Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Lavoro in casa e in città
Da quando esiste la mezzadria quasi tutte le famiglie contadine si sono industriate per effettuare lavori redditizi casalinghi come la tessitura di stoffe col telaio, la confezioni di panieri e simili da vendere a mercanti e treccoloni, oppure con il servizio nelle fattorie durante il tempo di permanenza dei padroni. Ma la cronica, ridotta disponibilità monetaria, o la necessità contingente di un maggior guadagno, o la possibilità di liberarsi di qualche bocca in soprannumero, soprattutto femminile, costrinse innumerevoli componenti di queste famiglie alla ricerca di lavori alternativi fuori casa, e molti di essi approdarono nelle città vicine o migrarono in luoghi abbastanza lontani dalla propria famiglia. Comunque tutto ciò non si inquadra nell’intenso fenomeno migratorio italiano verso l’estero esploso alla fine dell’Ottocento, e probabilmente l’evento non sussiste nel mondo mezzadrile limitandosi la ricerca del lavoro ad un raggio non molto ampio. La scelta prioritaria per una ragazza contadina od operaia, costretta a trovarsi un lavoro, era fare la servetta presso qualche famiglia padronale, ad esempio si rammentano anche 3/4 servette a Petroio e al Castellare durante l’estate, o in città dove capitavano occasioni di occupazione presso le benestanti famiglie borghesi. I casi documentati sono tanti e ne vedremo alcuni per quanto interessa il nostro paese.
Per molte ragazze di famiglie operaie, inoltre, era raccomandata la pratica di sartina e nel Novecento si contano molte giovani apprendiste presso le più affermate sarte paesane sia per farsi una professione, magari per quelle con una maggior attitudine, sia per imparare un mestiere utile alla famiglia. Quindi servetta o sartina, non c’era molta scelta. In alcuni paesi vicini, come Castellina, era la filanda a offrire lavoro o qualche ditta artigianale.
La possibilità di lavorare a Quercegrossa per qualunque giovane, già ridottissima fra le due guerre, divenne praticamente proibita negli anni Cinquanta, e i tanti figli e figlie di operai, artigiani e poi contadini si spostarono in massa a Siena alla ricerca di un reddito ormai indispensabile per vivere e farsi un futuro, impiegandosi nei più svariati lavori nell’artigianato, nella nascente industria metalmeccanica e nel commercio.
Alla fine di quel decennio, un particolare richiamo esercitò la florida industria tessile di Prato che, promotrice la Cice, vide migrare quattro o cinque nuclei familiari del nostro popolo in quella città, dove rimasero per sempre impiegandosi nell’industria laniera. Per quel che sappiamo partirono i Peccianti, gli Starnini, i Bardelli e i Pagliantini. Con la nascita e sviluppo di numerose fabbrichette artigianali nella Val d’Elsa e Certaldo, si offrirono alla fine degli anni Cinquanta opportunità di guadagno alle famiglie con il lavoro a domicilio, consistente, ad esempio, nell’incollaggio di parti di scarpa o di intaglio: erano lavori facili a farsi, ma sottopagati e guadagnavano poche lire con tante ore di impegno. Passava il rappresentante col furgone e lasciava il materiale a diverse donne, poi ritornava a ritiralo e ogni tanto saldava i conti. Un’altra attività lavorativa a domicilio si svolgeva a Quercegrossa già dall’immediato dopoguerra, e si riferiva al ricamo a mano di coperte, già disegnate