Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Cose Brunetto il falegname
Dire Brunetto nella Quercegrossa d’una volta era come dire Palio a Siena, tanto la figura era conosciuta in paese e oltre. La professione di falegname contribuì a renderlo familiare in tutti i poderi e luoghi di un vasto circondario e si può dire che non c’era posto nei dintorni dove lui non aveva lavorato. La sua versatilità e abilità nel realizzare i più disparati oggetti, mobili e attrezzi agricoli lavorando il legno lo portava e trattenersi spesso per giornate intere presso le famiglie con le quali faceva sfoggio delle sue invenzioni poetiche. Quindi una persona amabile e socievole il cui proverbiale buonumore era noto a tutti e d’altronde Brunetto era il prototipo dell’uomo pacifico, facilmente rintracciabile nella popolazione di allora. Per le sue qualità godeva del profondo rispetto della comunità dove era apprezzato il suo impegno personale nelle varie attività ricreative; attività che sostenne per tutta la sua intera vita, ma particolarmente nel periodo fascista nel quale egli fu un fedele e sincero militante del partito al potere. O al matrimonio, o in qualsiasi altra occasione di festa familiare e sociale, lui non mancava mai: invitato per amicizia e per tenere alta l’allegria. Certamente non si faceva pregare e, come si può comprendere dalle seguenti, poche, rime estemporanee rimaste, allietava gli animi. Un giorno era a lavorare dai Pistolesi al Castello e venne invitato a restare per cena. C'era un piccione nel tegame e lui d’istinto:
"Mondo birbone, ma qui c'è il capo di un piccione"

Poi servirono un fegatello di maiale:
"Fammi sentire il culo quanto l'hai bello
perchè stasera s'è mangiato il fegatello"

Al matrimonio di Dina Carli al Paradiso c’era anche Brunetto, e alla fine venne servito un vinsanto di 23 anni, tanti quanti erano gli anni della sposa. Vinsanto che Gigi Carli, lo zio, metteva da parte alla nascita dei nipoti e delle nipoti e poi stappava al loro matrimonio, e anche in questa occasione non mancarono i versi di Brunetto:
“Questa è verità e non è novella,
questo vinsanto ha l’età della sposa novella”

Il Pallini faceva fare qualche lavoro a Brunetto, più per fargli piacere che per necessità, e quel giorno l’incaricò di verniciare le finestre delle stalle dell’Olmicino. Brunetto munito di pennello, colori e olio mette in terra quest’ultimi e mentre vernicia arrivano i maiali del Palazzi che vi si rotolano sopra conciandosi come maiali, ossia imbrattandosi di vernice rossa. Brunettino nel vederli:
“Il padrone chissà cosa dice
quando vede i maiali sporchi di vernice”.

E aggiunge:
"Cose da pazzi,
ma questi sono i maiali dei Palazzi"

Quando entrava in compagnia, salutava, e non si faceva sfuggire la rima:
“Buongiono, Iddio vi dia
a voi e tutta la compagnia”,

oppure:
“Il mondo è tondo la terra gira, viva Cesira ed il suo morettino (Cesira moglie di Dionisio Meli)”, “ … e vada come vada, evviva il Pratellesi e la sor Ada”.

Non mancavano le prese in giro:
“E te Bonello non chiappi nè falco nè gufo
perchè hai le canne torte più della curva del tufo”

