Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Servizi (L'Acqua) (Illuminazione) (La Posta) (Il Telefono) (La Strada) (Trasporti pubblici) (Mezzi privati) (Botteghe)



Botteghe
Tra quelle due case di Quercegrossa esisteva da diversi secoli un'osteria, in posizione strategica sulla strada a metà percorso tra Siena e Castellina, e in concorrenza con l'altrettanto antica osteria della Ripa. Luogo di ritrovo e di ristoro era posta nelle case Ticci e il viandante arrivando da Siena se la trovava di fronte.
Sconosciuta è la data di apertura, ma è verosimile che una locanda sia nata fin dai tempi della costruzione del castello negli anni intorno al 1214, sullo stesso luogo lungo la strada dove a fine Ottocento perse l'antico nome di osteria per diventare "bottega" o appalto con mescita e negozio di generi alimentari.
Comunque al di là di certe congetture non si può stabilire niente di certo in merito alla sua origine: può essere valida la teoria su esposta quando con il Castello si ebbe un notevole incremento di presenze nella zona, oppure può darsi sia molto più antica, posta in un luogo strategico di passaggio e soccorso per merci e uomini, e qui ci viene in mente il "Valico della Staggia" ricordato nel 1319.
I primi dati storici relativi ai sui gestori risalgono al Cinquecento, quando troviamo osti a Quercegrossa la famiglia Mastacchi, nota a quel tempo per gestire altre osterie del senese, e nel 1598 Simone di Pietro Mastacchi è definito oste a Quercegrossa e abita nell'hospitale di Quercegrossa con la moglie Caterina e alcuni figli. Questa indicazione del parroco di Lornano, sotto la cui giurisdizione ricadeva l'Osteria, ci fa pensare ad una provvisoria abitazione della famiglia in quanto negli anni successivi la sua dimora è sempre indicata all'Osteria. Non è da escludere che in quegli anni sia in atto una radicale ristrutturazione e ampliamento dell'edificio dopo i probabili danni subiti dal paese al tempo della Guerra di Siena 1554/55. Anteriormente a Simone abbiamo l'interessante documento del 1567 in cui l'oste di Quercegrossa Benedetto di Battista di Luca è denunciato per concubinaggio e arrestato.
Simone Mastacchi muore di malattia a 42 anni il 16 novembre 1598 all'hospitale di Quercegrossa dopo aver ricevuto i sacramenti il 12 ottobre e la gestione dell'Osteria continua con la vedova Caterina Tassi e figli tra i quali l'unico ad avere discendenti sarà Giovanni Battista nato nel 1588 e sposato con Francesca Ruffoli.
Col Seicento vediamo che Castello e Osteria appartengono alla famiglia senese dei Tantucci, i quali a metà secolo entrano in causa con le RR. MM. di S. Lorenzo di Siena alle quali avevano affittati i beni dell'Osteria comprendenti certamente anche alcune terre d'intorno. Dal 1630 al 1646 le monache non hanno mai soddisfatto il censo annuo di 130 lire e pertanto sono chiamate in causa. Nel 1653 tra i benestanti che perorano la causa della nuova parrocchia troviamo Giovanni Battista Mastacchi e questo è l'ultimo atto della famiglia perché nel 1659 la proprietà è passata ai Lottorenghi e la gestione della locanda ai Guerranti nella persona di Pietro di 39 anni con la moglie Orsola. Dalla Relazione Gherardini ricaviamo che nel 1672 all'osteria vi prendevano alloggio le guardie del Vicariato "... li stallaggi alli famegli, che alloggiano nell'Osteria di detto Luogo". Da ciò si deduce che le stalle, di cui oggi si intravedono i resti nell'edificio, sono già state realizzate da tempo, forse proprio al tempo in cui Simone risiedeva all'Hospitale. Appare, nel 1659, per la prima volta una famiglia di pigionali residenti all'osteria e sono i Franci, con Iacomo e quattro famigliari.
Tredici anni più tardi ancora una nuova gestione con la famiglia Petrilli condotta da Domenico e la moglie Orsola con cinque piccoli figli e un garzone di nome Francesco.
Dal 1685 appaiono gli Staderini, una famiglia che farà la storia dell'osteria per almeno quarant'anni anche se in questi decenni non è chiara la titolarità della gestione.
Infatti, nel 1691 vi abita Vincenzo Guerranti di 70 anni con la moglie Francesca e nel 1705 figura il già citato Domenico Petrilli insieme a Marco Staderini, sposato con Caterina, la figlia di Domenico. Ma conductor in detta "caupona" è Niccolò Franci di 39 anni con la moglie Costanza e due figli di pochi anni. Si può ipotizzare che i Petrilli e gli Staderini siano i nuovi proprietari e i Franci da pigionali siano divenuti gestori.
Interessante la novità nel nome dell'esercizio definito "caupona", nome comune per quei tempi che stava a significare locanda, osteria.
La gestione Staderini ebbe termine con l'arrivo dei Ticci delle Badesse, entrati in quella famiglia nel 1722 col matrimonio di Girolamo Ticci con Caterina di Santi Staderini. I Ticci gestiranno in proprio l'Osteria per quasi un secolo, poi l'affideranno a privati risultando nel 1818 Francesco Guerranti oste e negoziante che paga la tassa di famiglia. Un secolo dopo, con la vendita dello stabile nel 1924, i Ticci si trasferirono a Siena. Dall'eredità Staderini avevano ricevuto terre e bottega che avevano continuato a far fruttare diventando una famiglia possidente e benestante e soltanto gli ultimi discendenti, nel Novecento, si erano ridotti a vivacchiare campando della piccola rendita e di qualche modesta opra.
A fine Settecento si rammenta un'altra osteria aperta al Mulino, ma senz’altro rimasta attiva limitatamente alla gestione di Antonio Querci, il quale nel 1793 dichiara in tribunale di esser mugnaio al mulino di Quercegrossa "dove ci faccio anche osteria. Ho moglie e otto figlie e anni 52".
Cose Tra i gestori di fine Ottocento dovrebbe esserci la famiglia di Pietro Bartalozzi, pigionale dei Ticci dal 1880 al 1887, sostituiti dal 3 gennaio 1897 dagli Oretti che tengono la bottega - appalto per circa quindici anni, per consegnarla poi, nel giugno 1911, ai Castagnini Cesare ed Emilia, con quest'ultima la vera bottegaia. In quel fine secolo la rivendita di generi alimentari e di Stato si trovava nella parte sinistra dello stabile, con la mescita osteria in posizione centrale, dirimpetto alla strada.