con motivi floreali, provenienti da Firenze. L’azienda fiorentina aveva un riferimento in zona, e inviava le coperte con la Sita. A Quercegrossa le ritirava Emilia Guarducci, che poi distribuiva insieme a matassine di fili multicolori a tante donne, le quali ricamavano a ore intere per poche decine di lire. Milia dava anche matasse lana per confezionare golf. Successivamente gli subentrò Lina Cappelletti, dapprima in società con Anna Brogi, a distribuire questo lavoro alle donne, comprendente ora anche lenzuoli, maggiormente pagati. Tutto questo finì agli inizi del Sessanta, quando si fece spazio il lavoro di magliettaia. Per la maglia occorreva la macchinetta, e alcune ragazze, anche contadine, l’acquistarono, ma ebbe breve durata. Quanto si sperasse nel lavoro di ricamo lo dimostra anche il corso di cucito e ricamo organizzato in parrocchia da don Ottorino verso il 1953, e al quale parteciparono una decina di ragazze sotto la direzione di una valente insegnante di Siena.
Negli anni anteguerra e successivi esistevano diverse sarte professionali che lavoravano in casa con una discreta clientela: erano sarte da donna e da uomo, come Emma Rossi a Macialla, Suntina del Castellare e Nunziatina Sestini a Gaggiola, ma si ricorreva anche a sarti esterni. Per gli uomini, ad esempio, i Mori si servivano dal Bettoni di Castellina in Chianti. La più famosa sarta locale era Annita, la moglie di Brunetto, la quale confezionava tutte le divise delle varie organizzazioni fasciste di Quercegrossa, e si recava in case e poderi lavorando in loco. Andava spesso dal Tacconi, alla Magione ecc. e tornava la sera a buio. Erano famose le sue lunghe e appuntite forbici, e quando gli chiedevano se non avesse paura a fare tardi per la strada rispondeva che “Con le forbici in mano non ho paura di nessuno”. Anche Annita ebbe diverse apprendiste come Gina Rossi e Marisa Candiani del Poderino: “Da grandicella andai a imparare da sarta da Anita come ci era stata la mi’ mamma che lì aveva imparato bene il mestiere e la chiamavano a Massina e altri poderi dove rimaneva a giornate intere”.
Tra le altre si ricorda Lea, la figlia di Giotto Fontana, la quale andava da una del Maioli a imparare da sarta, così come la mi’ mamma e Dina Carli andavano da Marina Castagnini per imparare a cucire. La mi’ mamma andò per un certo periodo anche da Emmina la sua cugina di Macialla. Emma era valente nella professione e serviva tante famiglie, e quando improvvisamente morì, nel 1938, per gli uomini rimase soltanto Assuntina del Castellare. In paese, dagli anni Quaranta, cominciò ad avere una buona clientela Anna Rossi, detta la Boddina, diventata poi sarta di gran classe e prestigio. Aveva alcune ragazze come apprendiste tra le quali Lea Oretti, Ines e, per un breve periodo, Orietta Losi. Vennero anche da Siena ad apprendere da lei. Lea iniziò il suo tirocinio a 12 anni, nel 1940, e smise quando prese marito nel 1953. Osservava un orario puntuale dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 20, e in quei dodici anni non riscosse una lira così come era costume per tutte le apprendiste. Nel 1953, Anna si trasferisce a Siena, dove continua la sua professione, e tra le sue allieve va ricordata la giovanissima Elina Volpini. A Quercegrossa Anna è sostituita da altre sopravvenute lavoranti come la mi’ zia Vera, moglie di Nello Rossi, e Gina Vettori.