(La curva del tufo si trovava a metà strada della Carpinaia).
La moglie Annita, presa a Vagliagli, lo sostenne e l’affiancò nei suoi incarichi in paese, anche se la sua presenza era più distaccata e riservata di quella del marito. Annita fervente e fedele cristiana aveva in chiesa la sua seggiola personale privata, con tanto di nome, seggiola che Brunetto aveva costruito con le sue mani.
Alcuni dei ricordi visibili in queste pagine sono il frutto di una instancabile attività di fotografo di Brunetto, ma purtroppo poco è rimasto della sua notevole produzione fotografica andata quasi completamente perduta. Fotografò processioni, contadini al lavoro, il paese, persone, come dire tutto quanto si muoveva o lo circondava. Le poche foto rimaste di Brunetto ci presentano un uomo attento e sensibile alla vita sociale, lavorativa e religiosa del paese, nonchè animato dal vivo desiderio di far vivere e immortalare una terra che lui amava riprendendola da ogni angolatura. Le tre foto di Quercia degli anni Venti sono un commovente ricordo che Brunetto ha espressamente consegnato ai posteri.
Ma la grande passione di Brunetto fu la poesia nella quale si dilettava e cimentava spesso e pubblicamente. Non solo la breve battuta in rima, ma ampie composizioni in strofe come la celeberrima “Poesia dei cacciatori” da lui stesso diffusa tra gli amici in più copie e pubblicata in queste pagine alla voce “A caccia”. E’ una giornata serena di caccia nel dicembre 1938, quella che narra, e per la quale Brunetto usa tutta la sua ironia nei confronti degli amici, mentre descrive amabilmente fatti, personaggi e paesaggio, sfoggiando tutto il suo famoso e riconosciuto senso dell’umorismo. La sua espressione si presenta piuttosto acerba, rustica, ma la costruzione è perfetta e riesce ad esprimere fedelmente il suo pensiero di poeta falegname come lui si definiva. Un’altra sua composizione, conservata da Raffaella Socci, è dedicata ai fidanzati Giuseppe Socci e Anna Tacconi che si sposeranno nella chiesa di Quercegrossa il 27 aprile 1936. Il sonetto è un manoscritto originale di Brunetto composto a tre mesi dalle nozze e doveva rientrare in quel genere di composizioni serie da lui dedicate agli amici. Infatti, ammiriamo un lavoro beneaugurante e sensibile di un uomo che partecipa alle gioie degli sposi usando tutta la sua arte poetica trascendemte le battute occasionali e le rime venatorie.

Sonetto di Brunetto Rossi: Mentre tutto vi sorride nella vità / Amore, gioia, speranza e desiderio / A voi fidanzati di beltà infinita / Vi giunga dolce questo mio pensiero / Tante cose care e prosperità di vita / L'amore come oggi, e non mai lusinghiero / Questo se lo augura un misero poeta / Presto si giunga la desiata meta / Ai fiori di arancio ed il profumo di viola /Le due anime in un'anima sola.

“E’ un poeta più grande di Dante” lo qualifica la maestra Grassi, certamente non sarà stato più grande, ma più intraprendente si. Non si limitò, infatti, al paese e agli amici nel proclamare le sue rime, ma volle e riuscì a comunicare con la poesia il suoi messaggi di pace, o di felicitazioni, ai “grandi della terra” tra i quali si ricordano Stalin, la regina d’Inghilterra, Churchill e altri.
Cose
Articolo della Nazione (1936) in merito al falegname poeta Brunetto Rossi e ai suoi componimenti inviati al Duce e ai suoi figli.
A Elisabetta II, incoronata regina nell’anno 1952, inviò il suo canto di augurio dalla quale ottenne una risposta di ringraziamento. Questo fatto ebbe risonanza nazionale e un giorno arrivò a Quercegrossa un giornalista del settimanale “Oggi” per un articolo su questo folcloristico personaggio che scriveva a tutti. L’articolo “Quando Brunetto scrive” apparve alla fine del 1952 sulla rivista e tracciava il profilo di questo originale poeta accompagnato da una foto del falegname con la pialla in mano nel suo laboratorio. Su espressa richiesta del giornalista Brunettino impugnò la pialla più grande e con la sua maestria e due passaggi ben assestati alla tavola di legno d’abete produsse grossi trucioli di piallatura; fece un figurone, lasciando il giornalista stupefatto. Purtroppo ogni ricerca dell’articolo è stata vana avendo nell’archivio Rizzoli, oggi Mondadori, smarrito proprio quel semestre del settimanale. Ancor prima Brunetto era finito sul giornale locale “La Nazione” per aver inviato composizioni al Duce e ai suoi figli Bruno e Vittorio, complimentandosi con loro in occasione della conquista dell’Impero (1936).

Foto di gruppo a Quercia nel 1946 ripreso da Brunetto (vedi foto seguente). Nella fila dietro da destra: Iolanda Giannini, Alba Losi, Lea Socci, Gina Rossi, Alda Losi Vaga Riversi, Ines Losi, Silvana Losi e Anna Bernardeschi. Nella fila di fronte, da destra: Pierugo Buti Cristina Pellini (una ragazzina di Siena ospite degli Oretti con la sorella), x, x, Fabio Losi (col dito in bocca) e Mauro Tognazzi. Nella fila di mezzo, nella parte destra si riconoscono Albertina Travagli, Piera Rossi (rigirata) e Liliana Pellini.