Ingrandimento da una foto di Brunetto Rossi: la bottega con la sora Emilia Castagnini e alcuni passanti, intorno all’anno 1920.

Dai ricordi tramandati, all'epoca Oretti la situazione non era mutata e dunque è probabile che il cambio di sede, ossia l'unione in un solo locale della mescita e della rivendita, sia avvenuto con il passaggio della gestione ai Castagnini.
Si vendeva di tutto in quella bottega compresi i prodotti del Monopolio di Stato come il chinino e i tabacchi dati in "appalto" cioè in concessione al rivenditore, da qui il nome "Appalto" e "Appaltino", accostati al più ufficiale "Privativa". Con l'abbandono dei Castagnini subentrano nel 1922 i Brogi, i quali nel 1924 acquisteranno i locali del pianterreno e del primo piano.
La bottega del Brogi
Con l'alacre lavoro di Dante, dei genitori, anche se Carlo d'estate andava a "vagliare il grano", della moglie Gina e successivamente delle sorelle Alduina e Settimia, la bottega raggiunse negli anni Trenta una produttività e una affluenza mai conosciute. La casa fu messa a totale disposizione per il gioco delle carte, vennero potenziati i pallinai e avviate altre proficue, anche se stancanti, attività commerciali, come la vendita del pane a Siena: "Si faceva il pane e lo portavano a Siena, ci si levava alle due di notte si incartava tutto e si mandava ai clienti. Il sonno mi portava via e ci si alternava con Gina nel turno: “Che fai vai a letto presto e ti alzi alle due o fai chiusura”, mi diceva".
Il forno si trovava dietro casa con accanto il pollaio per rallevare i polli che spesso servivano da cena alle comitive domenicali. In quegli anni di grande impegno che vanno fino alla Seconda guerra mondiale, i Brogi si fecero carico per diversi anni anche della gestione del Circolo del Dopolavoro. La bottega divenne nelle domeniche estive luogo di ritrovo per numerose famiglie e compagnie cittadine, alla ricerca in campagna di buone merende e divertimento. Da ricordare che prima dell'apertura del Dopolavoro si ballava dal Brogi tutte le domeniche sere. Per i bisogni fisiologici degli avventori Carlino aveva realizzato un semplice quanto utilissimo gabinetto nel campino dietro casa. Aveva interrato un grosso ziro e l'aveva protetto dalla vista indiscreta con degli scopi formanti una specie di capanno. Quando al cliente gli scappava, sapeva dove andare, e così fece la Brizzi, una signora piuttosto grassa di Siena che entrò nel capannino. Improvvisamente, comincio a chiamare Carlino a voce alta "perchè non gli riusciva a legarsi le mutande". Indossava infatti dei grossi mutandoni legati davanti e dietro e da sola non arrivava ad allacciarsi e aveva bisogno di una mano. Ogni tanto Carlino svuotava lo ziro per governare l'orto.
Con l'assunzione poi del servizio postale l'onere divenne assai gravoso, ma ciò non impensieriva questa instancabile famiglia di lavoratori. Inoltre, nei mesi invernali Dante, da grande esperto, "lavorava i maiali" a chiunque lo richiedesse e ciò costituiva un ulteriore peso da aggiungere a quello di ammazzare e lavorare settimanalmente per la vendita.
Cose Entrando in bottega dovevi spostare le tende, fitte strisce metalliche snodate, messe per impedire il passaggio delle mosche. Questi noiosi insetti nella stagione calda venivano combattuti per l'igiene con unti nastri di carta moschicida, lunghi più di un metro, che pendevano dal soffitto e svolgevano tanto bene il loro compito da vedervi decine, se non centinaia, di mosche appiccicate. L'interno ti si presentava lineare con un bancone a tutta parete sul quale svettava la bilancia a due piatti dotata di diversi pesi che messi su uno dei piatti servivano per pesare gli alimenti.

Una sfuocata immagine della vecchia bottega del Brogi.

