Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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(Personaggi 1) Beppe e Alduina/Scoiolo/Il Pallassini/Il Moro/Vico e Ottorina/Cisbone e il gioco
(Personaggi 2)
Il Mosca/Il Coccheri/Feo/Il Tanzini/Osvaldo/Emilia la bottegaia/Mondo zucchino
(Personaggi 3)
Il mi' nonno Egisto/ La mi' nonna Ersilia/Il buon fattore
(Personaggi 4)
Gina:operaio o contadino?/Picciola/Pino/Pierina la peste



Il mi’ nonno Egisto
Un uomo del suo tempo, come tanti altri: grandi lavoratori con qualche vizio...
Si può dire, infatti, che il mi’ nonno, oltre alla dedizione per la famiglia mai venuta meno, coltivava un'altra passione, nella quale, purtroppo, eccedeva un tantino: beveva, o meglio "pigliava le sbornie”. “Il vino, poromo, gli piaceva. Ma beveva se trovava la compagnia, da solo un beveva”. Fin da giovane l’attrazione per il bicchiere del vino lo aveva preso, come una droga, e lui gli corrispondeva in pieno, senza remore, e maggiormente nell'età adulta. In qualsiasi posto, di fronte al fiasco non diceva mai di no. Una sera a Tolena si sono attardati a sfogliare il granturco e a chiacchierare. E' mezzanotte circa e arriva il Pante con un fiasco di vino. Alle tre bussano alla porta di Ersilia e un po' vigliaccamente gli dicono: "Oh, se vuoi il tu' marito vieni a pigliarlo".
Tornando da Montarioso, accadde più di una volta che Egisto non riuscisse a raggiungere casa con le proprie gambe: "Era operaio di Festa e andavano a Montarioso. Festa era padrone della villa dove è ora la commenda. C'erano anche dei contadini. Andavano a zappare, a svinare e spesso ce lo riportavano ubriaco. Venivano a piedi e non ce la faceva. Tutto questo quando si stava al Mulino".
Era consapevole e rassegnato a questo vizio. Quando, negli anni Quaranta dopo la morte di Ersilia, la famiglia riunita in un clima di pace e nel benessere del dopo pranzo domenicale, la figlia maggiore Gina gli rammentava accorata: “Ora che s'è mangiato, bevuto e chiacchierato che bisogno c'è che andiate all'osteria a bere". "Oh bambina", rispondeva lui filosoficamente, "Hai ragione, ma noi che s'ha questo vizio siamo come quelle donne che vanno con l'omini". Non erano bastati i continui rimproveri di Ersilia a fargli perdere il vizio "tanto lui non gli dava retta". E come erano dovuti andare a prenderlo per la strada di Montarioso, perché infiacchito dal vino non riusciva a proseguire il cammino, così l'avevano dovuto cercare in Carpinaia, dove, in una notte più nera delle altre, in cui lui ubriaco fradicio, ma conservando un minimo di ragionamento, si era rifugiato per non impaurire le figlie, e poi si vergognava a farsi vedere in quello stato. Mise tutti in allarme: "Per non impaurirci si diresse verso la Carpinaia per passarvi la notte. Si trovò a notte alta. Non volevo farvi paura, ci disse". Troppo frequenti erano queste scene per non far perdere la pazienza a Ersilia prima e Gina poi: "Una sera rientrò il babbo ubriaco, s'era tutti a letto. Lui dormiva con me (Piera). Si presentò tutto nero in faccia perché era cascato e si era messo della cenere sopra le ferite al viso e mi fece paura. Mi chiese di levargli le scarpe. La mamma andò a bottega con una scarpa sola da quanto era arrabbiata per protestare col bottegaio". “Tutte le domeniche rientrava o brillo o briaco”.
