Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI

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Cose Giotto il fornaciao
Il personaggio Giotto, già tratteggiato ampiamente nella storia della sua famiglia, i Fontana, merita un approfondimento per essersi messo in mostra come pochi a Quercegrossa nel periodo tra le due guerre mondiali per la sua intensa attività di fornaciaio e l’altra altrettanto accanita attività di costruttore. Inoltre le sue burrascose e toccanti storie familiari, i suoi trascorsi militari e i difficili rapporti con mezza Quercegrossa ne fanno un protagonista fuori del comune. Temuto per la sua arroganza, Giotto riuscì tuttavia a vivere in paese rapportandosi in modo normale con molti paesani pur senza concedere tanta confidenza, ricevendo rispetto da alcuni e rancore da altri, così come lui ricambiava. Si può dire avesse “leticato” con mezza Quercia, ma questo non gli impediva di scendere in piazza la sera e fermarsi amichevolmente a conversare. Era in queste circostanze, quando manifestava con convinzione le sue idee filomonarchiche senza tuttavia fare l’antifascista. Le cronache della Prima guerra ci rammentano un Giotto intrepido, quando trascina i camerati in un assalto alla baionetta, e si è saputo che venne ferito all’orecchio dallo scoppio di una mina, finendo suo servizio nel 1919 in una fabbrica di proiettili, ma soprattutto ci parlano di un uomo mobilitato più volte dal 1908, quando scava i morti del terremoto Messina, al 1919, e certamente ne subisce le conseguenze acquisendo una certa rigidità di carattere che unita a un naturale orgoglio ne fecero un uomo intransigente che non perdonava niente ai familiari e a chi gli stava intorno, portandolo, inoltre, a rifuggire ogni compromesso. L'aspetto fisico era quello di un uomo robusto, anche discreto e a volte piacevole: “Sapeva vestirsi perchè ci ambiva, siccome gli piacevano le donne”.
Ho accennato alle storie familiari di Giotto e purtroppo le testimonianze di chi c’era non lasciano adito a dubbi su quanto siano state tormentate, e in particolare sulle continue percosse distribuite ai famigliari e per le quali venne anche denunciato andando sotto processo per la morte della figlia Lea. Il processo si svolse a Siena agli inizi del 1937 e la sentenza fu emessa nell’udienza pomeridiana del 12 febbraio dello stesso anno. Tra i testimoni furono sentiti Gina Rossi, Damino Losi e sua moglie Maria. Giotto era presente dentro la gabbia degli imputati “e ci guardava a muso duro, quando si testimoniò”, ricorda Gina. Ma Giotto vinse la causa. Infatti la sentenza del giudice lo mandò assolto dall’imputazione di maltrattamenti in famiglia “perchè il fatto non sussiste”. Nessuno può dire se l’assoluzione di Giotto sia stata giusta o meno, ma la voce popolare aveva un solo suono. La zia Gina tornata anni dopo a Siena incontrava spesso Giotto ormai invecchiato, ma lui la salutava come se niente fosse stato: certamente Giotto non era vendicativo.
Non si vergognò nemmeno quella volta che aggredì la moglie Sandrina nella bottega del Brogi. Sandrina beveva e aveva lasciato un conto da pagare in bottega. Giotto, che tra l’altro non parlava ai Brogi, entrò furioso e l’afferro: “Gli mise la testa tra i corbelli della pasta e giù botte”, ricorda Settimia Brogi allora giovane bottegaia. Sandrina portava i capelli alti, tenuti da lunghi fermagli con brillanti e sotto quella gragnuola di busse i fermagli gli penetrarono nel cuoio capelluto facendola sanguinare. Tra i Brogi e Giotto, entrambe le famiglie imparentate con i Ticci, c'erano stati interessi di mezzo e non si parlavano: “Se c'era da comprare qualcosa, Giotto ci mandava la sua inquilina Gina Tognazzi nella bottega del Brogi”.