In questa foto e nelle seguenti scene di lavoro all’aperto. In alto, da destra, ricamano: Maria Travagli, Dina Anichini Mori, Luisa Mori, Bianca Mori e Anna Carletti. In primo piano, a destra: Lucia Mori e a sinistra l’autore.

Da destra: Luigina e Caterina Costanzi, Bianca Mori.

Si ricamava persino sulla strada; le rare macchine non ostacolavano il lavoro. Al centro della foto Anna Tacconi. Siamo negli anni Quaranta del Novecento.

La novità delle macchinette da magliettaia trovò a Quercegrossa piena accoglienza. Da destra: Caterina Costanzi, Luigina Costanzi, Ofelia Nencioni (seduta) e Gabriella Brogi (ultima a sinistra).

Aprendo una parentesi, è interessante ricordare un altro lavoro svolto da donne: la materassaia, e qui entra in ballo la mi’ zia Maria, moglie di Piero Rossi, la quale nel decennio Cinquanta rifece i materassi a tutta Quercegrossa. Inizialmente lavorava di ricamo con Milia Guarducci, e dopo con Lina, ricamando lenzuola. A quel tempo i materassi li faceva la sua mamma, e la sua zia Narcisa i coltroni, quelli da mettere sopra il letto. “Quando sposai i materassi me li fece la mi’ mamma, e ogni 3/4 anni si rifacevano perchè avvallavano: c'erano le reti lenti ecc. Guardai e imparai. Alla Cappannetta, dove ero tornata, li feci da me. Mi vide il Minghi (contadino di quel podere) e li volle anche lui. Poi si diffuse la voce che facevo i materassi, e così avviai la professione. A casa Mori si tirava il crine, pareva erba. C'erano nei letti due materassi, uno di crine e quello sopra di lana”. Le matasse di crine vegetale erano come canapi lunghi una decina di metri, comprati anche da Alvaro il merciaio. Ricordo queste lunghe liane attaccate al peschio del portone col bisbigliolo e tirate da noi ragazzi in pieno divertimento e a tutta forza, facendole allungare e allentare. Poi dipanate a mano e sbrogliate erano pronte per il materasso.
Nei primi anni Cinquanta è già iniziato l’esodo a Siena e alcune ragazze frequentano sarti cittadini. Piera Rossi, nel 1950, va in Via di Città da un certo Rossi e successivamente da Giovanni in S. Lucia, mentre la sorella Gina va in S. Pietro da un certo Azelio prima di trovare impiego nella fabbrica di pipe al Palazzo dei Diavoli insieme a Natalina Giachini. E’ la volta poi di Albertina Travagli, sarta, e di Anna Carusi come magliettaia. Vaga, ossia Iolanda Riversi, nel 1954, si impiega presso lo Stiaccini come macellaia e viaggia con la Sita.

Laboratorio del sarto Giovanni in Santa Lucia a Siena dove lavorarono Giorgina Rossi, (a destra nella foto) e Piera Rossi (in alto a sinistra).

Cose A San Girolamo, gestita dalle monache, esiste una affermata e antica scuola di ricamo a telaio che lavora per privati e per una grossa ditta di Pistoia, dando lavoro a decine di ragazze, e anche da Quercegrossa vi entrarono a più riprese Vanda Castagnini, Rosanna Nencioni, Annunziata Mori, Anna e Fosca Picchi di S. Stefano, Luisa Mori, Lorenza Mori e Fiorella Guarducci. Vanda è la prima ad andarvi e vi lavora per 6 anni dal 1948 al 1954 viaggiando con la Sita e poi col Mencherini. Erano 60 ragazze e guadagnavano benino, ma senza assicurazione. Oltre al ricamo, ornavano paramenti di chiesa con fili d'oro vuoti detto lamutiglia, e in quel periodo Don Ottorino gli commissionò lo stendardo della Misericordia. Vanda lo esegui, sul disegno dello stemma fatto da una maestra di nome Bruna, e fecero pagare al curato solo il materiale. Poi, ricorda Vanda ancora arrabbiata, don Ottorino l’accusò di aver fatto la scritta torta e lei “se la prese perchè ci aveva lavorato tanto”. Tutte le ragazze ricordano la mitica sor Giulia inflessibile direttrice dei lavori: “Un giorno, per una questione sull'impostazione del lavoro”, racconta Vanda, “Sor Giulia perse le staffe, e preso il telaio lungo più di un metro da sopra le caprette che lo sostenevano, lo lancio fuori della finestra aperta perchè s'era in estate”.

Ricamatrici di Quercegrossa a S. Girolamo. In piedi, da destra: Fiorella Guarducci, Annunziata Mori con Luisa Mori alle loro spalle.