La mamma, fuori di sé, andò a protestare col bottegaio. Ma cosa poteva fare costui? C'erano i soliti personaggi che si divertivano nelle disgrazie altrui e pigiavano sull'accelleratore anche quando non c'èra bisogno. La debolezza di Egisto era conosciuta e questi elementi non perdevano occasione per offrirgli da bere e tenerlo, tra una battuta e l'altra, divertiti e soddisfatti, fisso al banco, bicchiere dopo bicchiere, per poi riderci. Erano Gosto di Torzoli, Mariano di Fonterutoli, il Mugnai, il Bianciardi e, più di tutti, un certo Trombe della Ripa. Allora Gina affrontò a modo suo l'argomento e chiese a Dante il bottegaio: "Chi sono quelli che fanno bere il mi babbo? Lui me lo disse, allora incominciai a barzellarli. Una sera mi chiamano: "Guarda che gli fa bere un bicchiere dietro un altro". Andavano nel salottino nel retrobottega a bere e giocare. Io affrontai questo aizzatore e gli dissi: "Non ti vergogni a far bere il mi babbo, lo sai quanti figlioli siamo". Giusto quanto inutile e ingenuo rimprovero. Il vizio di Egisto era più forte di lui. Si diceva anche che per mantenerselo avesse venduto gli ori di famiglia. La famiglia Rossi era tornata verso S. Rocco nel 1893 e il mi’ nonno Egisto era già un giovanotto con pochi quattrini in tasca e tante voglie all’osteria. La mamma Maria aveva ereditato alcuni “ori” della famiglia Fineschi: vezzi, anelli, collanine, e conservava in casa questo piccolo tesoro. Un giorno si accorse che qualche pezzo era sparito e ben presto capì che suo figlio Egisto, un gioiello per volta, gli stava rubando le sue gioie per rivenderle. Non fece tragedie, ma per evitare ulteriori problemi scelse di donare i rimanenti ori alla Madonna di S. Rocco, che per tradizione riceveva questo tipo di doni con i quali era adornata. Oggi non so che fine abbiano fatto.
Egisto viveva in un rincrescimento continuo. Nelle sbornie, anche le più brutte, manteneva un barlume di conoscenza, e dalla vergogna sfuggiva i familiari e spesso "andava in Carpinaia a vomitare" prima di rincasare.
Se è vero che il carattere di un uomo si rivela nei suoi stati di ebrezza, ecco che il nonno si svelava uomo coscienzioso e padre attento e mai prepotente. Non era violento come certi bevitori, solamente si abbruttiva "faceva paura a guardarlo", e quando cascava batteva la faccia, la testa, e si insanguinava tutto. Se rientrava a casa col cappello ritto sulla fronte, l'aria smarrita e appallottolava la parola, capivano che era il caso di stare attenti e lo mettevano subito a letto.
Quando stavano al Mulino e rientrava brillo da Quercia, dalla Carpinaia incominciava a chiamare Ersilia: "Panzana!", che stava per “Panzanella” come lui chiamava affettuosamente la moglie. "Panzana, vieni a pigliarmi, non cammino". “Oh mamma”, diceva Gina, “Come farà quest'uomo a tornare”. “Faccia come vuole, io non ci vo”. Allora lo zio Mario: Zia, ci vo io a prenderlo". In quegli anni spesso tornava con Mente del Ciupi delle Gallozzole. Tutti e due sbronzi si tenevano l'un l'altro e, barcolla, barcolla, arrivavano al Mulino. La stessa scena si ripetè tante volte quando rincasava a Quercia e dal fondo delle scale del Palazzaccio, che non riusciva a salire, chiamava lamentoso: “Panzanaaaa!”. La sua voce si perdeva nel corridoio del Palazzo perché Ersilia, nell'intento di dargli una lezione, non rispondeva, oppure "No, non ci vengo", ma poi ci andava. Non mancarono comunque ruzzoloni dalle scale e altri inconvenienti: “Una sera il babbo sbronzo perse il portafoglio. Due giorni dopo andavo (Gina) al cimitero di Petroio in bicicletta e mi fermò Cacino del Guiggiani. Ernesto mi chiese se il mi’ babbo aveva perso il portafoglio e risposi di si. L'ho trovato io, mi disse, e me lo restituì. Non mancava niente. Questo Cacino sposò Elia di Landi la sorella di Fino”.
Cosa curiosa e insolita il mi’ nonno aveva un suo personalissimo metodo disintossicante: "Anche quando c'era la mamma (fino al 1940), il lunedì non andava a lavoro se la domenica aveva bevuto tanto. Stava a letto e beveva acqua tutto il giorno; a volte chiedeva un cantuccino di pane che zuppava nell'acqua". Ma tutto fu sempre perdonato a quest'uomo che bilanciava la sua "passione" col sacrificio di gravi lavori svolti fino a pochi mesi prima di essere chiamato all'incontro col destino nel 1947, e ancor di più per il suo comportamento irreprensibile e premuroso in famiglia: "Quando non beveva era normale". Si accontentava di poco nella vita: un mezzo sigaro in compagnia; una tirata di pipa e la partita a briscola dal Brogi o al Dopolavoro: “Il nonno Egisto fumava il sigaro che accendeva dopo cena e poi scappava: "Arrivederci a mezzanotte". Nei giorni feriali fumava la pipa che puliva continuamente”.
