Quercegrossa (Ricordi e memorie)
CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI
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(Personaggi 1) Beppe e Alduina/Scoiolo/Il Pallassini/Il Moro/Vico e Ottorina/Cisbone e il gioco
(Personaggi 2) Il Mosca/Il Coccheri/Feo/Il Tanzini/Osvaldo/Emilia la bottegaia/Mondo zucchino
(Personaggi 3) Il mi' nonno Egisto/ La mi' nonna Ersilia/Il buon fattore
(Personaggi 4) Gina:operaio o contadino?/Picciola/Pino/Pierina la peste
Beppe e Alduina
Quando si sposarono nel 1923, ormai adulti, lo fecero perchè si volevano bene. Lui era sordomuto, ma di buon ingegno e benestante, lei una donnina semplice, senza pretese, a servizio a Siena. Di Beppe Mori si rammentano le sue qualità di falegname-meccanico, come la costruzione manuale di una macchina tribbiatrice per i semini ai tempi di Vignale e di una pompa per portare l’acqua a Vignale dal sottostante borro. Ce n’è una terza, raccontata così da chi ricorda, ma è una strampalata iniziativa, una dimostrazione che tutto si può nella vita, o una sfida, ossia la realizzazione di una piccola condotta d’acqua fatta con tubi ricavati dai cipollotti, e si afferma abbia funzionato. Dopo essersi sposato e ricevuto un bel gruzzolo dai fratelli come sua parte, acquistò una casa a Carpineto di Vagliagli dove risiedette per alcuni anni con Alduina e una bambina orfana. Da Carpineto ritornavano spesso a Quercegrossa in bicicletta. Beppe aveva adattato al mezzo una tavoletta sulla ruota posteriore come portabagagli-sedile sul quale vi montava la moglie, e felici arrivavano in paese. Passò del tempo, poi i nipoti lo vollero riportare a Quercia, nel palazzo, dove gli fu data una stanza all'ultimo piano. Una sera a veglia nella cucina, andò via la luce, mentre i due anziani sposini sedevano e si scaldavano al canto del fuoco e le donne di casa Mori lavoravano intorno alla grande tavola. Ritornò troppo presto la luce e Beppe e Alduina furono sorpresi nel loro lungo bacio d'amore. Beppe è ricordato dai Rossi del Palazzaccio nel dopoguerra quando entrava in casa, scoperchiava il tegame e lo annusava: "Che fatto da mangiare?", poi indicava la stanza e diceva “Questo palazzo dei nipoti”. Caro zì’ Beppe, non feci in tempo a conoscerti. Anche per la zia “Arduina”, dopo tanti anni di vedovanza e di presenza laboriosa in casa Mori, arrivò la sua ora. Probabilmente morì di vecchiaia, come si dice quando non c’è un’apparente patologia, e il suo smagrito cadavere venne esposto in quella camera che tanti anni prima aveva condiviso con Beppe. Portarono la bara e la misero a fianco del letto, sull'impiantito. Toccò poi a me e al mio cugino Raffaello depositarci la defunta. Per sollevarla si prese per i piedi e le spalle. Era ormai intirizzita, ma di una leggerezza estrema, e fu come sollevare una piuma. Pora zia Alduina, ci aveva guardati da piccini e ci s'era tutti affezionati perché fu una donna quieta, paziente e buona nella sua semplicità di spirito.
Scoiolo
"Prima il divertimento, poi il lavoro ... se ci scappa"
Questa era la massima di Scoiolo ossia Valentino Fiaschi, minatore senza infamia e senza lode con un occhio di riguardo più per il fiasco che per il badile.

Personaggio estroverso, non era nato a Quercegrossa, ma vi trascorse gli ultimi anni della sua vita facendosi benvolere da tutti per il suo carattere scherzoso e la sua indole pacifica. Nativo di Tregole, visse solo, da povero pensionato, dopo la morte della moglie presa e persa in età matura; gli ultimi tempi a Quercia, la Beppina del bar caritatevolmente gli preparava la cena, altrimenti gli bastavano due noccioline.
Il cognome Fiaschi gli era appropriato, ne aveva maneggiati tanti in vita sua, fino a quando l'ultimo lo spedì direttamente al Creatore. "Ci credo e non ci credo", disse al frate dell'ospedale che tentava di confortarlo negli ultimi giorni; ora lo sa.