Fra i tanti modi di ricordare Giotto, primeggia il ruolo di fornaciaio per essere stato lavoratore instancabile nelle sue fornaci fino all’ultimo, ma va ricordato anche come costruttore, imprenditore e commerciante. “Giotto era sempre in bicicletta”. Lo vedevano continuamente partire e arrivare, indaffarato. Fu lui a costruire nuove case in Quercegrossa e il podere dei Poggioni. Molti operai del paese furono saltuariamente alle sue dipendenze e fra i tanti anche il mi’ nonno Egisto Rossi che lavorò nella fornace. Sulle qualità professionali di Giotto le voci sono unanimi nel rammentarlo un vero artista abile e creativo. Investì anche nell’industria divenendo socio del Lolini e Muzzi nella vetreria in Pian d’ovile, cosa alla quale molto teneva, e aprì un negozio in Calzoleria per la vendita di prodotti ceramici da lui realizzati. Ma questa attività non rendeva e venne ben presto chiusa. Insieme ai soci della vetreria acquista il 13 novembre 1943 la metà del Poderino da Vico Barucci al quale cede il Palazzo di Quercia. Ma Giotto Fontana non era un affarista e si dice che i suoi soci gli abbiano mangiato il Poderino e altro, mettendolo sul lastrico. Tornato a Siena, Giotto acquista insieme a Lando Bonelli, l’ex mugnaio di Quercegrossa e marito di Duilia Losi, il campo sottostante la strada delle Grotte dove vi installeranno un allevamento di polli e “coniglioli” che Lando venderà nel suo negozio di macellaio in Via d'Indipendenza, mentre Giotto vi coltiverà l’orto. Inoltre, Giotto continuerà per necessità il suo lavoro di fornaciaio. Ottenuto, infatti, dal Comune di Siena l'uso di una grotta-stanza con soffitto a capanna in Via delle Grotte, egli vi crea con le sue mani, a forza di picconate nel tufo, un secondo ambiente supplementare della lunghezza di 4 metri e dell’altezza di circa 2 metri e mezzo che funge da fornace vera e propria con la sua finestrella per lo sfogo del fumo. Vi realizza manufatti di quadro e di tondo, venduti in loco o inviati agli acquirenti. Non avendo il tornio usava una semplice colonna con una piattaforma, sulla quale lavorarvi oggetti vari. Vi girava intorno per dare la forma rotonda al manufatto. Riempiva la stanza di fastelle e metteva i vasi a cuocere nello stanzino-fornace che poi chiudeva totalmente lasciando soltanto l'apertura inferiore per alimentare il fuoco. Restava per tre o quattro giorni al chiuso, intento a far funzionare come si doveva la fornace. Il fumo, fuoriuscendo, invadeva il territorio circostante suscitando malumore tra i pochi abitanti vicini, e la notte si poteva vedere dalla sua abitazione in via dei Pellegrini l’intenso chiarore del terreno rovente, incandescente, di un colore rosso vivo. Percorreva a piedi la strada casa-lavoro-casa anche quattro volte il giorno, in un incessante impegno produttivo.
E’ anche ammirevole lo spirito imprenditoriale e lungimirante di quest’uomo che tra l’altro fu uno dei soci fondatori della Banca di Monteriggioni, presente quel 18 ottobre 1924 dal notaio Nencini per costituire una società cooperativa a durata trentennale insieme a don Alessandro Muzzi, a Giuseppe Vienni di Quercegrossa, a Leone Boschi delle Badesse, e altri, sacerdoti e laici. Alla “Banchina” si rivolgerà più volte per ottenere prestiti per finanziare le sue iniziative economiche come nel 1941, quando chiese un prestito da commerciante, o nel 1943 con una grossa richiesta di finanziamento agrario di 15.000 lire da investire probabilmente nel nuovo podere dei Poggioni. Finisce qui la relazione su questo personaggio originale e volitivo, pieno di progetti spesso realizzati e mai domo nonostante quello che gli era capitato. D’altronde riecheggiano fra i tanti detti anche certi suoi comportamenti gentili e cordiali: nella frase amorosa rivolta alla giovane moglie, lasciata sul retro di una cartolina, o quando ci scherzava e gli metteva le castagne nello scaldino, oppure si rammenta il suo sogno mai realizzato di farsi una Balilla. Inoltre non gli vengono attribuiti grossi vizi: non giocava e non beveva. Quasi, quasi un uomo integerrimo, da apprezzare, se non fosse stato per quella sua manesca e prepotente maniera di trattare le persone che gli erano più vicine.