Sul banco a destra c'era il "fontino" per sciacquare i bicchieri della mescita del vino e degli alcolici come il vermouth, il vinsanto e l'albana. L'acqua presa dal pozzo finiva presto perché di bicchieri ne venivano vuotati tanti.
Addossato al muro davanti al cliente un alto mobile di colore celestino a tutta parete con decine di cassetti contenenti vari prodotti come pasta, ceci, fagioli, zucchero e altro cavati con grosse mestole di metallo dette "scarpe". Sul piano di mezzo i grossi barattoli del tonno, delle sarde e delle acciughe e tutti i sottoli e sottaceti.
In alto, sopra il bancone, attaccati a un’asta di ferro, fissata da muro a muro, tanti ganci dai quali penzolavano salsicce, salami, prosciutti, e anche costoleccio alla sua stagione. A sinistra ancora cassetti pieni di ogni merce e a terra il barilotto delle aringhe e la cassetta del baccalà alle quali facevano compagnia corbelli pieni di pasta lunga. C'era il reparto merceria, con filoforti, aghi ecc., e la vetrina per la cartoleria con quaderni, lapis e altri articoli per la scuola.
Nella vetrinetta del banco erano esposti dolci, corolle, panini "coll'uva", brioches, tutti prodotti fatti nel forno. Non mancavano marmellate e conserve fatte in casa. Nei primi tempi erano in vendita anche pezzi di stoffe. Sotto al banco di marmo, dalla parte del banconiere, venivano tenuti i vari tipi di carta utilizzati per rincartare la "roba". Vi si trovavano i famosi fogli di carta gialla, robusta, per vari alimenti, fabbricata alle cartiere di Colle; c'era poi la carta da pane, marroncina e sottile, e la carta oliata nella quale si mettevano tonno, acciughe, marmellate e prodotti oleosi in genere. Un alimento era messo sopra la bilancia con la sua carta che veniva poi piegata a mezzo e chiusa arricciolando con abilità le due parti fino a far diventare il tutto un "cartoccino" chiuso.
Vi trovavi inoltre il carburo per l'acetilene tenuto nel suo contenitore contro l’umidità e con l'arrivo della luce anche le prime lampadine ben confezionate con cartone crespato.
Non mancava niente in quella bottega e i clienti venivano da tutte le parti compreso qualcuno da Siena, da dove arrivavano con la carrozza del Becciolini. La sera, in particolare il giovedì, il sabato e la domenica, frotte di contadini e salariati riempivano i locali. Dal Giardino, da Pomona e da posti lontani arrivavano con l'acetilene per la notte perché andavano via tardi. Gosto Torzoli che viaggiava a piedi per Belvedere, dove alloggiava, comprava un quarantino di noccioline: "Metà fino alle Redi e metà a casa". Si serviva ai clienti il caffé che poi era un po' di orzo bollito e zuccherato. Una sera sentirono un sapore aspro e cattivo e cominciarono a sputare: "Ma che ci hai messo nel caffè; ha un saporaccio". Gina va in cucina a controllare e vide che la scatola della lisciva era al posto dello zucchero. L'apertura era alle 8 della mattina e la chiusura intorno alla mezzanotte anche se un'ordinanza del Prefetto stabiliva la chiusura delle osterie alle ore 23 e la somministrazione di alcolici superiori ai 21 gradi doveva limitarsi dalle 11 alle 13 e dalle 17 alle 19 con totale divieto nei giorni festivi e nei periodi elettorali.