Fedele ai suoi principi mi chiese di versargli un fiasco di vino sulla sua tomba, un mese dopo la morte.
Capelli bianchi e pelle scura ringrizzita dall'alcool, mantenne la sua proverbiale allegria fino all'ultimo: profetizzava "in nome della Rebecca, la Marzocca e lo Zanfillo", tracciando strani segni sul tavolino del bar, ma non ne indovinava una. Infatti, mi predisse: "Tre mesi dopo la mia morte mi raggiungerai", ma sono sempre qui. Mangiava semi salati per farsi venir sete, e, gran fumatore, soleva dire che dopo fumato doveva bere e dopo bevuto doveva fumare. Nonostante ciò, non l'ho mai visto ubriaco; quando era la sua ora, verso le nove di sera, partiva zitto zitto, senza far rumore e andava a letto. Aveva un tavolino vicino all'acquaio e sotto vi teneva un'infinità di fiaschi impolverati, residui di tante, solitarie bevute.
Sul soprannome Scoiolo circolava una quasi leggenda, maturata a Tregole nella cerchia dei suoi amici tra cui il Granchio e lo Stiaccione. C'era un prete a Tregole che, si dice, avesse una tresca con una parrocchiana. Valentino, ragazzo dispettoso, si accorse di qualcosa e incominciò a raccontarlo a tutti. Il prete incassò, ma meditò vendetta, la quale non si fece attendere. Un bel giorno a caccia vide il ragazzo sopra una quercia, non ci pensò due volte, imbracciò il fucile e sparò, proprio come si fa con uno scoiattolo, al quale il prete giurò di aver tirato. Ma la storia col prete di Tregole non finisce qui. Dopo la sua morte e sepoltura nel cimitero della parrocchia, la squadra di Scoiolo tornando a casa a notte alta da Fonterutoli, si divertiva di tanto in tanto a chiamare il defunto prete che riposava nel cimitero di Tregole, con battute ironiche e sberleffi. Il tutto per ridere e scherzare, e farsi coraggio. Una sera però gli amici si erano avviati perchè Scoiolo tardava in una partita di biliardo, e quando a sua volta lasciò l'osteria era solo soletto in piena notte. Una notte magnifica, piena di stelle, ma passo dopo passo, ombra dopo ombra, i rumori del bosco, i pensieri, chissà ... giunto al pari del cimitero, all'improvviso sentì una ventata gelida e udì una voce cavernosa, quella del prete: "Scoioooloooo, non aver paura, sono ioooo". Il lugubre lamento echeggiò e si disperse nel buio; fu terrore allo stato puro. “Corse come un pazzo”, mi raccontò il Titti, testimone oculare, e aveva i capelli ritti, quando arrivò alla porta di casa. Rimase tre giorni a letto in uno stato comatoso. La paura gli aveva perfino impedito di vedere quell'ombra bianca muoversi come un fantasma accanto al cimitero, ombra che toltosi poi il lenzuolo di dosso, si sbellicò dalle risa insieme a tutti gli altri amici di Tregole che avevano rizzato lo scherzo. Comunque da allora Scoiolo lasciò in pace la buonanima.
In gioventù con una vecchia bici dai cerchioni in legno si cimentò in alcune gare ciclistiche: "Corsi con Volpi, il gregario di Bartali", diceva con orgoglio e aggiungeva: "Un volta cascai in curva e ne feci cascare quattrocento".
Ecco, questo era Scoiolo, e quando se n'andò nell'estate del 1972 rimase un gran vuoto.
Il fattore e la Norina
Di lei si ricorda il nome "Norina" o meglio, oltre al nome, il suo fare che in quegli anni Venti diede modo di sbizzarrirsi alle lingue lunghe di Quercegrossa.