Le fornaci hanno sempre occupato un posto rilevante nelle economie di tutti i tempi per aver fornito grandi quantità di laterizi (mattoni, tegole ecc.) e calce da costruzione. Da questa brevissima introduzione si comprende quanta importanza avesse questa attività nell’economia e come si avessero nel passato due tipi di fornaci, rimaste attive un po’ dappertutto fino agli inizi degli anni Sessanta del Novecento. Le fornaci richiedevano una grande maestria, sia per il sasso sia per l’argilla, da parte di coloro che le preparavano e alimentavano, e tra questi si sono avute figure di grande professionalità come il rammentato Giotto Fontana.
Anche nel circondario di Quercegrossa abbiamo esempi di impianti funzionanti tra le due guerre, per periodi di tempo più o meno lunghi, ossia la fornace di Giotto e quella di Passeggeri che riforniva prevalentemente la fattoria e poderi del Sarrocchi. Ci sono inoltre memorie settecentesche delle fornaci del podere Erede e quella di Petroio e memorie antichissime come la fornace nei campi di Gaggiola che a parere di un esperto avrebbe contribuito con i suoi mattoni alla costruzione della torre del Mangia. Senza descrivere minuziosamente le fasi della lavorazione, riporto sommariamente i ricordi di coloro che vi hanno lavorato o le hanno viste in funzione, ritenendoli sufficienti a spiegare le fasi salienti di questa impegnativa lavorazione.

Fornaci di laterizi
“La fornace serviva per far calce e mattoni, la carbonaia per fare il carbone”.
“Giotto lavorava nella sua fornace ... la fornace di Giotto era verso le Garle, dietro Riccieri e vicino al Poderino ... e lavora di quadro ... con gli stampi di mattoni che venivano riempiti di creta e galestro. Il galestro è rosso ... tritato con le macchine ... veniva da Radda”.
“Le fornaci avevano una macina tipo quelle da frantoio e li macinavano la terra”.
“Alla fornace di Passeggeri, la ciuca macinava l'argilla di galestro, quella rossa, per fare mattoni. C'era una cava alla Torre e una al Polloneto”. “La fornace era ricoperta con 30/50 centimetri di terra a zolle e occorrevano circa 8 giorni di fuoco continuo, alimentato con piccole fastella di scopi”.

Aggiungo soltanto per le fornaci di mattoni che il tritato uscito dalla macina, o dove non era, dalla battitura con martelli, veniva impastato in acqua con le mani e i piedi e quindi messo negli stampi. Dopo un paio di giorni, i mattoni crudi, dopo essere stati ripuliti da sporgenze e magagne erano accatastati in modo da farvi circolare aria e seccarli, protetti alla meglio da una copertura affinchè in caso di pioggia non si bagnassero. Passato qualche altro giorno venivano disposti nella fornace (a forma di un grande cono spuntato) per esser cotti. Questa operazione durava più giorni e richiedeva grande attenzione nell’alimentare la giusta fiamma (per la quale occorrevano centinaia di fastella) e nel controllo della cottura omogenea dei mattoni. A termine della cottura, a fuoco spento si tappava completamente la fornace e pian piano si facevano ghiacciare i mattoni onde evitare si schiantassero per il repentino passaggio dal caldo al freddo. Poi il barrocciaio provvedeva a trasportare i mattoni là dove erano richiesti, dal privato o dal commerciante. Un’attività in conclusione che occupava poche unità lavorative al bisogno, escludendo le grandi fornaci sia di laterizi sia di calcina produttive a tempo pieno.
Un altro mestiere simile era il carbonaio, ma col più semplice scopo di ricavare carbone dalla combustione di legnami e il principio era lo stesso delle fornaci di laterizi e calce.

Carbonaie
“La carbonaia era una catasta circolare con la legna piccola posta all'interno della catasta e ricoperta di zolle di terra. La legna bruciando si trasformava in carbone. Tutto, temperatura e fiamma, era controllato dall'uomo il quale nei casi di necessità praticava dei fori laterali per diminuire il calore o la fiamma”.