Foto di gruppo a Quercia nel 1946. Ragazzi e signorine ripresi in piazza: “S'era tutti fuori a giocare per la strada, quando arriva Brunetto in bicicletta con la macchina al collo: "Ragazzi si fa una foto?". Ne fece due, seduti col fiasco davanti e tutti in piedi (foto precedente).

Organizzatore di spettacoli, Brunetto fungeva da suggeritore nelle commedie e, amante della musica, suonava per diletto il suo mandolino, oggi conservato dal nipote di Vagliagli, ma non suonò mai nell’orchestrina del Dopolavoro. Nelle serate di ballo fungeva da animatore dell’intervallo salendo su una sedia al centro della sala intratteneva i presenti con poesie e barzellette. Come tutti gli artigiani Brunetto aveva dei ragazzi apprendisti e si ricorda che il primo fu Dino Pannini, il ricordato “Artigliere”, poi Dino Castagnini da ragazzetto e infine Silvano Socci che rimase con lui fino al 1939. Silvano fu l’ultimo apprendista fisso di Brunetto a 5 lire al mese e in seguito alcuni ragazzi frequentarono saltuariamente la falegnameria per imparare a lavoricchiare.
Cose Tutti gli anni per la festa del patrono S. Giuseppe partecipava a Siena col suo apprendista al pranzo collettivo dei falegnami. Comunque dopo guerra il lavoro diminuì notevolmente e Brunetto con i primi acciacchi della vecchiaia si ridusse a fare più che altro riparazioni, e molti incarichi furono di verniciatura. I tempi d’oro erano finiti quando dalla bottega di Brunetto, posta sulla sinistra dell’ingresso al Leccino, uscivano mobili, madie, carri, bare, tavoli, sedie, aste per lo stendardo, banchi da scuola, vetrine, scaffali, insomma qualsiasi oggetto in legno. Chi ha la fortuna di trovare e vedere un mobile da camera, o da salotto, costruito da Brunetto potrà ammirare dal vero quali vertici raggiunse la sua arte, ammirando la perfezione e la bellezza della linea e del trattamento del legno. Era uno con la padronanza del lavoro, anche se il babbo Giulio era un muratore che, ricordiamo, aveva costruito con le sue mani l’abitazione del Leccino dove risiedevano. Doveva essere un personaggio estroso il babbo, perchè di lui si ricordavano alcuni dipinti; cosa rara tra i muratori. Il Brunetto falegname girava con la grossa sporta, una borsa di stiancia per portare gli arnesi della sua professione. Ricorda il suo apprendista Silvano che Brunetto aveva una bici per andare a Siena alla ferramenta Muzzi ad acquistare il materiale necessario al suo lavoro. Il biglietto di richiesta sempre incominciava: "Prego voler consegnare al latore della presente". La frase era tanto risaputa che appena Silvano arrivava al negozio, i commessi dicevano con quello spirito tutto senese: "Ecco il latore della presente".

Foto scattata a Siena da Brunetto al suo apprendista Silvano Socci nel giorno di S. Giuseppe dell’anno 1939 per il pranzo della Festa del patrono dei falegnami. Silvano faceva pratica da Brunetto solo il pomeriggio, quando la mattina aveva scuola.

Nella sua precoce vecchiaia Brunetto smise di lavorare. Subì un’operazione di ernia che lo costrinse in una poltrona; non camminava più, poi si allettò in attesa della fine. Lo trovai disteso sul suo letto con gli occhi chiusi, il respiro regolare e la faccia rilassata, quel pomeriggio che la mi’ mamma mi portò a vederlo in una cameretta oscurata, dove lui passò alcune settimane in agonia prima di chiudere la sua intensa vita vissuta semplicemente, giorno per giorno tra amici e col suo lavoro, ma alla quale volle dare un tocco di classe degno di un vero poeta falegname quale era.
Morì nel 1954 e fu sepolto alla Misericordia di Siena.

Questa foto ci dà la misura di quanto Brunetto fosse meticoloso nel ricercare le migliori inquadrature per i suoi scatti. Qui lo vediamo sopra uno scaleo, tenuto da un palo aggiunto sul davanti e da uno sconosciuto signore in camicia bianca, mentre sta fotografando Carla Buti nella culla. Fanno contorno alcuni componenti delle famiglie Buti e Nencioni: si riconoscono sulla destra Ginetta con Giangia e Ilio. La foto è stata scattata da Delio Nencioni, in licenza militare, con la sua macchinetta nel 1941.