“Il mi' babbo fumava. Spesso fumava le scorze di vite che, truciolate, metteva nella pipa perché non aveva quattrini. Quando gli avanzava qualcosa, comprava un sigaro con un diecino”
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E poi aveva anche un terzo amore: il bruscello. Egisto non era di quegli uomini chiusi, scontrosi e senza amici. Al pari della moglie la sua presenza in paese era abituale a tutti e con tutti legava e questa sua esperienza la viveva come momento d’amicizia e socialità. Povero, ma dignitoso! E' il pensiero di Adelmo Finetti, che così lo ricorda: "Il giorno, soprattutto nell'inverno, veniva a mangiare da noi quando era a Macialla, però mangiava del suo. Si metteva nella panca, accanto al fuoco, poi bevevano un bicchiere di vino". Però mangiava del suo, ripete più volte Adelmo a rimarcare il concetto. “I Finetti erano una famiglia di anziani e il nonno Finetti era bevitore come lui; si intendevano”. Erano gli anni 1938/39 al tempo del Vegni e di Pietro fattore. I figlioli, in segno di rispetto e come costumava allora, gli davano del "voi" e non ho mai sentito una parola di critica nei suoi confronti.

Una ricetta medica ad uso di Dante Brogi ritrovata nel borsello di Egisto Rossi. Dante venne operato di stomaco l’anno seguente e può darsi che Egisto gli abbia chiesto di quelle pillole che facevano tanto bene, avvertendo probabilmente gli stessi sintomi di mal di stomaco, il male che lo porterà alla morte 12 anni dopo.

Ma come tutte le storie anche quella di Egisto Rossi detto "Palle", doveva finire. E finì nel modo peggiore, nella sofferenza di un male incurabile che lo tormentò per gli ultimi due anni della sua vita terrena. Quando apparvero i primi sintomi della malattia fu portato all'ospedale e ricoverato dal prof. Bolognesi che gli diagnosticò un tumore allo stomaco: "Se si opera è rischioso", e lui non si volle operare. Patì fino all'ultimo giorno. Andava sotto il noce dello Stanzone, si sdraiava in terra a bocconi e uggiulava dal dolore. I figli si adoperarono in mille modi per lenire la sua tremenda sofferenza. Da Roma, Guido tornava più spesso per iniettargli delle medicine, e anche Gino in viaggio di nozze: "Al tempo della malattia del babbo Egisto, va a Roma in viaggio di nozze perché là abita lo zio Guido e poi per prendere delle punture di un medico che si diceva guarivano dal carcinoma".

Leprino

Egisto è già allettato dal quel brutto male che lo porterà alla tomba, quando una mattina di inizio giugno del 1947, battono alla porta di casa Rossi. La 17enne Pierina va ad aprire. Si trova di fronte una signora sulla sessantina, sconosciuta, vestita con una certa eleganza, la quale in modo spicciativo chiede se c'è Leprino. "Leprino?”, risponde sorpresa Pierina, rimanendo interdetta di fronte a questo nome sconosciuto. Allora la signora aggiunge: "Sono la sua sorella Giulia e sono venuta a trovarlo". Giulia Rossi era, infatti, la sorella di Egisto, ma in casa del fratello nessuno la conosceva; nessuno dei nipoti l'aveva mai vista, esclusa Maria ora sposata in casa Mori. Dopo la morte dei genitori aveva lasciato i fratelli Beppe e Tonio al Poggiolo per prendere servizio presso il Conte di S. Apollinare al Ruffolo e successivamente dal possidente Ciacci di S. Petronilla, vivendo con entrambi più da padrona che da serva. Ora, saputo della malattia del fratello, si era decisa, dopo tanti anni, a visitarlo. Lo chiamava ancora Leprino, il soprannome che gli era stato dato ai tempi di Pievasciata, quando Egisto, giovanotto, la sera scappava di nascosto da casa per andare all'osteria. "Vo a veglia nella stalla", diceva alle donne in casa. Invece buttava i panni buoni dalla finestra, e, svelto come una lepre, si cambiava al buio e prendeva la strada dell'osteria per giocare a carte, fumare e bere. Per questo venne chiamato Leprino, e Giulia era rimasta a quei tempi.