“Quando facevano il carbone toglievano la terra che ricopriva la carbonaia e poi con le pale spostavano il carbone. Quando un bosco veniva abbattuto, il fornaciaio comprava il bosco e costruiva la fornace che alimentava con fastella”.
“Rutilio era il carbonaio di Gosto; le carbonaie erano attive d'inverno. Tagliavano la legna all'epoca giusta: lecci e querci. Le carbonaie avevano sfiati laterali per mantenere la giusta temperatura. I tizzoni rossi erano poi spenti coll’acqua”.
“Gosto alla carbonaia portava la legna e faceva fare il carbone a Rutilio Pulcini di Santo Stefano e al Gori di Fonterutoli”. “Il Pulcini Rutilio era un esperto fornaciaio ... con fiasco del vino accanto”.
“Le carbonaie erano spente con l'acqua portata col carro. La brace serviva per i foconi, per i fornelli e anche per fuoco a letto, coperto di cenere”.
“Carletti Gino detto "il Mancino" faceva il carbonaio, vendeva carbone dopo che smise di essere contadino alla Magione. Vendeva il carbone a Siena”.


Fornaci di calce
“Nelle fornaci facevano la calcina ... cuocevano i sassi d'alberese poi con la pala li toglievano e li caricavano sui camion. Quando li immergevi nell'acqua diventavano calce”.
“Il procedimento per fare la calce era il seguente: venivano ammassate delle pietre di alberese e ricoperte di terra con sotto uno strato di legna per la combustione. Il grande calore sviluppato cuoceva le pietre, le quali messe poi in una buca vi veniva versata sopra dell'acqua che friggendo liquefaceva le pietre e si aveva la calce; serviva a murare mischiata a rena
(come il cemento oggi), per imbiancare, per disinfettare ambienti ecc.”.
Una causa del Settecento fra Giuseppe Peri, Antonio Bonelli e Gaetano Nepi contro le monache di S. Lorenzo di Siena ci fa conoscere nei particolari la produzione di una modesta fornace e quell’aspetto commerciale che gli ruotava intorno. Una cronaca ridotta, riguardando una sola lavorazione, con un limitato movimento, ma bastante subito a mettere in crisi i rapporti fra i due interessati al guadagno: i fornaciaioli contro le monache.
Doveva trattarsi di una concessione una tantum come probabilmente era usanza fare dalle monache e da altri proprietari, cioè affittare la fornace ogni tanto, magari al bisogno, come ad esempio appare dalla grande quantità di calcina presa dalle monache, e legata anche alla possibilità di produrre fastella dalla stipa del bosco “Ogni cinque anni si tagliava la stipa perchè non inceppissero”.
Nell’anno 1757, i sopracitati convennero con la Molto Reverenda Madre Maria Anna Pianigiani e il suo fattore di fare una fornace di calcina balzana sulle terre delle monache, al podere di Petroio (Casagrande), riconoscendo alle monache un rimborso di due lire per ogni moggio di calce prodotto nella fornace. Vi rientrava nell’accordo anche “tagliare la stipa” nel bosco delle monache, per far cuocere i mattoni e furono fatte 6.000 fastella che ne rimasero dopo la cottura 1.500 delle quali una parte venne consegnata al monastero e l’altra rimase nel bosco a disposizione dello stesso, ma valutate lire 1 ogni 100 con un credito di lire 15 (6.000 fastella valevano quindi 60 lire, la paga di due mesi di un salariato).
I fornaciai ricevettero in più volte dalle monache per le loro fatiche lire 121 e 10 soldi e in più ebbero tre barili di vino, dei quali due dall'oste della Ripa che sapevano di muffa, e un barile dal convento al prezzo di lire 10 la soma, benchè a ricolta valesse lire 6.7, che fanno lire 15. Quindi fatti i loro conti rimanevano con un residuo da avere di lire 36 e soldi 20. Aggiunge il Peri che nonostante i molti viaggi fatti al monastero per ottenere il saldo non riuscì mai a farsi dare una lira e stancato decise di rivolgersi alla Curia per risolvere la questione.