Giovane sposa di bella presenza, viveva decorosamente nel Palazzaccio, nell'appartamento al primo piano, con il fattore suo marito e la figlia Pierina. Lui gran lavoratore e inizialmente fattore degli Andreucci, in seguito tentò fortuna con le miniere di lignite nel bosco del Mori sotto il Castello, ma con pochi risultati in verità. Lei, atta a casa o meglio atta a bottega dove sedeva spesso al banco della mescita accettando di bere con tutti e con fare sfacciato e disinvolto mostrava la sua ampia scollatura attirando su di sè gli sguardi vogliosi degli avventori. Ma ben altri erano i suoi vizi. Volentieri si ubriacava e con altrettanta facilità tradiva il marito al quale si rivolgeva senza un minimo di vergogna, quasi con risentimento, dicendogli: "Tu c'hai tante corna", e l'opinione pubblica rispondeva: "L'ha rovinato lei quell'uomo!". Si racconta avesse venduto anche le cose di casa, per procurarsi da bere. Screditata e disprezzata, ho sentito raccontare tanti anni fa che alcuni giovani del paese, in casa sua, l'abbiano denudata e gli abbiano sputato addosso nelle parti intime, così per gioco come si usava nelle famose “visite”, o forse per disprezzo, ma lei di questi oltraggi non si curava, anzi... Sembra avesse una tresca amorosa piuttosto consolidata con uno di Quercia, ma non sappiamo chi fosse costui. Ma fra tanti difetti aveva un pregio o una virtù assai rara: era generosa. Non era spinta da meschini interessi, nè ricercava il guadagno; vale a dire si concedeva a chiunque senza ricavarne alcun utile, senza chiedere niente a nessuno: tutto gratis.
Figura centrale, ma non certo edificante degli anni Venti, così è ricordata Norina. Noi che non vogliamo essere severi censori pensiamo che avrà avuto le sue buone ragioni, forse era trascurata dal quel buon uomo di suo marito, forse la differenza di età fu negativa o altro, chissà! Ma dire "Norina" era dire tutto. E il marito? Vi chiederete. Eh, poromo, a chi tocca, tocca.
Quando se ne andarono nel 1927 Norina aveva già 36 anni e forse i suoi bollenti spiriti si erano placati.
Vittoriaccio
Al tempo in cui la bottega era gestita dalla sora Emilia negli anni 1920/21, frequentava Quercegrossa un ameno personaggio conosciuto da tutti e soprannominato Vittoriaccio. Era un buontempone burbero al quale specialmente i ragazzi indirizzavano i propri lazzi e scherzi e ai quali lui si prestava di buona voglia. Veniva dal Valdarno ed era nella stagione buona fornaciaio a Pievasciata, mentre d'inverno veniva a svernare a Quercegrossa, a retta dal bottegaio Ticci oppure ospitato all'Olmicino dalla famiglia Viperai, sopravvivendo con qualche opra in qua e là. La sera nella bottega si metteva sul canto del fuoco e accendeva la sua pipa di coccio dalla lunga canna e quando sentiva avvicinarsi i ragazzi tra cui Giovanni del Bandini oppure la Norina che venivano a burlarlo, la pipa cominciava a vibragli in bocca, stuzzicato dalla loro presenza noiosa alla quale non si sottraeva. Quella sera li aveva tutti accanto e davanti, sulle due panche, e si riscaldavano chiacchierando al calore delle braci sulle quali bolliva una bella pentola d'acqua pronta per l'orzo dei clienti.
"Vai più in là, Vittoriaccio che un centro", l'apostrofò malamente un nuovo venuto, spingendolo per accomodarsi sulla panca. "Io boia, un centri", replicò acido Vittoriaccio facendo scattare le lunghe gambe, innervosito da tanta prepotenza. La pentola colpita alla base dalle sue grosse scarpe gli si rovesciò addosso e l'acqua al massimo del bollore gli procurò delle gravi ustioni dai piedi ai ginocchi strappandogli un urlo di dolore. Il danno era serio e mentre Vittoriaccio sofferente si lamentava, veniva adagiato sulla panca e mandato un uomo in tutta fretta a chiamare il dottore di Vagliagli, il dr. Barni. Non tardò molto il medico, nonostante la distanza. Entrò in bottega e chiese: "Dov'è il ferito?". "Venga dottore è in cucina". Appena vide il paziente lo riconobbe subito perchè Vittoriaccio frequentava Vagliagli quando lavorava alle fornaci di Pievasciata. "Oh che sei te lavativo? Che cosa hai combinato? Ma che hai?" si lasciò scappare il dottore conoscendo il personaggio sempre pronto allo scherzo. Ma quella sera Vittoriaccio non aveva nè voglia nè motivi per ridere e scherzare. Le parole ironiche e canzonatorie del dottore non gli piacquero e allora sparò quella famosa frase rimasta proverbiale per tanti anni: "Io boione, fai il tuo lavoro muso nero", disse rivolto al dottore che era di carnagione scura. Così parlò Vittoriaccio in preda al dolore e al risentimento in un momento in cui avvertì il bisogno di essere un uomo serio.