La medicina miracolosa del professore romano, e la sua eterna illusione, non fece effetto, e come l’orologio del tempo cessa inesorabile di girare per tutti, per il mi’ nonno si fermò il 16 luglio del 1947, alle ore 21,30, "ricevendo tutti i conforti di N. S. G.". Con la sua morte persi l'ultima possibilità di trovare vivente alla mia nascita, avvenuta il mese successivo, almeno uno dei quattro nonni/e che per diritto spetterebbero a tutti. Ma così va la vita, e il nonno raggiunse Ersilia che l'aspettava da sette anni.



Cose La mi’ nonna Ersilia
Era stato nel 1940 che nella ancor giovane età di 48 anni, la mi’ nonna Ersilia Rodani in Rossi fu colta improvvisamente da forti febbri. Venne curata dal dr. Raspi e da altri. Febbri intestinali, dicevano, e per queste la curavano, ma aveva e fu vittima della "pleurite con l'acque", e solo pochi giorni prima di morire fu ricoverata all'ospedale.
Il dr. Barni si prese cura di lei e una volta il nonno Egisto si permise di dirgli se era il caso di un consulto col prof. Vegni di Macialla. Appena detto ciò il Barni lo chiappò per il petto e gli berciò in faccia: "Che hai, non ti fidi più di me?". Ma di nascosto Egisto chiamò il professore, il quale fece ricoverare immediatamente Ersilia, ma non c'era più niente da fare. Era andata avanti da tempo con un cristere al giorno e un brodino leggero; era consumata. All'ospedale ci dissero: "Ma chi l'ha curata questa donna". La nonna Ersilia aveva dei bei capelli neri, e ne aveva tanti. In vita sua non avevano mai visto forbici, non li aveva mai tagliati. Quasi tutte le mattine li scioglieva e gli coprivano la schiena. Poi li raccoglieva a crocchia, tenuta da numerose e grosse forcelle. Ma quando fu ricoverata all'ospedale davano noia, e gli vennero tagliati; ma quanto pianse.
Dopo un mese di degenza il prof. Izzo parlò con lo zio Guido e gli disse che non poteva farle più niente. La portarono a casa a morire in quella camera con la finestra sulla strada, e la mi' nonna distesa sul suo letto disse: "Oh! Come ci sto bene". Dopo il ricovero "Nanni di Guarducci andava lui a prendere l'ossigeno per Ersilia, con il calesse, alla farmacia da Bindo (Minucci). Raccontò che in uno di questi viaggi una civetta l'accompagnò per tutto il viaggio. Presagio di sventura dissero; poco dopo la povera Ersilia morì". Il paese intero si fece partecipe al lutto: “Per il funerale di Ersilia la maestra portò tutta la scolaresca. Quando l'ultima persona uscì di chiesa la croce era già all'Olmicino”. La sua tomba era quella subito a sinistra del cancello del cimitero di Petroio. Inconfondibile fra tutte perché racchiusa da quattro catenelle attaccate con piccoli anelli a sei paletti di ferro, forgiati con le proprie mani dal figlio Nello, apprendista fabbro alla Ripa. La ricordo con mestizia, era già tutta arrugginita ai miei tempi, come i paletti che terminavano con delle pine ben fatte. Nel triste giorno dei morti era sempre la prima tomba ad essere visitata. Si recitava un "Eterno riposo"e dopo si baciava, abituati fin da piccoli, la sua immagine nell’ovale, sulla pietra, con la scritta ormai quasi illeggibile. Poi un giorno tutto scomparve, la tomba, le catenelle, la foto. Ci rimase solo la memoria.
Ersilia, nel pieno della sua gioventù, quando la mente è rivolta ad altre aspirazioni e sogni, si unì in matrimonio ad un ruvido bracciante di 35 anni, il quale, con la sua povertà e senza un soldo in tasca, prometteva solo un futuro di stenti e patimenti. Ma Ersilia fu ubbidiente al babbo Giuseppe e, secondo la sua natura di donna pratica e coraggiosa, rimboccatesi le maniche sarà moglie fedele, e nella sua vocazione di madre educherà e ralleverà i suoi figli e vivrà così quella sicurezza che solo la famiglia poteva darle. Mai una parola di sconforto, un lamento, un rimpianto usciranno dalla sua bocca. Egisto dal canto suo, non è più un giovanotto. Sente il bisogno di formarsi una famiglia, di una moglie e di tanti figlioli per guardare con tranquillità ad un futuro lontano. "Ma perchè gliela avrà data, il mi' nonno Giuseppe, la mi' mamma al mi' babbo", mi dice la zia Gina quasi piangendo. Lei, la figlia maggiore, donna di casa, deve aver intuito una così evidente differenza di età tra i genitori. Si dice, per rispondere all'interrogazione di Gina, che Ersilia avesse qualche problemino di salute, di polmoni, come la sorella Violante che sarebbe morta poco dopo, e a causa di ciò il babbo Giuseppe non avrebbe esitato a darle una sistemazione prima che fosse troppo tardi. Ma, se vero, questo timore si rivelò infondato perché Ersilia fu la salute in persona, anzi donna robusta e resistente alle fatiche dei cento lavori intrapresi per sbarcare il lunario. Una ulteriore riflessione ci porta a considerare il fatto che delle due sorelle Egisto doveva sposare Violante, la maggiore (come usava), ma essendo questa malata di petto, prese la minore.