Pioppi
Il babbo di Armido Bruni, Alberto, abitava al Palagio di S. Fedele ed era un commerciante e lavoratore di legname: acquistava e buttava giù pioppeti con le quali costruiva botti; era un bottaio.
Quando vennero a smacchiare e a tagliare i pioppi a Quercegrossa, sotto il Dorcio, era l’anno che passò il Giro d'Italia da Quercia, cioè il 1935. I Bruni la sera restavano a mangiare e dormire dai Mori. A fine settimana ballavano in società e Raffaello Mori suonava la fisarmonica, ricorda Armido che allora aveva 13 anni.
Li aiutava nel lavoro, che si protrasse per molto tempo perchè altri pioppi vennero poi lavorati nei piani della Staggia, un certo Tinti di San Sano in Chianti. Il Tinti partiva la mattina presto con bovi e carro da San Sano e arrivava a Quercia dopo un’ora e mezza circa facendo scorciatoie e tagliando le strade. Smacchiava i pioppi, già abbattuti, sul posto, e poi li portava in piazza a Quercia dove venivano tagliati. La sera ritornava col carro e bovi a San Sano. Dopo di loro i pioppi dei Mori li buttò giù un'altra volta forse Gosto di Torzoli tanti anni dopo, e fu l'ultima.



I Fusi di Basciano
In concorrenza a Brunetto Rossi per i lavori di falegnameria agiva sul nostro territorio una famiglia artigianale di Basciano: i Fusi. Erano lavoranti di antica tradizione e sono ricordati come i falegnami degli Andreucci, i padroni di Quercegrossa, e costruttori di mulini: esperti e inimitabili lavoratori realizzarono opere di notevole pregio e bellezza.
Dalle terre di Castellina in Chianti (notizie a Strada) e poi da S. Leonino, due rami di questa famiglia emigrano, tra il 1743 e il 1749, insediandosi uno a Quercegrossa presso il podere Andreucci e l’altro a Basciano. Mentre quelli di Quercegrossa risultano negli anni coloni e casieri, i Fusi di Basciano svolgono già il mestiere di falegname, o legnaiolo, come dicevano. Attraverso varie generazioni, tutti artigiani falegnami, si giunge a Giulio (1872-1956) il falegname rammentato degli Andreucci e marito di Eugenia dei Papi di Quercegrossa. Sono i tre figli di Giulio: Duilio, Gino e Giorgio che proseguono l’atavica professione e ancora vengono rammentati a Quercegrossa da chi li conobbe. Infatti, la vicinanza unita a una certa attività sociale e alla presenza della bottega, portava i Fusi, specialmente Gino e Duilio a muoversi verso Quercegrossa dove erano familiari a tutti.
C’era stato un tempo però, alla fine dell’Ottocento, che Giulio, per motivi di lavoro, aveva lasciato Basciano e si era trasferito con tutta la famiglia al Casale di Monaciano, dopo aver venduto la sua abitazione in Basciano. Da Casale, dove è nato Duilio, si spostano a Fagnano e qui Giorgio sposa la fattoressa, mentre Gino, ricordato a Quercia a far la corte alle ragazze, resterà celibe. Dopo un paio di decenni i Fusi rientrano a Basciano e ricomprano la casa. Giorgio, che vive a Siena, è un valente falegname ed è anche un falsario che dà i suoi lavori agli antiquari. Tra le sue opere è ricordata la struttura in legno dell’altare della chiesa della Sapienza. Duilio e Gino lavorano insieme e diventano lavoranti per il senatore Sarrocchi a Passeggeri dove hanno il loro laboratorio e dove si recano giornalmente per tutti i lavori di fattoria. A loro sono commissionate le panche della chiesa di S. Domenico in Siena.
Terminata l’esperienza di Passeggeri, vissuta dai fratelli i Fusi in grande armonia con il Senatore tra il lavoro e le cacciate, trovano impiego presso la fattoria di Vignaglia dove l’energia elettrica consente di usare le macchine; cosa che non potevano fare a Basciano dove la luce arrivò dopo guerra. Avevano una sega a nastro ottenuta in particolari circostanze: “Gino era nell'ARMIR in Russia, falegname della compagnia. Aveva incassato gli attrezzi di lavoro per rientrare in Italia dopo la ritirata, ma Gino si segò un dito e lo mandarono in licenza. Le macchine furono spedite in Italia a S. Quirico d’Orcia. Lui è a S. Quirico l'8 settembre e si prese una di queste casse, una sega a nastro che ancor oggi è in casa Fusi. Veniva da Dnietopetrosky”. Ma il lavoro a Vignaglia per gli Ugurgieri dura poco: “Lavorava, ma non riscuoteva, allora lui non pagava l'affitto e per questo venne mandato via. Dopo la crisi delle fattorie Duilio si mette a fare mobili”. Oggi, Giuseppe Fusi con la moglie Adriana, figlia di Silvia Landi, la sorella di Picciola, abita ancora a Basciano dopo esser vissuto trent’anni a Milano, specializzato tecnico di radiologia. Le memorie di famiglia sono dovute a lui. Giuseppe è nato e battezzato a Basciano il 15 novembre 1930, alle 13,35, da Duilio e Manganelli Maria di Pellegro (sorella di Tono, il fabbro). Parroco Nazzareno Pavolini; comare Fusi Iginia Ved. Tamburini; compare Giorgio Fusi. E’ l’ultimo Fusi, e non è falegname.



