Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Illuminazione
Fu uno degli avvenimenti più straordinari vissuti dai nostri nonni: la luce a Quercia. Erano gli anni 1930/31. Rientrata in un parziale piano di elettrificazione del territorio comunale di Monteriggioni, la linea della "luce" attraversando i boschi giungeva dal Castellare a Quercegrossa collegata alla nuova cabina, costruita vicino al Dopolavoro restando a sinistra della strada di Carpinaia. Di questo eccezionale avvenimento non restano documenti a Quercegrossa, mentre si conosce quello inviato dal Comune al parroco del Poggiolo nel quale gli si rivolge l'invito dalla Società Elettrica del Valdarno a partecipare il 18 agosto 1928 ad una riunione per "concretare l'accordo definitivo sulla distribuzione dell'energia elettrica”. Da altro documento risulta che la linea Poggiolo - Uopini era in costruzione nel 1929 e si richiede a un privato l'autorizzazione scritta per il passaggio della linea sulla sua proprietà. Fu dunque tra il 1928 e il 1930 che le terre a est di Monteriggioni vennero attraversate dai fili dell'alta tensione sostenuti da alte colonne di legno e l'energia elettrica divenne disponibile per tutti. Come punto di riferimento ricordiamo che nell'abitato di Castelnuovo B.ga il progetto per l'illuminazione del paese risaliva al 1912.

A sinistra la prima cabina della luce e a destra la nuova ricostruita dopo la distruzione della precedente fatta saltare dai tedeschi nel 1944. Sullo sfondo una delle alte colonne di legno che sostenevano i fili attaccati ai "bicchieri" di ceramica isolante identici a quelli che vediamo nella foto seguente nel particolare della nuova cabina elettrica.

Cose L'accoglienza fatta a questo nuovo servizio, apportatore di benessere, ma anche di spese, non fu delle migliori e molte famiglie rimasero ancora per qualche anno alla luce del carburo. Intanto la quota richiesta per l'allacciamento era notevole e solo pochi proprietari si precipitarono a richiederne l'installazione. Dal citato documento vediamo che per portare la luce al Poggiolo viene presentato a don Alessandro Muzzi, da parte della ditta che eseguiva i lavori e dalla Valdarno, un contratto di Lire 1.500 da pagarsi in cinque rate annue oppure all'inizio dei lavori. Facendo tutte le valutazioni possibili, pur in una situazione di totale incertezza anche nelle testimonianze raccolte, si può affermare che il primo interruttore sia stato girato a Quercia nel 1931 (nel 1932 don Grandi ha già la luce in chiesa) e la completa elettrificazione del paese si sia avuta intorno al 1934/35, in concomitanza della realizzazione dell'illuminazione pubblica voluta dal Vienni del Castello, allora podestà a Monteriggioni. Rappresentò una cosa eccezionale in quel tempo vedere la piccola frazione illuminata la notte. Si trattava in realtà di tre modeste lampadine sorrette da un braccio metallico e protette da un piatto. Spargevano la loro fioca luce sulla strada principale da un angolo del Palazzo Mori, dal Palazzaccio e dall'edificio della nuova scuola. Fatto il collegamento con tutti i maggiori edifici di Quercegrossa, si portò la luce nei quartieri. Gli inquilini erano terrorizzati dalla spesa, allora si procedette ad attaccare la luce solo nella cucine, come avvenne in casa Rossi, pigionale al Palazzaccio, e soltanto dopo anni si estese l'illuminazione a tutto l'appartamento. Alcuni pigionali e contadini preferirono farne a meno non vedendo in essa nessun particolare godimento, avvezzi com'erano da sempre alla luce dell'acetilene, sufficiente per le loro semplici necessità.
Portata la corrente, nelle stanze s’incominciò a vedere un reticolato di fili che dai contatori, posti all'interno delle abitazioni, si diramavano negli ambienti, e dagli interruttori partivano verso il soffitto e al centro della stanza dove pendeva la lampadina con suo bel piatto. La corrente era a 160 v. e frequenti erano gli inconvenienti a causa dei collegamenti e dei portalampade. Ogni maldestro intervento manuale provocava fatalmente la cosiddetta "scossa". Bastava toccare il difettoso attacco della lampadina che la scossa "zzzzzzzz", come un forte formicolio ti prendeva la mano e il braccio.
Specialmente dopoguerra, quando si diffuse l'uso del ferro elettrico con il doppio attacco alla lampadina per avere la presa di corrente, questi congegni si rivelarono micidiali per far prendere la scossa e far saltare gli impianti. Come detto, i contatori erano all'interno delle case e nel periodo anteguerra per la riscossione delle fatture passava direttamente a casa l'esattore incaricato della Valdarno preceduto dal "letturista" che leggeva i contatori.