Ersilia, donna devota, rallevò i figlioli nel timor di Dio e nella pratica religiosa con molta esigenza: "Va bene giocare a carte o a palline, ma prima si va alle funzioni e dopo a giocare". Alla predica pomeridiana vedevi il figlio Gino, puntuale, ascoltare seduto sui gradini dell'altare.
Sempre premurosa verso i suoi ragazzi: “Quando lo zio Nello (lavorava da fabbro) entrò in miniera la mamma non voleva perché doveva imparare un mestiere”. Dopo la sua morte fu rispettato il periodo di lutto per tutto un anno e la filiale riconoscenza pregò per lei ogni giorno. Se l'era guadagnato il riposo eterno, la mi' nonna. Infatti, dal canto suo, fin dal primo giorno di sposa, non era rimasta a guardare e di fronte a stringenti necessità dà il suo responsabile sostegno all’economia familiare; per mangiare a dirla in breve. A detta di chi l'ha conosciuta era una donna capace, decisa e mite al tempo stesso, e si faceva benvolere da tutti. Emilia, che lavava il bucato alle fonti del Castello, la conosceva bene perché avevano trascorso insieme mattinate intere, gomito a gomito, sciacquando e strizzando panni, diceva a Gina: "Una donna brava come la tu' mamma non ce ne sarà più". Moglie e madre esemplare, come si diceva, e infaticabile lavoratrice. Arriva "la Palla" dicevano, quando lesta, lesta si affrettava verso qualche lavoretto che le avrebbe consentito di ricevere un compenso. Ricorda Piera: “Quando la mi’ mamma tornava la sera, si metteva a sedere sulle scale, stracca morta, a chiacchiera con Virginia Carletti e Ida Losi. Io, di pochi anni, gli andavo in collo, ma lei mi allontanava da quanto era stanca. Si alzava alle cinque e dopo le faccende andava quasi sempre dai contadini e spesso tornava a buio. I contadini gli davano panieri d'uva e altri prodotti secondo la stagione e questi, spesso pesanti fardelli, li portava a casa. Tante volte tornava da Damino del Losi, cui era più assidua nell'aiutare, mi prendeva e si andava a piedi alle Badesse a trovare la nonna e dare una mano alla zia Lisa in casa Rodani. Si rimaneva la notte e si tornava il giorno dopo”.
Partiva ad ogni stagione: a settembre la trovavi dai contadini a vendemmiare: "Andava a vendemmiare una giornata e riceveva un panierino d'uva dal Taddei, dal Losi. Si attaccava nel palco sopra il gabinetto e ci bastava tutto l'inverno". Tutti la chiamavano forse per una tacita solidarietà: "Ci vieni a zappà le viti; ci vieni a segà; ci vieni a vendemmià". Allora mi prendeva con sè: "Vieni anche te, così ci danno un paniere d'uva in più”. Prodotti in natura erano la solita ricompensa per il lavoro svolto: "Quando potavano andava a raccogliere e affastellare i viticci per i contadini in cambio di alimenti". Con i suoi ragazzi "andava a far legna nella scopaia della Casanova e nei boschi del Casalino. A noi ci faceva i fastelli più piccini". "Quando buttarono giù il bosco a Riccieri, Egisto era salariato della fattoria e tutta la famiglia Rossi andava a sistemare le cataste. Poi raccoglievano le olive a Riccieri e anche la raccolta di spighe per la mietitura". Questo lavoro di raccolta continuò ancora per molto in casa Rossi: “Nel bosco del Mori al sasso, o in quello del Bindi, s’andava a fare le fastella. La zia Gina aveva legato un pennato in cima ad una pertica e con questa tirava giù i rami secchi. Le fastella fatte si tenevano nella legnaia, al di sopra della scuola, dove avevano un piccolo magazzino tutti i pigionali del Palazzaccio”.
