La linea dell'alta tensione in paese era soggetta a frequenti guasti. Bastava un temporale per provocare un'interruzione dell'erogazione e in caso di burrasche e vento forte i fili si rompevano o si staccavano rimanendo ciondolanti fino all'intervento della squadra. Il tratto tra il palazzo del Mori e il Palazzaccio era il più colpito; tante volte ho visto i fili pendere minacciosamente fino al terreno producendo impressionanti fiammate di scariche elettriche, quando si toccavano.
Dopo poco tempo l'allacciamento raggiunse molti poderi. A Petroio fu realizzato nel 1935, come ben rammenta Giulio Carli allora bambino di otto anni che, incuriosito da tutti quei fili, salì sullo sgabello e allungò la mano. Volò letteralmente giù dallo sgabello per una
"botta" che ancor oggi ricorda perfettamente. Con l'arrivo nei poderi s’iniziò a sfruttare la corrente per la produzione e, come primo utile impiego, molti misero il falcione elettrico per il segato.
Naturalmente anche il senatore Sarrocchi portò la luce a Passeggeri e nei suoi poderi, ma non in tutti. Oggi sembrerà strano, ma alcuni "capocci" per evidenti motivi economici rifiutarono la novità e Castagnoli, Poggiobenichi e Monastero rimasero senza luce per tutta la loro restante storia abitativa.
La stessa sorte subirono Viareggio, Gaggiola, il Casalino e Sornano. In questi luoghi, negli ultimi anni della mezzadria, il gas contenuto in grosse stagne sostituì l'acetilene.
La vecchia linea, nonostante gli acciacchi, fece il suo dovere fino agli anni Sessanta, quando la Valdarno, diventata da tempo Società elettrica Ligure Toscana, venne assorbita, come tutte le altre compagnie del settore, dalla nascente ENEL, la quale, tra suoi primi interventi, attuò nel 1964 l'intera sostituzione della linea elettrica di Quercegrossa per adeguarla alle nuove tecnologie.
Migliorò notevolmente la distribuzione dell'energia e si smise, o quasi, di dire
"E’andata via la luce”. Alcuni contadini furono ingaggiati nei lavori di scavo e d’innalzamento delle colonne in cemento con uno stipendio di 30.000 lire al mese e Settimio Taddei
"portò uno stipendio che non si era mai visto".
Parlando con i vecchi ritorna in mente l'epoca precedente all'uso dell'elettricità, il tempo dei lumi a olio e dell'acetilene. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l'acetilene riusciva benissimo a illuminare una stanza e là dove c’erano candelieri a più braccia la luce era assolutamente soddisfacente. Quando nel 1929 venne costruito il Dopolavoro e non essendo ancora disponibile la nuova fonte di energia che proprio in quegli anni, come abbiamo visto, si stava diffondendo, per l'illuminazione si usò il carburo conservato in una piccola stanzina attigua al Circolo. Il carburo venuto a contatto con l'acqua produceva il gas detto "acetilene" che incendiato sviluppava una fiamma avente notevole capacità di luminosità. Si spandeva nelle tubature fino al candeliere.
L'acetilene divenne anche sinonimo di quel piccolo lume usato in particolare dai minatori e in tante altre circostanze. Il carburo veniva acquistato a bottega dal Brogi e conservato in un bossolo metallico per motivi ben comprensibili, lontano dall'umidità. La sera all'ora giusta ognuno prendeva la sua candela o l'acetilene e si avviava in camera.
Il padre di ogni illuminazione casalinga era però il "lume a olio". Poteva essere una semplice lucerna tenuta da un filo di ferro o da un manico, con lo stoppino che fuoriusciva dall'olio, oppure una vera e propria lampada costituita da una vaschetta e dal corpo luce con lo stoppino chiamato "calza" che affondava nell'olio della base e fatto scorrere verticalmente da una rotellina. Il tutto protetto da un vetro circolare più o meno lavorato. In casa Mori per l'uso immediato c'era attaccato vicino al focolare un piccolo, vecchio lume a olio di metallo, nero come la pece, che sembrava avere mille anni. Esistevano anche lampadari a olio con più beccucci come quelli in casa Tacconi.
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