(Personaggi) Beppe e Alduina/Scoiolo/Il Pallassini/Il Moro/Vico e Ottorina/Cisbone e il gioco
(Personaggi 2) Il Mosca/Il Coccheri/Feo/Il Tanzini/Osvaldo/Emilia la bottegaia/Mondo zucchino
(Personaggi 3) Il mi' nonno Egisto/ La mi' nonna Ersilia/Il buon fattore
(Personaggi 4) Gina:operaio o contadino?/Picciola/Pino/Pierina la peste
Il Mosca
Quando ero ragazzetto, intorno al 1957/58, tutte le sere puntuale arrivava a Quercia un noto personaggio detto
“Il Mosca”. Mosca veramente era il suo cognome, ma così veniva appellato. Abitava nella villa dell’Arginano perchè aveva sposato una delle sorelle Cateni, proprietarie della fattoria. Uomo alto e distinto, cappello sulla magra faccia dalle gote infossate, avvolto quasi sempre in un cappotto elegante, che ben si adattava alla sua snella figura, arrivava a Quercia a piedi preceduto dal forte drusciare dei suoi scarponi sull’asfalto ed entrava nell’ufficio postale dal Brogi a ritirare la posta. In quegli anni non era più padrone di niente avendo la moglie ceduto la proprietà alla sorella, ma era pur sempre considerato padrone. Di origini svizzere, del canton tedesco dei Grigioni, era uomo di discreta cultura: a detta di tutti parlava quattro o cinque lingue, che, come abbiamo visto, fecero comodo durante la guerra quando molti si avvalsero delle sue traduzioni o venne chiamato ad ammorbidire certi tedeschi. Persona seria, autorevole e corretta, era un signore dal carattere bonario, salutava tutti e quando parlava mai una parola fuori posto. Era anche un uomo di carattere, secondo un contadino che l’ha conosciuto bene:
“La parola era un contratto e non ti mancava di rispetto; una degna persona”.
Possedeva però una innata propensione agli affari, agli investimenti, rivelatasi poi, purtroppo, deleteria, in quanto, forse meno abile di quanto pensasse, fu il responsabile diretto del tracollo economico che coinvolse lui e la moglie. Aveva investito nelle miniere di Bossi, associandosi a certi affaristi svizzeri, e firmato un capitale in cambiali. Ma i soci si rivelarono privi di scrupoli e al momento delle prime insolvibilità si diedero a gambe levate ritornando in Svizzera, lasciandolo indebitato. Il Mosca rimase, si può dire, con un pugno di mosche, e solo una urgente e opportuna manovra, suggerita dal cognato avvocato Bindi, il quale consigliò di vendere immediatamente i beni della moglie per salvarli dai creditori, evitò il tracollo. In una notte fecero i contratti e i poderi passarono da Cesira a Romilda Cateni nei Bindi. Anche altre sue iniziative intraprese prima e dopo le miniere di Bossi si rivelarono fallimentari e non ebbero seguito come l’attività mineraria nei piani del Mulinuzzo.
“Aveva proprio il pallino dell'investire e voleva realizzare alla villa di Santa Colomba una fabbrica di ceramica e vasellame, ma anche lì falli. Aveva la mania dell'imprenditore”. Un’altra attività avviata e chiusa fu quella della fabbrica di scatolette, già rammentata in queste pagine.
Il Mosca è rimasto nella storia di Quercegrossa, oltre che per gli affari, anche per il suo continuo, quasi ossessivo, camminare giornaliero, che lo portava a macinare decine di chilometri. Spesso la mattina andava a Siena e non c’era speranza che prendesse qualche servizio. Di solito le sue passeggiate le compiva nel circuito Quercegrossa, Vagliagli, Corsignano, Colombaio e Arginano ed era quella da lui chiamata semplicemente “una passeggiatina”. D’estate si copriva il capo con un grande fazzoletto legato sotto la gola. Macinava scarponi come il grano, per questo spesso lo si trovava a sedere nella bottega di Landino coll’amico Frasi di Siena e la damigiana del vino accanto. Bevevano in allegria, mentre il Mosca raccontava le sue tante avventure, senza dimenticarsi di raccomandare ogni tanto a Landino di metterci le bullette grosse negli scarponi per via della camminata in cadenza che usava ascoltarsi. Presa dimora a Siena, ormai anziano venne investito da un’auto e poco tempo dopo morì. Anche la conosciuta sua figlia e apprezzata scrittrice Anna Mosca è deceduta di recente in tarda età.
Il Coccheri
Contadino e minatore Gino Travagli visse a Quercegrossa da uomo perbene e da esperto artificiere conosciuto da tutti come
“il Coccheri”.