Sorvolando ora su quanto avvenne successivamente nel litigio, dove si discusse anche sui parametri di misurazione con l’intervento di esperti fornaciai per conoscere l’esatta produzione, per concentrarsi sull’aspetto tecnico della fornace e ricavarne quei dati conoscitivi essenziali. Basterà sapere che le Monache di S. Lorenzo furono costrette, dopo una revisione dei conti, a pagare ancora lire 4 e 15 soldi per la maggior produzione.
Dobbiamo tener presente che la produzione delle fornaci veniva calcolata in proporzione alla sua grandezza e la fornace di Petroio fu misurata l'8 maggio 1758 dagli esperti mastro Antonio Speri di Siena, su incarico delle monache, e Lorenzo Merlotti, per il Peri. Essi, recatisi a Petroio, trovarono la fornace essere alla base larga 6 braccia (3 metri e mezzo circa) e alla bocca braccia 5 e once 5, per un'altezza di 6 braccia. La fornace, una buca incassata in un terrapieno con un’apertura agibile alla base, veniva riempita di sassi da cuocere prima dal basso e poi dalla bocca, quando la quantità del materiale si innalzava all'interno. La bocca in alto veniva poi coperta per mantenere il calore all’interno della fornace. In basso, all'apertura, rimaneva un cunicolo vuoto per introdurvi le fastella che alimentavano la fiamma. Questa fornace era dunque di braccia cube 148 (28 metri cubi circa) che a stara 10 per braccio cubo (220 kg) e di 65 libbre per staro ci ricavavano moggia 61 e stara 19 di calcina. Ora però si aprì un altro contenzioso perchè il computo “fondato nella pratica moderna” e confermato da testimoni esperti calcolava 50 libbre (17 kg) per staro e non 65 (22,1 Kg) del conto precedente, quindi, di riflesso, nel primo conto il totale risultava di moggia 61 e stara 19, mentre nel secondo aumentava a moggia 80 e stara 8. E così venne considerato il secondo calcolo basato sui seguenti valori relativi soltanto al calcolo della calce perchè per le altre misurazioni di liquidi e cereali i valori erano diversi:
uno staro è di 50 libbre (17 Kg);
una soma sono stara sei (libbre 300 pari a 102 kg);
un moggio sono stara 24 ossia 4 some ossia 1200 libbre pari a 408 Kg.
Chiudiamo l’argomento per non confondersi ulteriormente e vediamo la nostra fornace rendere moggia 59.1, alle quali vanno tolte moggia 13 di calcina non cotta (quella alle pareti e in alto dove là il calore stenta ad arrivare) e rimasta in fornace, di conseguenza restano da vendere moggia 46.1. Abbiamo visto che la calcina oltre che per costruire aveva altri impieghi e piccole quantità sono acquistate dai proprietari dei poderi della zona di Quercegrossa, e vediamo allora cosa avvenne di questa infornata di calcina leggendo le dichiarazioni di tutti gli acquirenti:
a Filippo Nelli 3 moggia (padrone di Casapera e Quetole; il 23 aprile fa fede di aver preso moggia 3 e di averle pagate al fattore delle monache);
a Giovanni Curini 3 some (padrone del Castello);
alle monache della Concezione 1 moggio; (dichiarazione della camerlenga del convento Maria Gesualda Mengoni che per il loro podere delle Rocche, fu cavata una soma di calcina a balzana dal lavoratore Domenico Bechelli);
alle monache della Madonna 2 some (per il loro podere di Montenero, presa dal colono Domenico Burresi su ordine del fattore Giuseppe Salviati “che dovevo riavere per imprestata a detto monastero in occasione di muramenti”);
a Francesco Minucci 2 moggia (padrone di poderi nel Chianti);
al Faleri 2.2 moggia (per il podere dell’Olmicino del sig. Faleri, cavata dal colono Angiolo Burroni e per lui scrisse il curato Picconi);
al sig. curato Picconi 2 moggia;
al sig. Andreucci 3.2 moggia (padrone a Quercegrossa e Casino);