Calzolai
Fu nel 1904 che Oreste Mencherini costruì a Quercegrossa la sua casa detta il Leccino Nuovo, e destinò una stanza al piano terra a magazzino e luogo di lavoro, che si può definire la prima bottega di calzolaio in paese. Tuttavia, come avveniva da secoli nelle campagne, continuò a girovagare per i poderi in cerca di lavoro per il quale esisteva una nutrita concorrenza dei calzolai ambulanti e dei tanti contadini che si arrangiavano risolando e facendo scarpe, risparmiando così denaro. Si ricordano alcune figure che negli anni tra le due guerre offrivano la loro opera alle famiglie: “Il Pelosi era garzone a Pietralta, ma faceva anche il calzolaio. Veniva a Viareggio, ci stava alcuni giorni e faceva le scarpe a tutti con i materiali che trovava in casa". Vera, la cugina di Anna Petri faceva l'infermiera, e la calzolaia come secondo lavoro per poche lire. Da Vagliagli veniva un certo Tonino Viligiardi a fare il giro della zona di Petroio. Tutti insomma cercavano di risparmiare o almeno di spendere poco. La mi’ zia Piera: ”Si prendevano anche i serpi, per la pelle: si spellavano e si portavano al calzolaio per farci le scarpe”. Inoltre, era assai praticato dalle famiglie contadine il sistema di acquistare dai Mencherini, o da altri calzolai, del materiale come bullette, pelle, filo, e ripararsi o farsi le scarpe in proprio, come risulta dal successivo, interessante, elenco dei conti scritto nell’anno 1910 dai Mencherini. Vi si trova registrata la loro operosità in varie famiglie della nostra zona. E’ un documento assai utile, riportando il costo del lavoro e il tipo di intervento, oltre a ricordarci tutto un gergo legato a quella professione. I Mencherini, con Orfeo, Otello e Orlando, allargarono la loro attività lavorando per l’esercitò, prima a Siena, poi in Piemonte dove si trattenevano a lungo. Sono anni positivi e il lavoro non manca. Annualmente organizzavano un pranzo invitando tutti i clienti che portavano ognuno un fiasco di vino, ed era occasione per chiudere i conti con i capofamiglia che pagavano sedutastante risolature e scarpe nuove. Nel secondo dopoguerra Feo vince la fornitura per i carabinieri nelle Marche, mentre Otello apre una bottega a Siena in Via Camollia dove lavora per privati, militari, e si industria come tassista. Sono anche i calzolai dell’ A. C. Siena. Landino lavorerà molti anni nella bottega di Quercia, che divenne luogo di ritrovo per clienti e ragazzi che volentieri si intrattenevano con l’ameno e scherzoso Landino come ben esposto dalla seguente scenetta avvenuta nel 1949: “Don Francesco aveva messo su la squadra di calcio, e il Pagni Graziano non aveva scarpe. Landino, dato che i Mencherini erano i calzolai del Siena, procurò alcune paia di scarpe. “Quanto volete?”, chiese Graziano, “ma non ho soldi”. “Portami qualche palo da vite”, gli disse Landino. “Come li volete?”. “O schiribilloso, che me li vuoi portare usati?”.
Ai Mencherini, dal 1932, cominciò a fare concorrenza anche un calzolaio proveniente da S. Maria Novella, sotto Panzano: il Cappelletti. Silvio, con il babbo Giuseppe, arrivava a Quercegrossa tutte le domeniche mattina, restituiva il lavoro fatto e ritirava quello da fare che caricavano sulle loro biciclette e in serata rientravano a casa. Aveva in affitto una stanza nel Palazzo Mori, quella con la porta davanti alle Case Ticci. Subito dopo guerra, nel 1946, gli viene data la stanzina seminterrata nel Palazzaccio e lì lavorerà in pianta stabile, con apertura giornaliera, fino agli anni Sessanta inoltrati, aiutato dagli apprendisti Mauro Tognazzi e poi Mario Masti. La sua bottega sulla via principale sarà centro di chiacchiere e discussioni nel dopoguerra per Bartali o Coppi, e per la politica, e luogo da passarci un’ora a veglia. Mi ricordo che per fare un paio di scarpe nuove metteva un pezzo di cuoio in terra dove il cliente appoggiava il piede scalzo, e lui con una matita, ne segnava la forma girandogli intorno; di solito la misura tornava. Dopo qualche anno si fece una bella mola nuova a 4 spazzole per la levigatura e pulitura delle scarpe. Chiuse bottega nei primi anni Sessanta, ma continuò a fare lavoretti di riparazione ancora per molto, soprattutto per il figlio Sauro titolare della “Calzoleria Lara” in Siena.