Verso le 9 di una mattina Dante Oretti era a far colazione in casa quando si sente chiamare da Gino Travagli, allora contadino di Casagrande. Gli sembra di capire che Gino abbia dei problemi con le bestie irrequiete e scende ad aiutarlo. Gino mette il Moro con la fune avvolta e corta, davanti a ridosso dei bovi. Gli raccomanda di guidarli verso il campo e partono. Girano l'angolo del piazzale e si immettono nella strada principale. Ma appena svoltati, con il Moro che tira la pariglia, un bove inaspettatamente abbassa la testa e lo cozza con violenza nelle spalle e il Moro finisce lontano disteso per terra. Egli si rialza prontamente e dolorante protesta. Se la prende con Gino, il quale candidamente confessa:
"Un po' lo sapevo (che il vitello cozzava)", facendo imbestialire ancor di più il Moro convinto che gli abbia giocato un brutto scherzo.
Il Travagli Gino bravissima persona, ma uomo curioso. Un pomeriggio giunse un camion a Quercia e posteggiò in piazza. Gino non seppe trattenersi. Il mezzo aveva le sponde alte fatte di traverse di legno poste in orizzontale. Mentre l'autista si rinfrescava la gola al bar, Gino, incuriosito dal carico del camion, cominciò ad osservare sempre più da vicino e alla fine mise il capo dentro tra due traverse per guardare meglio, ma poi non riusciva a levarlo. Fece gente. Tutti consigliavano come girare la testa o le spalle o altro per liberarsi, e la storia durò diversi minuti. Infine, con qualche raschiatura alla pelle, ce la fece.
Dopo passato il fronte c'era tanto materiale bellico in giro, specialmente mine, bombe, proiettili e materiale esplosivo. Una sera, mentre tutti stavano già in casa per la cena e si stava facendo buio, un tremendo boato scosse il paese mandando anche dei vetri in frantumi di alcune case tra le quali quelle del Boddi, del Brogi e del Barucci. Tutti a corsa fuori a vedere e domandare un po’ intimoriti:
"Cos'è successo? Che è stato?". Intanto sbuca, con tutta la sua calma, dalla strada proveniente dalla Carpinaia, il Coccheri, il quale tutto soddisfatto dice ai primi che incontra:
"V'ho fatto paura eh!". Aveva piazzato le mine e una grossa quantità di residuati in Carpinaia in una fossa coperta con fastella alle quali aveva dato fuoco, provocando la grossa esplosione che aveva fatto sobbalzare chiunque si trovava nel raggio di alcuni chilometri.
Non era soltanto un esperto artificiere minerario, ma proprio ci aveva passione e in ogni circostanza promoveva o suggeriva esplosioni e scoppi.
Un contadino verso Pietralta stava scassando una ceppa enorme di quercia della quale intendeva utilizzare la legna. Per l’appunto passò di lì il Coccheri, il quale non perse l’occasione e subito gli suggerì:
“Ma che fai? Fai fatica e basta. Domani ti ci penso io”. Il giorno seguente Gino porta una mina anticarro e tante cartucce della miniera, forse un po’ troppe per il bisogno, ma la passione dominava anche la logica. Minata la ceppa e dato fuoco alla miccia si nascosero dietro le grosse querci, quando un boato immane sollevò una nuvola di terra e la ceppa si disperse sbriciolandosi in mille piccoli inservibili pezzi; praticamente non ci rimase niente. Alla vista dello scempio il contadino gli berciò da lontano:
“Delinguenteee”.
Nei campi dell’Arginano un enorme masso spuntava dal terreno e anche Fino con la trattrice non riusciva a spostarlo. Allora preparò col piccone e con grande fatica numerose buchette intorno al masso dove Gino introdusse diverse cartucce di esplosivo collegate con lunghe micce. Li vicino c’era una vecchia fonte asciutta e Fino vi si riparò a bocconi, mentre Gino dava fuoco. Una miccia non gli prende e si attarda:
“Vieni via, ma che fai”, gli bercia Fino. Gino si affrettò alla fonte e un’esplosione mai sentita provocò uno spostamento d’aria che gli compresse la faccia al terreno e una vampata di calore li investi, mentre miglia di schegge e terra volarono in aria e gli ricaddero addosso. Una buca profonda rimase là dove era prima il masso.
“Disgraziato”, mormorò Fino,
“Ma quanta polvere ci hai messo?”. “Eh si, forse ce l'ho messa troppa”. “Quando c'era da far saltare qualcosa arrivava il Coccheri”.
Nel dopoguerra capitava di rinvenire ovunque bombe e mine, e chiamavano l'artificiere dell’esercito per farle brillare, e Gino
“Ehi, ma la prossima si fa saltare noi eh”.
Feo
Orfeo Mencherini detto Feo, noto pinzo, era preso di mira dagli amici che con fare scherzoso gli chiedevano:
“Oh Feo, quando prendi moglie?”. Risposta:
“Per troppo presto è tardi, per troppo tardi è presto”. Ad altri rispondeva:
“A settembre”. “Ma settembre è passato”. “Ma non ho detto quale settembre”. Finì che Feo non prese mai moglie e rimase l'eterno fidanzato anche se chi gli stava intorno aveva perso da tanto tempo la speranza di sposarlo.