al sig. Antonio Nelli 5 moggia (il 27 aprile 1758, dichiarazione scritta da Lorenzo Merlotti, prese 5 moggia portate da Domenico Masini, per il Nelli, al podere di Petralta);
alle monache di S. Lorenzo 18 moggia (come da fede del Sampieri e del Picconi; Domenico Lardori fa fede di aver visitato la calcina al convento delle monache di S. Lorenzo e averla trovata 5 moggia);
ad Angelo Piazza 1 moggio (il muratore Piazza il 10 aprile 1758 denuncia aver avuto 4 some (4 quintali) di calcina balzana che avendo preso l'acqua alla fornace mezza l'ho buttata via);
al convento delle monache di S. Lorenzo 5 moggia (Domenico Lardori fa fede di aver visitato la calcina al convento delle monache di S. Lorenzo e averla trovata 5 moggia);
S. Agostino 3 moggia (al convento);
a Francesco Marchetti 1 moggio (affittuario del podere della Magione; caricata dal mezzaiolo Mugnaini e per lui pagata dal mugnaio delle Badesse Giovanpietro Ticci);
a Gaetano Bruschi 11 moggia (muratore che ha pagato alle monache);
Totale moggia 59 1/2.
Alla ... Francesquola 1 moggio:
a Guerrante dell'uccellatoio 0.2 moggia.
Totale 60.3 (un recupero da quella cotta poco?).
A lire 2 il moggio importano lire 121.10
Item lire 2 per il copritoio.
Item per fattura di fastella 1500, lire 15.
Deposito all’Arcivescovo Lire 49.
Totale lire 187.10
E’ da aggiungere che per ottenere la licenza di fabbricare calcina, il Peri e gli altri soci dovettero versare un deposito cauzionale all'arcivescovado “e poi resoluto” di lire 49.
Inoltre, il curato di Quercegrossa concesse l’uso “la commodità di una stanza” al fattore delle monache Giovanni Palagi per depositarvi provvisoriamente 10 moggia (40 ql) di calcina “cavata dalla fornace di Petroio”.

Gosto il boscaiolo
Agostino Torzoli, e non Torsoli, di professione boscaiolo imprenditore, nato 1904 al Colombaino dell'Aiola. Il suo ruolo in paese, certe sue colorite espressioni e il suo modo di essere, lo rendono il personaggio tra i più ricordati avendo vissuto per oltre un quarantennio in piazza a Quercia.
"I tedeschi glielo mignonno, ma poi lavoronno tanto". Con questa espressiva frase, pronunciata nel bar di Quercia, mentre stava parlando del mulino Niccolai di Castellina con l'aria dell'esperto conoscitore delle vicende altrui, introduco il personaggio "Gosto". Il suo linguaggio era quello antico delle campagne di Vagliagli e Quercegrossa dove aveva vissuto da analfabeta e assimilato quella particolare coniugazione verbale descritta, che oggi si può udire raramente e solo sulla bocca di qualche anziano contadino. Non era stato a scuola, ma sapeva però fare la sua firma al posto della croce perché diventato uomo di commercio era il minimo indispensabile da imparare.
Nato contadino fu nei boschi della Torre di Passeggeri, dove visse i suoi primi anni, che in Agostino crebbe la vocazione per quel mestiere, fatto poi per tutta la vita: il boscaiolo. Ma Agostino era un nome troppo lussuoso per un taglialegna, e tutti lo chiamarono Gosto, e per noi a Quercia fu sempre "Gosto di Torzoli".
Da giovane, in famiglia di contadini, i primi guadagni della sua professione li deve consegnare al capoccio: "Pigliava tutto lui”. Gosto si sente defraudato e reagisce maturando la decisione di lasciar casa e all’età di trent’anni circa si trasferisce a Quercegrossa, nel Palazzo di Giotto, dove in seguito coabita con la sorella Alduina. Prima di tornare a Quercia vi veniva per la partita serale, poi, lasciando la bottega del Brogi, acquistava sempre un sacchetto di noccioline e scherzando diceva a Settimia: "Queste mi bastano fino alle Redi e quest'altre fino a casa”, ossia a Belvedere dove la famiglia si era trasferita.
