, Venezia
quasi alla portata delle
artiglierie nemiche, 300.000 uomini erano rimasti chiusi nella
morsa, tremila cannoni,
depositi, magazzini erano stati abbandonati, e un milione di
soldati cercavano scampo
senza sapere dove. Cadorna, che aveva molto stentato a rendersi
conto dell'entità del
disastro, stentò ancora di più a fissare un piano, cioè un
punto di resistenza. Pensava di
attestarsi sul Tagliamento e quando seppe che il fiume era
stato raggiunto dal nemico,
decise per il Piave. Ma non furono di certo le resistenze
approntate a fermare l'avanzata
nemica. Contro gli austro-tedeschi finì per giuocare lo stesso
elemento che aveva giuocato
contro di noi: la sorpresa. Essi non si aspettavano di
provocare un crollo cosi totale. I soldati di
Rommel che a marce forzate raggiunsero la sponda del Piave
avevano il vuoto alle spalle, e
dovettero aspettare quasi due settimane prima che il grosso
sopraggiungesse. E in quelle
settimane, molte cose erano cambiate, a cominciare dal
comandante supremo italiano...".
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