Le pause invernali di Vittoriaccio a Quercegrossa continuarono per qualche altra invernata, poi non fu più visto e nessuno sa che fine abbia fatto. Era nato al Galluzzo di Firenze il 6 gennaio 1862, figlio di Lorenzo, e all'epoca del fatto aveva sessant'anni. Si chiamava Vittorio Calamandrei.
Il Pallassini
Angiolo Pallassini occupava uno degli appartamenti del palazzo di Giotto negli anni Trenta. Tornando dal bosco, tutte le sere portava una fastella. La buttava sul focolare, gli dava fuoco e apriva la finestra. Le frasche subito fiammeggiavano scoppiettando e un fumo grigio-chiaro si alzava e invadeva in breve la sua stanza. Il fumo poi, invece di fuoriuscire dalla finestra, con un lento flusso scorreva lungo le scale e si infiltrava negli appartamenti degli inquilini. Ristagnava a lungo sul soffitto dell'ingresso del palazzo e a folate usciva nella piazza spintovi dalla corrente d'aria che lo muoveva. Ma perché il fumo aveva questo strano modo di muoversi. Eh si, perché il camino del Pallassini era privo di tiraggio, o meglio, per essere più precisi il camino proprio non esisteva più da un pezzo. Il comignolo era andato distrutto e la canna era stata murata da Giotto per eseguire i lavori di innalzamento del palazzo e ancora non si era preoccupato minimamente di ripristinarla: tutto normale per l'epoca. Lui, il Pallassini, doveva far da mangiare, riscaldarsi e non si curava del puzzo di fumo che gli si appiccicava addosso, ai vestiti e dappertutto, tanto c'era abituato. La moglie Lucia, che da tempo se n'era andata lasciandolo solo, l'aveva sempre accusato di puzzare. "Tu puzzi" l'apostrofava e lui reagiva alzandole le gonne con fare esplicito e "Sei te che puzzi", ribatteva. Ora, passata la gioventù, forse puzzava davvero, ma non gli importava più niente, nè del fumo, nè del puzzo, nè della moglie.
Il Moro
Il Moro, al secolo Dante Oretti, nacque a Quercegrossa al tempo che i suoi genitori gestivano la bottega e, dopo un periodo di assenza, vi ritornò per prendere in moglie Dina Mori della famiglia degli industriali possidenti padroni della villa e di poderi. Col matrimonio, Dina portò in dote la sua parte consistente nell’abitazione in paese, costruita sopra la Privativa, e lì vi prese dimora col marito. Il Moro, precoce pensionato delle ferrovie, dal 1937 si stabili definitivamente a Quercegrossa e vi trascorse serenamente quarant’anni occupandosi in piccole faccende e divenendo personaggio centrale della vita paesana. Visse in maniera amabile e socievole, ma persona da prendere con le molle a causa del suo carattere facilmente irritabile .
Il ciliegio del Moro
Sul carattere del Moro nessuno ha mai scherzato più di tanto. Cordiale con tutti, diventava una dura roccia quando si trattava di interessi o quando c'era in gioco il prestigio o la dignità personale. Era uno di quelli a cui non piaceva fare il burattino, nemmeno per gioco, e nemmeno esser preso in giro perché in certi casi diventava inesorabile, come quella volta quando alcuni buontemponi non si limitarono a mangiargli le ciliege, come era costume del tempo, ma aggiunsero la presa in giro e questo mandò in bestia Dante. Nonostante ciò si prestava agli scherzi che numerosi gli riservarono giovani e adulti, e ai quali reagiva col sorriso di chi ha piacere a essere al centro dell'attenzione.
La storia del ciliegio tramandata in diverse versioni è molto semplice. Il solito gruppetto di giovanotti del paese nottetempo gli scaricò il ciliegio dell’orto, lasciando solo le foglie e un cartello vergato lì per lì dai ladri buontemponi: "Caro Moro non s'è fatto tanto danno, s'è lasciato qualche ramo per un altr’anno”.
Il Moro assorbì la cosa e non si scompose. Chiamò Stampone, e laconico gli disse: “Vai a prendere l'accetta e butta giù il ciliegio; chi è stato è stato".