Anche i giovani del paese in quegli anni dopoguerra iniziano a viaggiare verso la città; si ricorda quel bel gruppetto che tutte le sere tornava a casa in bicicletta. C’erano Losi Sergio, assunto dal Tortorelli nel 1947, Bandini Benito, falegname, e le ragazze. Armando Losi ha un’esperienza di lavoro simile a molte altre, ma con un tocco di qualità e di interesse in più. Armando entra il 2 novembre 1952 dal Cioli, falegname in S. Girolamo. La mattina parte presto in bicicletta dall'Arginanino, verso le 6,45 per essere puntuale a lavoro alle 7,30. Era questo un orario insolito, ma in quella falegnameria risaliva ad una vecchia abitudine, avendolo adottato da tanto tempo. Ma bastò ad Armando un po' di confidenza col padrone perchè gli facesse notare che "Tutti entrano alle otto". Allora il Cioli capì e “Va be’ s'apre alle otto”. Il centro città doveva essere percorso a piedi e ciò allungava il tempo di percorrenza. Benito del Bandini, nello stesso periodo, andava dal Bianciardi. Giornate di lavoro lunghe, e loro presenti al banco in qualsiasi stagione: "Con l'acqua o con la neve si gioca sempre", disse il padrone a Giulio Nencioni, rimasto a casa in una giornata di pioggia. Armando dal Cioli rimase dieci anni, e in questo lungo periodo d’apprendistato ebbe modo di conoscere e apprezzare vecchi intagliatori e artisti disegnatori, come il Ciampolini, i quali lo introdussero alla conoscenza dell'arte. Il Ciampolini aveva lavorato nel Parlamento italiano insieme all'altro intagliatore Tito Corsini. La paga, poche lire, non arrivava mai a fine mese perchè il Cioli non aveva mai un quattrino in tasca, e bisognava aspettare. Lasciato il Cioli, Armando trova lavoro da un artigiano in Via S. Agata, il Muzzi, per circa un anno e quindi va dal Franci Aliberto a sostituire un operaio militare. Dopodiché trova lavoro presso le suore di S. Girolamo e infine, sempre da dipendente, dal Brizzi e Rubbioli ai Due Ponti. Sarà questo l'ultimo lavoro da sottomesso, perchè Armando, ormai esperto artigiano del legno, apre una propria bottega in Via del Giglio dove si applica con successo al lavoro di restauro e riproduzione del mobile antico. Nella stessa bottega lavora autonomamente un altro artigiano per risparmiare sia sull’affitto sia per altro. Molto lavoro viene fornito ad Armando dagli antiquari Mazzoni, proprietari di una loro falegnameria davanti al Monte, e una in Sinitraia con 15 operai dei quali 5 intagliatori (alle scale mobili di Ovile). Dopo una vita di lavoro, la pensione degli Artigiani.
Altri giovani seguono il loro esempio: Mario Bruttini, nel 1955, avendo già abbandonato i campi, trova lavoro come apprendista in Via dei Rossi presso un idraulico, e viaggia con la Sita; Fabio Provvedi va a lavorare nel 1955, falegname al Palazzo dei Diavoli, accompagnandosi con Armando in bicicletta.
Alcune di queste descritte esperienze lavorative, e altre, sortirono l’effetto voluto di dare un lavoro stabile a ragazzi e ragazze del paese che si avviarono così a una completa indipendenza economica, che gli consentì di aiutare le loro famiglie e garantirsi poi un proprio sicuro futuro.
Cose

Lucia Mori apprendista sarta a Siena.


Nel terminare queste riflessioni non posso fare a meno di inserire le vicende di lavoro a servizio vissute da alcune ragazze a noi familiari, ricordando la mi’ zia Anna Petri, in Mori, a servizio a Novi Ligure, la mi’ mamma a servizio a Roma col fratello Guido, e la mi’ zia Gina Rossi a servizio dai signori Marzi a Napoli nel 1936/37. I Marzi venivano in villeggiatura al Castello dal Vienni Giuseppe e dalla signora Teresa. A questi signori di Napoli gli si erano sposate le due donne di servizio e chiesero a Ersilia Rossi e a Marianna Mugnaini del Castello (mamma di Isolina) se le loro figliole erano disposte ad andare a Napoli in casa loro a far servizio. “Io non ci volevo andare, la mia mamma non mi ci voleva mandare, però ci convinsero. Loro ci volevano bene, ma si sentiva la nostalgia di casa. Isolina era la cuoca e stava in cucina. Arrivavano le lettere delle mamme e Isolina non sapeva leggere. Io le leggevo e quanti pianti in quella cucina.”. I padroni se ne accorsero e gli si disse che si voleva ritornare a casa. Si rimase in tutto per 5/6 mesi. Ci avevano aperti dei libretti in banca dove ci versavano lo stipendio.
Prima di Napoli ero stata a servizio in Camollia, dove c'era un ristorante vicino all’Antiporto e vicino al mercato delle bestie di Piazza d’armi. Lo zio Tono veniva a comprare e vendere. Seppe del posto, che cercavano una ragazza e vi andai. Dormivo lì al ristorante. Ma la padrona mi brontolava sempre, e un giorno lo zi' Tono viene a mangiare e mi vede imbronciata. Mi chiese cosa c'era, e gli spiegai. “Se vuoi prendi la tu’ roba e stasera ti riporto a casa”. “Dopo Napoli andai alla fabbrica delle pipe nel 1936/37 con Natalina. Stuccavo i buchi delle pipe e Natalina li lustrava. Si partiva alle sette in bici con qualsiasi tempo e se pioveva un impermiabile e stivali. Per qualche anno ero stata a servizio dai Mori a Quercegrossa”.

Gina Rossi ritorna con la sua bicicletta a Quercegrossa dopo una giornata di lavoro nella fabbrica delle pipe a Siena. Anno 1936/37




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