Uomo robusto per nascita, col lavoro si era formato un fisico possente, magari non scolpito come quello di un culturista, ma forte come un toro. Con l'età si era appesantito e ingrossato, ma si intravedeva ancora quella possanza che aveva trasportato balle di carbone pesanti 130 Kg, salendo una scala gradino dopo gradino, lentamente, piede dopo piede attento a non sbilanciarsi, come lui stesso mi aveva raccontato, o quando nei suoi boschi aveva fatto volare pezzi d'albero come fuscelli, e nel rammentare sembrava rivivesse, emozionato, quei momenti di tanti anni prima.
Di colorito rossastro, occhi azzurri, capelli di un biondo giallo-stoppa con un ciuffo ribelle, continuamente aggiustato con la mano destra mentre parlava un po' alla svelta, come era la sua maniera. A volte alzava la voce per imporsi agli interlocutori: "ovvia, ovvia, ovvia", ripeteva scocciato e sicuro di sé; sapeva tutto di tutti e forse era un po’ vanitoso: "Ma che so' nini tre chili di funghi", polemizzava agli altri quando tornavano dalla cerca dei funghi. Già, lui li trovava a quintali e questo era vero perché sapeva cercare e conosceva i boschi come le sue tasche, ma certamente intendeva dire: "Ma a che siete capaci voialtri!". Non prese moglie e un fidanzamento alle Racole, durato anni, andò a male, e da gran donnaiolo qual era preferì sempre beccare in pollai altrui.
Però si ritrovò a convivere con due donne: la sorella Alduina detta "la Pirilla" anch'essa nubile, ma con una figlia, la nipote di Gosto, Rita. Questa, preso marito, lasciò Quercegrossa, ma sarebbe poi tornata per custodire lo zio e sistemargli la casa, ogni tanto. Ma, come tutte le donne a cui piace l'ordine e la pulizia, iniziò a infastidirlo con richiami per come viveva, per la casa sporca e per i suoi cappotti sdruciti dal tempo. Gosto sopportò ma alla fine non ce la volle più e visse da allora nel più completo abbandono facendosi le visite di Rita sempre più rare. Gli parlava, la nipote, di comprare un cappotto nuovo e lui non capiva; ne aveva tre, uno in casa, uno in fondo alle scale per quando usciva col fresco, e il terzo nel capanno di lavoro: gli sembravano in buone condizioni. Di tre, tutti vecchi e lisi, frutti di tempi migliori, non se ne sarebbe fatti uno buono: rammendati e rattoppati, uno aveva le maniche cucite, si fa per dire, con pezzi di fil di ferro. Il mercoledì al mercato incontrava i quattro o cinque amici di affari e di lavoro, per un caffè. Si accomodavano dal Nannini in Piazza della Posta e Gosto faceva gli onori di casa. Al banco, davanti alle tazzine pronte, sempre col suo lungo cappotto scuro addosso, prendeva la zuccheriera sotto braccio e, chiacchierando e gesticolando col cucchiaino in mano, zuccherava i caffè. “Oh zio”, gridava il cameriere fra il serio e il faceto, “ma dove la portate quella zuccheriera”. Quando non era troppo caldo vestiva sempre uno dei suoi cappotti che servivano anche a nascondere i suoi abiti trasandati. Non li abbottonava e quando si sedeva al tavolino i lunghi pinzi si distendevano sul pavimento del Nannini. L'altro appuntamento era dal Paolini per il pranzo. Il Paolini, suo vecchio cliente, aveva la "coca", come diceva Gosto: "C'è la "coca che mi abbraccia e mi serve dei pranzetti".
Nella sua professione non aveva rivali. Prendeva boschi da abbattere ovunque capitasse, assoldava operai e vendeva legna e carbone in tutta la provincia e si dice arrivassero fino a Bologna i suoi interessi. Definito “imprenditore” nello Stato d'anime della Parrocchia del 1946, aveva maneggiato milioni come lui asseriva: "Ma che lo vuoi di' a me che ho maneggiato quattrini a palate". I suoi carri carichi di legna e di carbone partivano alle tre di notte dai boschi di Passeggeri o Belvedere diretti alla stazione di Siena.