Questi ladruncoli con la vocazione alla poesia colpivano spesso e altre famose frasi della loro fantasia rimasero memorabili: “Le ciliegie so bone, ci so piaciute tanto, mi raccomando levale presto, sennò si ritorna a pigliare il resto". Ma la più apprezzata fu senz’altro quella lasciata attaccata al melograno del Tacconi: “Mentre il Tacconi dorme alla grossa il melograno ha subito una scossa”.
La padella volante
Il Moro, essendo in pensione da tanto tempo, come sua occupazione primaria lavorava il campo accanto a casa, quello delimitato dal muro che dava sulla strada principale. La mattina, di preferenza, zappava e vangava, e quando smetteva, tutto sudato, all'ora di pranzo intorno alle dodici, rimetteva gli attrezzi. Si cambiava le scarpe terrose con le sue morbide pantofole e saliva in casa con la speranza di mangiare, ma regolarmente trovava tutto spento e la tavola sparecchiata. Erano anni che ripeteva alla moglie Dina che a mezzogiorno voleva mangiare, ma lei non era mai stata puntuale. Indugiava e aspettava non si sa cosa. "Ma un si mangia" sbuffò innervosito il Moro quella volta. "E so' appena suonate le dodici, ho messo la padella con le patate", rispose la moglie con una calma innocente. Invece, erano quasi l'una, e lui, stufo ormai di questo andazzo, a queste ultime parole non ci vide più dalla rabbia. "Ah so le dodici eh!", prese la padella per il manico e con una mezza giravolta la scaraventò, patate comprese, verso la finestra. Un lancio perfetto e la padella ben indirizzata superò la finestra, la pergola e, girando su se stessa, andò a cadere rotolando nell'orto tra sassi, cavoli e insalate disperdendo le patate in tutte le direzioni. Il nipote Stefano, che giocava nei pressi, vide una padella rimbalzargli vicino e alzò gli occhi al cielo con sguardo interrogativo, cercando di capire cosa fosse successo.
L'acciuga di Dante
Dante Oretti si accontentava di poco nella vita e anche i suoi pasti erano abbastanza frugali. A pranzo molte volte ripiegava sul cosiddetto piatto freddo, magari un'acciuga da lui stesso acquistata dal Brogi e mangiata con pane e vino, sopra un tovagliolo disteso alla buona sulla tavola. Era sua abitudine entrare in bottega appena passato mezzogiorno, quando i Brogi erano a tavola. Si faceva vedere facendo capolino dal corridoio e Dante Brogi si alzava seccato e raggiungeva il banco per servirlo. Mi ricordo bene della scena perché insieme al Moro entrai anch’io in bottega. "Che voi?", domandò Dante Brogi sbrigativo. "Mah, ... dammi un'acciuga", disse Dante Oretti con l'aria di chi non ha nessuna fretta. L'altro Dante prese un foglio di carta oliata sotto il piano di marmo e si rigirò; il barattolo grande delle acciughe lo teneva a portata di mano sullo mensola alla parete. Con fare affrettato vi mise un'acciuga sopra e gli diede una mezza incartata. Si rigirò verso di noi e attraventò il piccolo cartoccio sul piano di marmo senza profferir parola. A questo gesto, che dimostrava un certo fastidio, Dante Oretti non seppe star zitto e ritenendosi offeso scattò, impugnò il cartoccino e lo puntò in faccia a Dante Brogi, berciandogli, mentre lo brandiva minaccioso: "Non me la vuoi dare? Non me la vuoi dare?". Ma la risposta del bottegaio, rimasto esitante di fronte a quella inaspettata reazione, non arrivò. Allora Dante Oretti gli riattraventò l'acciuga che cadde dietro il banco, e sveltamente girò i tacchi e se ne uscì rabbuiato di bottega. Forse quel giorno si accontentò di una fettina di buristo.