Altre immagini della memoria: "La mi’ mamma andava a cercare la coccola di ginepro, la pania, i vinchi per fare i panieri, lungo i borri, anche con noi figliole".
Lavandaia a tempo pieno, lavava per la famiglia Tacconi. Partiva con le figliole, in tutte le stagioni, per la fonte del Losi, in mezzo ai campi, esposti a tutte le intemperie. "Si caricava un palo davanti e di dietro e si portava a spalla". Lavava bucati anche alle fonti del Castello e alla gora del fiume al Mulino. Probabilmente la pleurite se la prese con questo lavoro.
Nelle nove maternità allattò i suoi figlioli per almeno un anno con grande abbondanza di latte e sfruttò questo generoso dono della natura per guadagnare qualcosa fossero i pochi spiccioli avuti dall'ospedale per nutrire un orfanello nel 1914, o qualche ricompensa dai Tacconi vicini di casa, quando allattò i figli della fattoressa. Inoltre: “Anche quando nacque Maria (1922) prese una di Tregole da allattare."Venivano i genitori a trovarci e mi chiesero se volevo andare a Tregole (per alleggerire la famiglia). Ci pensai e accettai. La prima notte passata con loro gli buttai per aria la casa. Volevo andare dalla mia sorellina”. E Gina venne riportata a casa. "Ersilia lavorava tutti i giorni" e visse come quella rondine che si ritrovò un nido troppo affollato dove tante creature pigolavano in attesa di un verme e di un lombrico che lei instancabile cercava volando in qua e là, e a volte non bastava per nutrire tutti. Così era in casa Rossi ai tempi della mi’ nonna.



Il buon fattore
C'era una volta… un principe direte voi. No, c'era una volta un fattore e da quanto era buono, nelle fredde e limpide giornate del primo inverno, portava ai bambini del Rossi, salariato della fattoria di Pomona, i quali, infreddoliti, aiutavano il babbo nella raccolta delle ulive, portava, dicevo, uno scaldino il cui calduccio rinvigoriva le gelide manine. E quando, nei poderi da lui amministrati, capitava una famiglia povera, che più povera non si può, e con tanti figlioli, lui li aiutava inviandogli continuamente qualcosa da mangiare, di nascosto al tremendo e insensibile padrone. Eh, questa è un'altra novella per la veglia, penserete, e invece no! Questo fattore è realmente esistito e si chiamava Pietro, Pietro Tacconi, la bontà impersonificata. Le qualità umane e compassionevoli traspiravano dalla sua alta e snella figura. Si presentava con modi e atteggiamenti semplici e al tempo stesso garbati, educati e familiari che infondevano fiducia e contraddicevano vistosamente il modello del fattore inteso universalmente. Calmo e conciliante con tutti, non lesinava il suo aiuto a nessuno, e per i più bisognosi, fossero essi contadini, mendicanti, frati da cerca, operai in cerca di lavoro, c'era sempre il Tacconi a cui rivolgersi. Persona corretta e apprezzata nel popolo di Quercegrossa, del quale fece parte dal 1924 al 1956, componente di quelle famiglie "rispettabili" che, anche in una modesta comunità come la nostra di quel tempo, si distinguevano per economia e professione. Uno dei privilegiati benificiari della sua sensibilità fu anche il mi’ nonno Egisto Rossi per il quale trovò sempre fino agli ultimi anni un lavoro da eseguire nei poderi da lui amministrati. Molti avevano soggezione della sua persona e stentavano a chiedergli piaceri. Quando partiva col calesse per Siena, a volte gli veniva chiesto timidamente un passaggio che lui mai rifiutava. La sua presenza era discreta: si muoveva quasi in sordina. Lo potevi vedere, di sfuggita, girellare nel suo giardino, poi sembrava svanisse, mentre invece partiva per i suoi poderi, per il suo lavoro che lo assorbiva completamente. Il figlio Alberto ereditò la professione praticandola in una maniera, diciamo più moderna, da ragioniere, e si spostava con la sua rinomata Giardinetta, acquistata dopo una Topolino.
Tacconi Pietro è a noi vicino nel tempo essendo deceduto nel 1956. Fattore dei Festa nei poderi di Montarioso, Mulino e Casanuova e poi di Macialla e di altri, la sua immagine è sempre vivida, e così l’ho presentata come meritava.

Il fattore Pietro Tacconi con la moglie Franca Finucci “la fattoressa”.




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