Negli anni Trenta il Corpo dei Bersaglieri di stanza a Siena effettuava di frequente lunghe esercitazioni in bicicletta che li portava spesso a Quercegrossa, tra la curiosità di tutti. Qui si fermavano, erano una cinquantina, appoggiavano le biciclette dove capitava ai muri in piazza, ed entravano schiamazzando in bottega dove si ristoravano e bevevano, e non perdevano occasione per fare razzia: "Quando li vedevo dalla bottega, mi mettevo a piangere, ci portavano via ogni cosa". Per metter fine alla storia, dietro le lamentele del Brogi, il comandante cominciò a farli passare uno alla volta e "ci riportarono la roba rubata". Nel 1935 Dante si opera di stomaco e viene assunta Duilia del Losi che va in bici a portare la posta e aiuta in bottega, perché i Brogi non ce la facevano più a far fronte ai tanti impegni.
Infatti, in quello stesso 1935 avevano messo il distributore di benzina e il biliardo nella sala dove un tempo ballavano. Il distributore, molto rudimentale, consisteva in un bidone di benzina Agip con una pompa dentro un casottino che il Brogi chiudeva a chiave di notte. Anche la sora Emilia all'Appalto, per non restare indietro, fece altrettanto. Benzina marca Standard in un bidone su un carrello a ruote che a fine giornata metteva dentro il negozio. La storia dei bidoni durò poco, fino al 1940, poi con la crisi dei carburanti cessò la vendita e scomparvero i due distributori. Bisognerà attendere il 1956/57 per vederne un'altro davanti alla bottega di Picciola.
Nei giorni festivi dal Brogi trovavi anche il gelato e per i ragazzi era un appuntamento irrinunciabile insieme a qualche caramella. Gli portavano con la SITA delle stecche di ghiaccio rinvolte in balle e la domenica faceva il gelato nella "sorbettiera" con dentro la crema fatta da loro con le uova e girata a mano. "Noi ragazzi si faceva a gara a girare la sorbettiera perché ti davano sempre un gelato gratis". Venne la guerra e la vendita razionata di tanti alimenti con la tessera. In quel tempo e negli anni seguenti il Brogi concedeva anche lo scambio di prodotti alimentari a quelle famiglie che portavano farina e altro.
Passato poi il fronte, Quercia era piena di soldati tra cui i neozelandesi che in bottega facevano confusione: "Erano in tanti e tutti ubriachi". Allora Dante chiuse la bottega e gli dava da bere da un'inferiata dove era la porta di servizio a sinistra guardando la bottega. Tra i tanti ricordi anche quello del poro Mente che rubava in bottega fino a quando Gina lo scoprì.
Subito dopo guerra, il Brogi col Guarducci e coi Mori costituì una società per la macellazione e la vendita di carne bovina. Fu una iniziativa forse prematura per le possibilità dei tempi e il macello durò poco perché non c'era vendita e si rivelò un investimento fallimentare per i soci. Ammazzavano bovi e vitelli nel macello attrezzato sotto le case di Giotto e vendevano da quella porta accanto alla bottega con tanto di bancone da macellai. Molta la carne invenduta che la sera portavano ai macelli di Siena.
Gli anni passavano, Alduina e poi Settimia se n'erano andate con i loro mariti, così come fece Lara nel 1949. Gli anziani genitori Carlo e Zaira facevano quel che potevano e tutto il lavoro ricadeva su Dante e la moglie Gina. Poi, improvvisamente, un giorno del 1951, Dante rientrando in casa informò con lapidarie parola la famiglia: "Ho venduto la bottega". Iniziò la costruzione della nuova casa e lasciò definitivamente verso la fine del 1952. Forse era già stanco, dopo trent'anni di grandi sacrifici. O forse gli aveva dato noia l'apertura della Cooperativa, che lui aveva visto come uno sgarbo. Comunque, in quegli anni di crisi, tanti clienti non pagavano quasi mai, ma "segnavano". Gli rimase l'Ufficio postale, e alla bottega comincio l'era di "Picciola".