Al Bar dell’ACLI
Era ormai consuetudine all’ora del rosario e delle funzioni pomeridiane, vedere don Ottorino far capolino per controllare se la televisione, posta nella stanza del bar o in quella del cinema, fosse accesa. Quando lo era, la spengeva senza dir parola e senza aggiungere altro se ne andava. Non poteva richiamare uomini come Guido e Corrado Castagnini oppure Dante Oretti o Feo Mencherini perchè andassero in chiesa, ma la televisione gliela spengeva. Loro si trovavano di solito impegnati nella partita a carte a quel tavolo accanto alla vecchia stufa, e appena lo degnavano di uno sguardo. Avevano però, in particolare il Moro, il vizio di imprecare e di smoccolare, anche quando non volevano, involontariamente, presi dal gioco. Avendo la questione raggiunto un’alta soglia di insofferenza da parte del parroco, qualcosa era nell’aria. Un’altra bestemmia e don Ottorino intervenne con durezza richiamando il Moro, facendogli una severa osservazione davanti a tutti. Sembra che il Moro si sia ribellato incollerito a questa parte e abbia afferrato il parroco per la manica della tonaca e questi per liberarsi abbia dato un forte strattone. Il Moro, seduto com’era, perse l’equilibrio e cadde a terra insieme alla sedia. Si dice che aggrappato alla tonaca sia stato trascinato per un paio di metri fino alla porta dall’impetuoso parroco, il quale imperterrito lasciò il bar e Dante rimase come un salame disteso per terra.
Insalata e piccioni
Della categoria scherzi (vedi), ma questi avvennero intorno a una tavola imbandita.
Il Moro, valente ortolano, aveva una rigogliosa presa d’insalata, da lui magnificata in ogni occasione. Le donne di casa Mori, dove il cognato Dante si recava spesso, montarono uno scherzo, digerito poi con una certa signorilità dal Moro. Come accadeva ogni tanto anche quella volta lo invitavano a pranzo: “Oh Dante, domani si fa l’arrosto di pollo, se vuol venire”, sicure che anche quella volta non sarebbe mancato. Prepararono quindi un bell’arrosto e di contorno una fresca e abbondante insalatina verde, tagliata di nascosto nell’orto del Moro. Dopo mangiato svelarono il fatto, lo ringraziarono e tutto finì in una risata, ma a denti stretti.
Un altro tiro mancino, a somiglianza del precedente, venne giocato al Moro dal Parigini, Guido Castagnini e il Guarducci. Quella volta gli fregarono nottetempo i piccioni e organizzarono un pranzo invitandolo col motivo, forse, di qualche mediazione andata bene (il Moro ogni tanto trafficava). Il pranzo riuscì benissimo e i piccioni furono saporiti più del normale, ma probabilmente andarono a traverso al Moro quando gli confessarono che aveva mangiato i suoi volatili.
Ancora un famoso e riuscito pranzo è ricordato perchè vi intervennero molti personaggi del tempo anteguerra con Brunetto e Guido Castagnini promotori. Per una ricorrenza pubblica organizzarono lo scherzo culinario facendo prelevare dai pollai degli ospiti volatili e pollame in abbondanza e lo fecero servire in tavola ben arrostito agli ignari invitati, i quali senza saperlo gustarono i propri piccioni e galline.
Rime misteriose
Quartina declamata spesso da Dante Oretti durante i momenti di relax e conversazione con gli amici in bottega del Cappelletti o a veglia dal Brogi. Era una sua composizione, con un suo significato che lascio alla vostra interpretazione.
E tu Dante e tu Petrarca
sopporta questo peso con pazienza
ciò da mettere il timone a questa barca
che da tempo navigava senza.
Vico e Ottorina
Molti personaggi qui descritti vanno famosi per la loro esuberanza, altri per il chiasso fatto, altri per la loro personalità; solo uno tra tutti è da ricordare per il suo silenzio. Per anni Vico di Barucci ha visto scorrere le vicende del mondo da una finestra, col mento appoggiato al braccio sul davanzale, nel silenzio totale: una filosofia di vita e un suo personalissimo modo di riposarsi dalle fatiche della giornata.
Tornava sul tardo pomeriggio, imboccava la sua bici color verdolino all'ingresso del suo palazzo e ... poco dopo eccolo a osservare il mondo. Chissà cosa avrà pensato di noi, poveri mortali, dall'alto della sua finestra. Non si era mai fatto prendere dalle cose di questo mondo, forse le ignorava o forse le viveva con signorile distacco, chissà… E chissà che non abbia avuto ragione lui. Un passaggio in sordina, una vita vissuta nell'anonimato.