Gli ultimi anni faceva ingresso nel bar quando era già mezzanotte e subito si apparecchiava per la partita. Orfeo, borsalino, camicia bianca con gemelli e portamento distinto, era davvero un signore. Il su’ babbo Oreste l’aveva ribattezzato
“il bighellone di 31 anni”.
Il Tanzini
Il Tanzini Dario viveva a Fonterutoli, ma era conosciutissimo a Quercia come suonatore di violino e come marito di Olga dei Mencherini del Leccino. Non leggeva molto bene la musica, si arrangiava suonando a orecchio e le sue melodie si spandevano e commuovevano anche nella chiesa di Quercegrossa in occasione di matrimoni e feste. Violinista per diletto, ma falegname di professione, lavorava con una certa continuità nella fattoria di Campalli. Andava famoso come carraio e riusciva a farsi commissionare anche qualche lavoretto di falegnameria
“ma era sempre senza far niente e pochi soldi in tasca”. Alla moglie ricordò una volta scherzando, ma non troppo:
“Mi hai sposato perchè ero bellino e ora mangia una sonata di violino”. Ai pranzi era sempre presente e spesso se ne andava con qualche coscio di pollo in tasca. Sembra che negli anni preguerra sia riuscito a farsi una Balilla.
Dario era un artista sia nel suonare il violino sia nel lavorare il legno. Sono rimasti famosi i numerosi calci di fucile da lui ricavati dalle vecchie assi di noce dello strettoio dell’uliviera dei Mori. Li realizzò manualmente con i piccoli attrezzi e con la “menarola”, il trapano a mano necessario per praticarvi un foro centrale dove si incastrava la parte meccanica.
Passava a Quercegrossa dapprima in bicicletta, poi con una vespa che usò fin da vecchio. Negli ultimi suoi anni, transitando dal nostro paese, all’altezza del negozio di Spartaco perse il controllo del mezzo e cadde. Battè la testa e rimase a lungo immobile sdraiato per terra. Pareva morto, disteso com’era sull’asfalto. Almeno così sembrava, ma Dario si riprese e visse ancora qualche anno.
Osvaldo
Chi non ricorda a Quercegrossa Zaira, vestita di nero, attraversare la piazza sempre con il sorriso sulle labbra. E Osvaldo, il suo figliolo, salariato per tutta la vita. Ha lavorato con i Mori per tanti anni dietro le macchine. Lo rivedo lavarsi al nostro acquaio stropicciandosi le mani piene di nero sugnone. Osvaldo,
"Il mi' Svardo" diceva Zaira, si era fatto due amici: Bacco e Tabacco e con loro si accompagnò fedelmente e non ci fu posto per una compagna nella sua semplice esistenza. Sedeva al bar, non giocava, parlava poco, ma dialogava spesso con i suddetti amici. Un bravo ragazzo, insomma, a volte faceva finta di arrabbiarsi, ma non ne era capace. E' morto a poco più di sessant'anni, tradito dai suoi amici.
Emilia la bottegaia
"Milia" aveva un nipote prete il quale spesso le rammentava la sua situazione di convivente con Giocondo Petreni e cercava in tutti i modi di convincerla a sposarsi. Ma Milia, per non perdere la pensione di guerra ottenuta dallo Stato in seguito alla morte in guerra del primo marito, non si sposò mai. Gli ultimi tempi, da vecchia, gli rispondeva:
"Ormai siamo due donne e fra donne non ci si sposa".
Milia aveva l'abitudine di attingere l'acqua fresca al pozzo di vena nel giardino dei Mori. Non essendo autorizzata lo faceva di notte e per non far cigolare la carriola metallica l'ungeva con un po' di burro e in silenzio, nell'ombra, rubava l'acqua.
Mondo zucchino
Il babbo di Beppe del Pianigiani si chiamava Antonio e faceva di professione il bottaio. Costruiva botti di rovere e da S. Fedele girava tutto il Chianti in bicicletta e chi sa se non sia stato anche nelle fattorie di Quercegrossa. Uomo mite, di famiglia molto religiosa e religioso lui stesso. Ma definirlo religioso è molto riduttivo perché la sua grande fede lo portava a pregare incessantemente. Quando girava sulle polverose strade chiantigiane, nelle dure e lunghe salite scendeva di bicicletta e procedeva a piedi. Anche quello era un momento di preghiera e mentre spingeva la bici diceva il suo rosario. Negli ultimi suoi tempi, ricoverato in ospedale teneva una grande corona attaccata alla spalliera del letto e pregava, tanto da suscitare le proteste di un ricoverato. L'unica imprecazione che gli scappava di bocca era
"Mondo zucchino".
Inizio pagina
Capitolo successivo Personaggi (3)
Indice Cose d'altri tempi
Vai all'Indice dei Capitoli