Picciola

Era questo il soprannome di Giuseppe Landi, contadino di Encine di Basciano, ma noto per i tanti quattrini che aveva, almeno così dicevano. Rilevò le licenze dal Brogi, ma non i locali che rimasero di proprietà di quest'ultimo. Il fratello Bruno, con la moglie Elsa e Vittorina, una sorella nubile, mandavano avanti la vendita che col passare degli anni riprese grazie alle migliorate condizioni economiche generali e ad alcuni investimenti nell'ambiente. Realizzarono il bar con tanto di banco e macchina espressa per il caffé e moderni tavolini, togliendo il biliardo, iniziarono la vendita dei gelati confezionati marca "Arvilla" e installarono il distributore di benzina "Aquila". Si narra di Vittorina che quando serviva il gelato che costava dieci lire, ogni tanto, d'istinto, gli scappasse una leccata di paletta. Rifecero completamente il banco alimentare e le nuove vetrine. Ripresero anche le merende della domenica sera e per alcuni anni i tavolini vennero sistemati anche davanti alla porta in piazza con grande affluenza di clienti. Si dice che in un pomeriggio particolarmente frequentato siano stati affettati tre prosciutti. Continuava infatti settimanalmente l'ammazzatura dei maiali il giovedì mattina in quel macello già esistente nell’edificio costruito da Giotto. Il distributore aveva due manici, uno per pompare la benzina e l'altro per l'olio; per la miscela si dovevano usare entrambi. Infatti, se a Picciola chiedevi la miscela lui rispondeva di aspettare; chiamava Vittorina perché non gli riusciva a miscelare. Una scenetta rimasta famosa si svolse verso mezzanotte, a bottega già chiusa, quando un'automobilista in difficoltà chiedeva di fare rifornimento di benzina e bussava alla porta. Picciola si affacciò alla finestra e gli disse: "Quando è chiusto, è chiusto", e tornò a letto.
Nel 1963 i Landi iniziarono la costruzione del palazzo davanti alla scuola vecchia e nel 1965 c.a. vi si trasferirono cedendo la bottega al Ciampoli, terminando così dopo poco più di un decennio la loro esperienza di commercianti.
Cose





Il nuovo distributore installato da Picciola nel 1957/58, con le mie cugine di Roma e la zia Vera in posa.

















Cose
L’appalto
Dal 1931 la rivendita dei Monopoli di Stato, ossia sale, tabacchi e chinino, viene concessa alla nuova bottega detta Privativa gestita dalla sora Emilia per essere vedova di guerra, e di conseguenza tolta alla bottega del Brogi. La sora Emilia in quel nuovo stabile di fronte al Palazzaccio vende anche alimentari e apre al gioco serale delle carte e poi del biliardo facendo un po’ d’orzo per i clienti. Nel settembre 1941 lascia alla sor Ada, moglie di Augusto Buti, che continuerà la sua gestione e quella del telefono fino al 1955 con l’aiuto della commessa Anna Bernardeschi. Entrando nella bottega appalto della sor Ada, a destra, dove è ora il salottino di Lea, c'era il banco che guardava la strada con a fianco il contenitore del sale. Facendo alcuni passi si entrava a sinistra nella stanza del biliardo e del telefono che si trovava nell'angolo opposto. Nel 1954/55 i Buti costruiscono la nuova casa, a metà strada tra Quercia e la chiesa, in Castelnuovo, e vi trasferiscono anche l’appalto, gestito fino alla morte di Ada, nel 1962, quando viene ceduto alla famiglia di Alessandro Mori. Lì i Mori rimangono un decennio circa, poi traslocano nell’attuale bar in piazza a Quercia.