Alla ricerca della sua indipendenza, Lodovico Barucci si trasferisce dal Poderino a Quercegrossa, nel suo Palazzo, coabitando con i numerosi pigionali. In un primo tempo aveva acquistato solo il Palazzo poi, pochi anni dopo, comprò anche la terra dietro casa per farvi un orto. Lavora come salariato, per alcuni anni, poi viene assunto in miniera, della quale vivrà le vicende fino all'ultimo. Si alzava prestissimo, alle cinque per il turno della mattina, per entrare alle sette. Puntuale, in bici percorreva il suo tragitto, sia per la miniera sia successivamente quando fece il manovale. La sera, al rientro, per sicurezza, portava la bicicletta in casa. Aveva un gattino, "Fuffino", che andava al Mulino a riscontrarlo. Vico lo prendeva, lo accarezzava e lo metteva nel cestino davanti e insieme rientravano. Alla chiusura della miniera per due mesi si impiegò alle cave, poi come manovale dal Lorenzini fino al suo collocamento a riposo.
Lodovico Barucci era un uomo riservato e raramente lo trovavi a giro per il paese. Solo la domenica sera si concedeva il cinema con la figlia Donatella. Religioso, prese messa fino agli ultimi anni. Ma l’eccezione esiste per tutti e per il solitario Vico è rappresentata da quella circostanza nella quale partecipò direttamente a una iniziativa sociale da lui promossa, cioè l'apertura e la gestione di una Cooperativa di consumo, avviata in un fondo del suo palazzo. Per poco tempo però; poi lasciò tutto al Consiglio e rientro nella sua tranquilla vita di operaio.
Tanti anni erano trascorsi da quando, giovinetto e signorino distinto, veniva a Quercegrossa dal Poderino, a cavallo e con le ghette, per seguire i corsi di catechismo di don Luigi Grandi. Ma gli anni passavano e Vico superava già i quaranta e non si decideva a prender moglie. Aveva alcuni nomi fra le mani e tentennava, ma alla fine scelse Duilia Baldini di Castellina chiamata da tutti “Ottorina”. Si sposarono a Siena in S. Francesco nel 1953. Pranzo di nozze a Castellina dai Baldini in via dell'Albergo al n° 79, con 18/19 invitati e poi la coppia di novelli sposi rientrò nella loro abitazione di Quercegrossa. Lui aveva 46 anni, lei 37. Ottorina proveniva da una modesta famiglia operaia di Castellina in Chianti. Nata nel 1916, al battesimo le imposero il nome Ottorina a ricordo dello zio morto da poco in guerra. Poi però, al Comune fu dato il nome di Duilia e così risultò da allora in tutti i documenti ufficiali. Un nuovo postino di Quercegrossa che chiedeva di Duilia Baldini ricevette solo risposte negative. Il babbo Pietro e la mamma Elvira Sampoli, da S. Polo in Rosso, conducevano un vita grama fatta di rinunce, ricordate vivamente da Ottorina. La nonna Cesira Valloriani del 1860, moglie del nonno Marco, aveva venduto la fede per dar da mangiare ai ragazzi (9 figlioli). Il babbo Pietro lavorava dal Becciolini e quando questi cessò il servizio gli rilevò la carrozza e, comprato un cavallo, si mise in proprio. La mamma era occupata anch'essa in qualche servizio. La mattina metteva la pappa e lasciava un uovo che doveva bastare ai tre fratelli al ritorno dalla scuola. La sera minestra di fagioli e castagne. Per la Prima comunione grande festa con un pezzo di lesso nel brodo e l'agnello in umido. A quattordici anni Ottorina entra nella Filanda di Castellina e vi rimane per dodici anni, dal 1930 al 1942. Poi a servizio a Firenze presso i Bianciardi e in seguito a Siena, dai Castelli, per altri dodici anni. Col matrimonio la sua vita era migliorata. L'economia familiare era ora accettabile e garantiva alla piccola famiglia, accresciuta con la nascita di Donatella nel 1954, di vivere con un certo agio. Nel 1966 acquistano la Cinquecento e Duilia si addestra per prendere la patente. La patente la prese, ma corse dei grossi rischi che la fecero desistere e la macchina rimase posteggiata in garage per molti anni. Un ricordo bellissimo di famiglia è la visita a Vico malato dell'arcivescovo Bonicelli nel 1993, con grande sollievo e conforto.