Una memoria degli antichi lavoranti ci viene dai registri di Basciano del 1824 dove all’Arginanino i Naldini ospitano Pietro di Bernardino Bianciardi “che viene dal popolo di Cellole in qualità di lavorante di scarpe”.
Presento ora i rammentati conti Mencherini, dell’anno 1910. I dati riguardano 9 famiglie, le quali spendono mediamente 80 lire annue per risolature, materiale e scarpe nuove. Totale importo lavori effettuati:
Carli - Pretoio £ 112,92
Buti - Quattro vie £ 60,20
Bravi - Poggio Benichi 2 anni £ 202,10
Landi - Castello £ 89,80
Manganelli - Gallozzole £ 54,70
Gori - Casalino £ 78,00
Pepe Bosti - Caggiolo £ 80,45
Contadini Casanova Torre £ 82,10
Manganelli delle Redi £ 63,60
Riporto soltanto i conti di due famiglie clienti, bastanti però a darci il valore del lavoro svolto, e introdurci nei bisogni “calzolari” di quei tempi. Il testo è trascritto fedelmente.
Conto di Buti delle Quattro Vie
Al dì 20 dicembre fatto le scarpe grosse alla popa 9,00
ricucite e messo un pezzetto nel mezzo bulette alle scarpe di beppe e imbullettate alla Popa 1,00
al di 10 marzo rimesso tutto il davanti e un pezzetto sotto a Butone e una toppa a un'altra scarpa 1,00
al dì 19 detto fatto le scarpe abbottonate a Dele 10,00
a di 30 marzo risolato una scarpa al capoccio e accomodata una a beppe 0,80
accomodato un porta stanghe e uno stivaletto alla mamma e una briglia 1,50
al dì 4 giugno risolate le scarpe alla mamma 1,70
al dì 10 detto accomodato le scarpe a dele 0,60
al dì 20 detto risolato le scarpe nere a beppe 2,30
e accomodato quelle nere e una grossa a dele 0,60
al dì 20 agosto risolato le stivaletti 2,30 - e quelle grosse di dele risolate 1,80
accomodato le scarpe al capoccio 0,80
al dì 2 settembre risolato le scarpe alla popa abbottonate 1,80
al dì 10 detto messa una toppa alla scarpa di dele
al dì 20 ottobre risolato le scarpe nere a bebbe
Somma è di lire 50,70
fatto le scarpe alla moglie di butino 9,50
saldato 60,20
Conto di Sabbatino Carli Pretoio
al di 20 gennaio dato cuoio chili 2 e 600 grammi al prezzo di lire 5,50 il chilo importa £ 14,40 e vacchetta chili 1 e 940 grammi al prezo di lire 6,50 il chilo importa 12,65
e portato due gomitoli di spago e un chilo di bulette e fatto 4 opre lire 5,00 - rimesso li lastici a giulio e ricuciti li stivalette 1,30
al dì 4 aprile fatto due opere 2,50 e portato un chilo di bullette e un gomitolo di spago 1,25 - fatto le scarpe di gigione 11,00 - e fatto 4 opere 5,00 - e portato un chilo di bullette e 2 gomitoli di spago e occhiolini 1,60
il dì 8 giugno risolato le scarpe fini a Carlo 2,30
al dì 27 luglio fatto 7 opre e portato 3 gomitoli di spago 9,35 - e occhialini e gangi 0,20
e portato cuoio chili 3 e 300 grammi a lire 5,50 il chilo 18,30 - e portato vacchetta chili 2 e 320 grammi a lire 6,50 il C, 15,17
al dì 10 settembre risolato le scarpe a beppa 1,60
al dì 10 ottobre fatto 5 opre 6,50 - e portato 3 gomitoli di spago e un chilo e mezzo di bullette e occhiolini 2,30
Somma £ 112,92 e resto addare dellanno passato £ 30,35 intutto sono £ 143,27 - dato inacconto £ 100. resta addare £ 43,27
Saldato
Il libretto di casa Carli all’anno 1910 riporta: spesa calzolaio L. 100.