Nella foto precedente il nuovo appalto a casa Buti con Pierugo in primo piano e, foto sopra, i successivi gestori Sandro e Anna Mori.


La Cooperativa
Nel 1948 per iniziativa di Ezio Losi e Vico Barucci apriva a Quercegrossa la Cooperativa di Consumo. La rivendita si trovava in quella stanza nell’angolo a sinistra del Palazzo del Barucci ex Giotto. Questa bottega dove si vendeva un po’ di tutto nacque soprattutto per venire incontro ai consumatori associati e creare un po’ di concorrenza in paese. Naturalmente faceva parte del gruppo Cooperative gestito dalle sinistre e i diversi soci erano comunisti o socialisti e fu soprattutto la loro bottega, mentre il Brogi serviva l’altra clientela. Vico fu il primo banconiere e a lui subentrò una donna della famiglia Provvedi. A lei seguì Lina Fanti, dal 1953 pigionale nella casa detta del Boddi, che sposò Dante Masti amministratore di questa e di altre cooperative come quella di Castellina che gli garantivano uno stipendio. Nel 1958 prende la rivendita Ademo Ciampoli, contadino al Castello, e dopo di lui entra Lorio Corbini nel 1960 fino alla chiusura definitiva nel 1985. I primi tempi presentarono subito grosse difficoltà, come ricorda Bruno Sestini uno dei consiglieri: “Fin dagli inizi i tempi furono difficili. Le vendite erano discrete, ma i guadagni pochi. Quando andava bene facevi pari, e spesso eri sotto. Si ricorse anche all'offerta volontaria: i contadini portarono il grano, altri dettero del denaro poi, se era possibile, si riscattava in prodotti in vendita. Le riunioni frequenti di notte: tutto volontariato. Il Provveditore faceva lo stacco: arrivava la frutta la mattina presto e c'era il Bruttini del Mulinuzzo a ritirarla”. Bruno, dai mandati fatti dal fornitore, controllava le fatture se corrispondevano, inoltre segnava la roba di scarto. L'Amministratore, come detto, era Dante Masti, poi c'era la carica di Presidente e tutte le altre tipiche di queste società. Tra i presidenti della Cooperativa si ricordano Dino Finetti, un Maremmi della Ripa e Luigi Corbini. Per molti anni la Cooperativa svolse onestamente il suo ruolo di seconda bottega, ma con l’arrivo nel 1960 dell’intraprendente Lorio Corbini si ebbe una svolta gestionale, iniziando un periodo abbastanza florido che risollevò le sorti della bottega portando in attivo il suo bilancio dopo anni di debiti. Seguono tempi di generale riorganizzazione delle Coop, come ci rammenta Lorio con una punta di polemica: “Nel 1974 vengono unificate tutte le Coop e diventano Unicoop senese. Prima di allora Quercegrossa era con Castellina in Chianti. Quercegrossa doveva essere potenziata e allora la vendita è trasferita nella bottega ex Landi dal 1 gennaio 1975, e nei locali lasciati vi si insedia la sezione del PCI. Dal 1986, dopo la chiusura a Quercegrossa, vo’ a fare il jolly in tutte le Coop della zona, alle Taverne, a Castellina ecc., fino al giorno che mi dissero che avevo i contributi per andare in pensione. Era l'anno 1995, praticamente mi fecero fuori, e mi accordai per uscire dal mondo del lavoro”. Lorio, appena entrato come venditore alla Cooperativa, dopo un inventario durato tre giorni in un ambiente che sembrava un bazar, riorganizza tutto e l’anno successivo, 1961, inizia anche la vendita a domicilio che perdurerà fino al 1975: “S'inventò il servizio a domicilio perchè la tessera di ambulante non la davano ai negozianti. I carabinieri mi controllavano spesso a Corsignano e Vagliagli. A bottega era commessa Seriana (la sorella) per i primi tempi poi Graziella (la moglie) fino al 1971. Diventava pesante andare in gita tutti i giorni allora entrò Elvio Lorenzoni e ci si alternava. Si vendeva molto di più col camioncino che a bottega. Fino al 1965 i poderi di Mucenni e Passeggeri mi offrivano in cambio farina e olio. A Monastero venne un contadino, un romano, ci mostrava un foglio che a sentir lui doveva avere dei soldi. Noi, e anche il fornaio Pucci, gli si dava a credito tanta roba. Poi un inverno si sente dire che va via. Ora ci inchioda, si pensa. Si va a Monastero per tentare di recuperare il credito e non ha niente, ma qualcosa c'era, una stanzata piena d'olive. Si prendono l'olive, si va al frantoio del Mori, si macinano e si vende l'olio recuperando così quasi tutti i soldi che ci doveva. Si prendevano anche l'ova che poi non era difficile vendere a bottega. A volte queste massaie erano ad aspettarmi per l'ova fresche, me le davano specialmente a Passeggeri e a Mocenni dove c'era un pò di miseria. I clienti l'avevo dappertutto anche nel Chianti; l'ultima gita nel Chianti si tornò con un incasso di £ 570.000”.
Macellai
Si sa che prima della seconda guerra mondiale un macellaio vendeva carne la domenica in quel seminterrato del Palazzaccio, dove poi aprirà bottega il calzolaio Cappelletti. Passata la guerra, dopo la breve esperienza della società Brogi - Mori - Guarducci, la rivendita di carni venne effettuata a Quercegrossa ancora da macellai esterni che tutte le domeniche provvedevano ai pochi bisogni della popolazione portando la carne in auto e vendendo in posti prefissati. Negli anni dopoguerra veniva il macellaio del Bozzone che vendeva nella stanza che diventerà la Cooperativa. Lo Stiaccini di Castellina, molti anno dopo, vendeva alle panchine del Mori e contemporaneamente a lui un macellaio di Siena vendeva da una stanzetta della bottega di Picciola. Ci sono dei bei ricordi legati allo Stiaccini, quando la domenica mattina scaricava alcune ceste con tanti involtini di carne rincartati di carta gialla che aveva preparato su ordinazione della domenica precedente e sui quali aveva scritto il nome della famiglia e il prezzo, e così li consegnava, oppure tagliava fettine su un robusto ceppo di quercia a tre gambe che dopo l’uso rimaneva all’interno del giardino dei Mori.
Tutto questo accadde fino agli anni Sessanta e già una folla di massaie e clienti si avvicinavano al macellaio non più per il tradizionale mezzo chilo di lesso domenicale o per le frattaglie, ma s’incominciavano ad acquistare fettine e qualche bistecca. Nel 1963, il bottegaio Ciampoli apre la rivendita di carne in una stanza di Casagrande e macella in un vicino ambiente acquistando vitelli dagli allevatori locali tra i quali il Taddei.