La storia continua con Donatella e Giuseppe Gaziano e i nipoti Pamela e Vincenzo. Una bella storia nel palazzo di Giotto e pensare che Duilia e Vico non si volevano sposare. Li fece conoscere Nello Rossi a una festa a Castellina, e ce ne volle. Lei non voleva lasciare un nipote, lui era incerto; c'era di mezzo anche il biglietto di un'altra, ma alla fine si decisero. Ottorina morta novantenne parlava volentieri dei suoi anni e di quando faceva gli straordinari alla filanda per mettere insieme una sommetta per comprarsi, lei e la sorella, un paio di scarpe con un po' di tacchetto; roba da signorine. Di nascosto, la domenica mattina, nel gabinetto fuori casa, si cambiavano le scarpe e andavano alla messa col paio nuovo. Al ritorno dovevano fare lo stesso gioco, ma la mamma le vide e disse: "Oh che so queste? Sai, s'è fatto un po' di straordinario... Andate e riportatele al calzolaio... E così si fece; ma dopo si ripresero. Non voleva spendere i soldi la mi’ mamma".
Cisbone e il gioco
Cisbone stava alla Rinfusola, ma capitava spesso a Quercia dove era conosciuto da tutti come persona mite e bonaria, e partecipava anche alle gite parrocchiali. Di mestiere faceva il calzolaio girovago ed era garzone al mulino della Staggia dai Fiaschi. Essendo calzolaio andava da Landino Mencherini con quale si intratteneva per lavoro e a chiacchiera. Faccia tonda e paonazza come la sua punta del naso, vestiva sempre allo stesso modo, come una divisa, con larghi pantaloni marroni di velluto, una camicia a quadretti scozzesi con le maniche arrotolate fino ai gomiti e uno sgualcito borsalino in testa. Nella sua vita aveva una sola grande aspirazione: vincere al totocalcio. Era un assiduo giocatore con le tasche sempre piene di schedine, anche a mazzi, e ogni circostanza era buona per un pronostico ed andava sempre alla ricerca di finanziatori: "Ci stai si gioca un sistema al Totocalcio?" oppure "Si giocano due colonne?" Allo stesso tempo cercava sempre e ovunque l’ispirazione per il pronostico. A Landino, il quale era completamente digiuno di calcio, chiedeva: "Che farà il Milan a Torino? Che segno metto?" E Landino con una martellata sulla suola di una scarpa "Isse". “E a quest'altra partita?” E Landino con due martellate sulla bulletta rispondeva: "Due", e così via. Naturalmente la vittoria al totocalcio fu una chimera per Cisbone, e la inseguì per tutta la vita; non vinse mai niente, ma una volta ci andò vicino, ma fece solo dieci e gli prese un mezzo infarto. Aveva azzeccato i primi dieci risultati di fila e Cisbone cominciò a tremare per l'emozione, poi la delusione dell'undicesimo segno che non corrispondeva e così gli ultimi due. Ma non si sdegnì e giocò, sperando, fino agli ultimi suoi giorni.
Al contrario di Cisbone, sempre con la schedina in mano, ci fu un altro che si riguardò bene dal giocare al totocalcio per vincere. Nello Rossi, una notte sognò una gran signora vestita di scuro, e ballarono insieme. Al momento dei saluti la misteriosa donna gli disse: “Ci rivedremo quando avrai vinto al totocalcio”. Gli sembrò che l’apparizione notturna avesse a che fare col mondo dei morti e lui, nell’incertezza, preferì non tentare mai più la fortuna al gioco e per non correre rischi smise per sempre di giocare al totocalcio.
Un’altra storia legata al gioco ebbe come protagonista Sandro Mori, il quale, come sappiamo, era stato il cocco e beneficiario della zia Isola. Ora, avvenne che dopo la sua morte, Isola gli apparisse nottetempo dandogli dei numeri da giocare al lotto. Ma la mattina successiva Sandro non ricordava niente. Il sogno gli ritornò in mente al forno, mentre portava le tavole del pane alle donne di casa. Allora non avendo niente fra le mani per scrivere, prese un ciaccino da cuocere e vi segno sopra con uno stecco appuntito i numeri datigli dalla zia Isola. Purtroppo ne mancava uno, ma pensa e ripensa, non riemerse dal sogno. Il ciaccino fu cotto e i numeri vi rimasero impressi, ma non furono giocati e fece male perchè nell’estrazione seguente uscirono tutti (così si dice).
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