Veterinario
E’ il dottore degli animali che da secoli cura, castra e fa nascere in tutte le stalle coloniche. La prima scuola in Toscana venne aperta a Pisa nel 1818; fu l’anteprima dello studio universitario che prese il via in quel secolo, e che continuò a sfornare laureati in veterinaria che vennero a sostituire nelle campagne gli antichi medicastri esperti nel ramo. Non conosco nominativi, nemmeno per il Novecento, e l’ultimo professionista visto all’opera è stato il dr. Morelli di Castellina. Uomo che per la sua professione lo incontravi spesso a Quercegrossa dove al bar apprezzava una colazione fatta di salciccioli crudi che divorava interi e in genere di tutti gli insaccati di maiale dei quali era un gran consumatore.
Con la crisi della mezzadria e lo spopolamento delle campagne, il veterinario continuò a lavorare nelle stalle specializzate nell’allevamento bovino e suino, e col tempo indirizzò il suo lavoro verso gli animali piccoli che cominciavano e ricevere particolare attenzione dalle famiglie.
Ancora negli ultimi tempi della mezzadria esistevano contadini esperti che curavano e medicavano le proprie e altrui bestie personalmente, sempre per evitare di chiamare il veterinario e spendere soldi. Solo quando una vacca aveva un parto difficile, o di fronte a malattie incomprese per una bestia, il contadino allora chiamava il veterinario.
Gigi di Carli interveniva nei vari poderi quando c’era da rimediare a qualche infiammazione di maiali e pecore “per queste che più che malattie erano mali”, e poi “non si poteva chiamare sempre il veterinario”.
I Taloni era un'infiammazione della gola che, come le setole, impediva al maiale di mangiare. La gola gonfiava come le tonsille infiammate di un bambino, Gigi l'apriva dall'esterno con un coltello facendo uscire il pus, e sui tagli metteva sale e pepe; di solito operava a destra e sinistra della gola.
Le setole del maiale o come dicevano: "Ha le setole", erano un mazzetto di peli duri alla gola che si saldavano tra loro diventando un compatto tassello che bucavano e penetravano all'interno della gola del maiale facendolo smettere di mangiare (non ci dovevano dormire nemmeno una notte appena gli venivano). Gigi afferrava la parte setosa, ne faceva un pizzicotto che infilava con un ago da materassi o una lesina da calzolai, girava poi lo spago intorno legandolo strettamente. Quindi con un coltello o un trincetto da scarpe tagliava questo pizzicotto legato, che stringeva le radici delle setole, facendo proprio un buco nella gola del maiale che riempiva di sale e pepe. Dopo tre o quattro giorni l’animale riprendeva a mangiare.
Le bolle delle pecore sulla lingua impedivano a queste di mangiare. Gigi si metteva a cavalcioni della pecora, ora immobilizzata. Gli apriva la bocca e tirava fuori la lingua bollosa. Con una crosta di pane duro cominciava a drusciare lentamente le bolli fino a toglierle completamente, poi medicava la lingua sanguinante col solito pepe e sale. Non sappiamo cosa pensassero le pecore di questo trattamento, ma d’altronde era indispensabile, altrimenti morivano.



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