Non posso chiudere questo capitolo dei servizi senza ricordare quelle botteghe che sono state, come dire, all’avanguardia di una attività commerciale e artigiana assolutamente nuova per Quercegrossa e che si inserirono in quel cambiamento economico e sociale che stava modificando il paese. Mi riferisco al negozio di parrucchiera aperto da Bianca Mori nel 1958/59, alla bottega di Giorgino Leonini, riparatore di tutto nell’ex bottega del Cappelletti, e all’officina di Raffaello Mori nei primi anni Sessanta. Bianca apprese la professione nel negozio di Licia Tamburini in Via di Città a Siena, quindi iniziò in proprio a Quercegrossa con apprendista la cugina Lorenza. Poi, nel 1961, dopo aver frequentato diversi corsi di specializzazione e soprattutto aver ottenuto il diploma Artas a Firenze, aprì bottega in città, in Via Cavour, dove lavorò molti anni con l’aiuto di Luciana Sestini. Con Bianca tante donne del paese si fecero la prima permanente e si asciugarono i capelli, arricciati dai bigodini, in moderni caschi elettrici. Raffaello Mori aprì la sua officina nel 1963 lavorando nel locale della ditta Mori, detta appunto officina, fino al 1965 quando si trasferì nei locali nella casa di D’Orio Verruccio lungo la strada principale. Lasciò nel 1967 dopo un serio infortunio e in quell’ambiente gli subentrò il carrozziere Granai di Castellina.

Due immagini del bar Acli alla chiesa. Nella foto sopra: Raffaella Mori alle prese con la stufa, mentre Elio Mori legge il giornale e Gina Tognazzi fa le pulizie. In basso: Gina al banco.








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