Questa ricevuta risalente agli anni Trenta è stata rilasciata a Egisto Rossi per il consumo nella sua abitazione nel Palazzaccio. Non riporta né data né periodo tra le due letture. Il consumo di 2 Kwh veniva saldato sul posto come stabiliva la norma stampata sul retro: "Il pagamento delle fatture di energia deve essere effettuato esclusivamente sul posto di consumo e non a recapiti diversi". Stabiliva altresì che in caso di mancato pagamento sarebbe stata tolta la corrente al termine del preavviso e per il nuovo allacciamento, dopo aver saldato ogni pendenza, sarebbero state addebitate lire 10. Il consumo del Rossi di 2 KWh in due o tre mesi corrisponde più o meno al consumo giornaliero di una famiglia media dei nostri tempi.

La linea dell'alta tensione in paese era soggetta a frequenti guasti. Bastava un temporale per provocare un'interruzione dell'erogazione e in caso di burrasche e vento forte i fili si rompevano o si staccavano rimanendo ciondolanti fino all'intervento della squadra. Il tratto tra il palazzo del Mori e il Palazzaccio era il più colpito; tante volte ho visto i fili pendere minacciosamente fino al terreno producendo impressionanti fiammate di scariche elettriche, quando si toccavano.
Dopo poco tempo l'allacciamento raggiunse molti poderi. A Petroio fu realizzato nel 1935, come ben rammenta Giulio Carli allora bambino di otto anni che, incuriosito da tutti quei fili, salì sullo sgabello e allungò la mano. Volò letteralmente giù dallo sgabello per una "botta" che ancor oggi ricorda perfettamente. Con l'arrivo nei poderi s’iniziò a sfruttare la corrente per la produzione e, come primo utile impiego, molti misero il falcione elettrico per il segato.
Naturalmente anche il senatore Sarrocchi portò la luce a Passeggeri e nei suoi poderi, ma non in tutti. Oggi sembrerà strano, ma alcuni "capocci" per evidenti motivi economici rifiutarono la novità e Castagnoli, Poggiobenichi e Monastero rimasero senza luce per tutta la loro restante storia abitativa.
La stessa sorte subirono Viareggio, Gaggiola, il Casalino e Sornano. In questi luoghi, negli ultimi anni della mezzadria, il gas contenuto in grosse stagne sostituì l'acetilene.
La vecchia linea, nonostante gli acciacchi, fece il suo dovere fino agli anni Sessanta, quando la Valdarno, diventata da tempo Società elettrica Ligure Toscana, venne assorbita, come tutte le altre compagnie del settore, dalla nascente ENEL, la quale, tra suoi primi interventi, attuò nel 1964 l'intera sostituzione della linea elettrica di Quercegrossa per adeguarla alle nuove tecnologie. Migliorò notevolmente la distribuzione dell'energia e si smise, o quasi, di dire "E’andata via la luce”. Alcuni contadini furono ingaggiati nei lavori di scavo e d’innalzamento delle colonne in cemento con uno stipendio di 30.000 lire al mese e Settimio Taddei "portò uno stipendio che non si era mai visto".
Parlando con i vecchi ritorna in mente l'epoca precedente all'uso dell'elettricità, il tempo dei lumi a olio e dell'acetilene. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l'acetilene riusciva benissimo a illuminare una stanza e là dove c’erano candelieri a più braccia la luce era assolutamente soddisfacente. Quando nel 1929 venne costruito il Dopolavoro e non essendo ancora disponibile la nuova fonte di energia che proprio in quegli anni, come abbiamo visto, si stava diffondendo, per l'illuminazione si usò il carburo conservato in una piccola stanzina attigua al Circolo. Il carburo venuto a contatto con l'acqua produceva il gas detto "acetilene" che incendiato sviluppava una fiamma avente notevole capacità di luminosità. Si spandeva nelle tubature fino al candeliere.
L'acetilene divenne anche sinonimo di quel piccolo lume usato in particolare dai minatori e in tante altre circostanze. Il carburo veniva acquistato a bottega dal Brogi e conservato in un bossolo metallico per motivi ben comprensibili, lontano dall'umidità. La sera all'ora giusta ognuno prendeva la sua candela o l'acetilene e si avviava in camera.
Il padre di ogni illuminazione casalinga era però il "lume a olio". Poteva essere una semplice lucerna tenuta da un filo di ferro o da un manico, con lo stoppino che fuoriusciva dall'olio, oppure una vera e propria lampada costituita da una vaschetta e dal corpo luce con lo stoppino chiamato "calza" che affondava nell'olio della base e fatto scorrere verticalmente da una rotellina. Il tutto protetto da un vetro circolare più o meno lavorato. In casa Mori per l'uso immediato c'era attaccato vicino al focolare un piccolo, vecchio lume a olio di metallo, nero come la pece, che sembrava avere mille anni. Esistevano anche lampadari a olio con più beccucci come quelli in casa Tacconi.



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