Ma il gioco finì, si dice a causa di un incidente di un camion, con la morte del camionista che mise nei guai un suo grosso cliente, un certo Dei, il quale fallì e trascinò nel suo fallimento anche Gosto, messo di mezzo, si dice, a causa della sua "ignoranza". Molti clienti del Nord, ai quali aveva venduto notevoli partite di legna, si resero latitanti e a loro faceva scrivere da Silvano Socci, suo coinquilino, e invano attendeva le risposte. L'ultimo bosco da abbattere l'aveva contrattato sulle propaggini del Monte Amiata, ai Bagni di San Filippo, dove aveva mandato due salariati di Quercegrossa, Piero Rossi e Gino Travagli che rimasero là un’invernata, ma a causa del fallimento non riscossero mai l'opra fatta.
Da allora il nostro Gosto si ridimensionò. Si limitò a razzolare nei nostri boschi, piazzando la legna a una piccola ma sicura clientela di Quercia e di Siena. Si sistemò più tardi in un modesto magazzino, là dove era stata la concimaia del Losi, e per le consegne si avvaleva dei piccoli trasportatori locali, come il Pianigiani o l'ape del Vettori. In altri tempi Gosto aveva fatto dei lavori stagionali: “Veniva a lavorare a Gardina, zappava e segava”, oppure lo ricordano operaio macchinista dai Mori. Nel tempo di guerra fece un po' di contrabbando per arrotondare. Comprava olio, grano e vino dai contadini e lui rivendeva alla sua fidata clientela, preferibilmente di fuori per motivi immaginabili: venivano a Quercia, quasi di nascosto, per prendere fiaschi d'olio e sacchi di grano, ma c'era chi li vedeva.
Grande giocatore di carte aveva passato "nottate intere" al tavolo della primiera o del tressette. Erano famose le sue teatrali lamentele e i commenti al gioco, fatti tutto stizzito e rosso in faccia: "Un sette quarto a annate", e anche: "A giornate intere senza vede' briscola", oppure: "A nottate intere senza fa' primiera: che vòi quadri viene cuori, che vòi picche viene fiori, ma come faranno" e giù smoccolava, sempre con le stesse, irripetibili, parole. Ma quando vinceva assumeva un atteggiamento bonario, quasi infantile: "Bianchina come la neve" e giocava la sua carta tutto contento.
Era stato capace di giocare tutta una notte per poi passare la giornata a tagliar legna: indistruttibile. Raccontava sempre di quando, riposandosi in un caldo pomeriggio sdraiato nel bosco, si vide un grosso serpe addosso passargli strisciando lentamente sulla sua pancia e andandosene per i fatti suoi. Come tutti i veri boscaioli non aveva dimestichezza con l'acqua. Quando lo affiancavi o conversavi con lui sentivi il profumo del bosco ed emanava odore di legna fradicia. Da vecchio, come detto, si custodiva da sé. La sua piccola dimora di due stanze aveva assunto il colore di un camino abbruciacchiato da quanto era nera a causa del fumo, col pavimento incrostato di sporco, e spesso ricoperto di bucce e residui alimentari e non riuscivi più a distinguere i mattoni. Era come poteva essere la cucina di un vecchio e solitario boscaiolo. Un giorno interrompe la conversazione in bottega: "Ora vo' via perché ho lasciato il cantero sopra la tavola e mi arriva gente". E meno male c'era Gina del Tognazzi ad aiutarlo nelle faccende.
In tempi più recenti, dopo mangiato girava con uno stecchino in bocca e alle cinque si presentava puntuale per il tè da Paola. In piedi al bancone, nel capace bicchiere col manico vi zuppava dei grossi biscotti. Ci fu un periodo in cui aveva messo su una canina alla quale era molto affezionato e lei faceva tutti i passi che faceva Gosto. Anche al bar lo seguiva e lui zuppava il biscotto nel tè e glielo faceva sbocconcellare, poi rinzuppava lo stesso biscotto e se lo mangiava lui. Questa canina, mi sembra Pulce il suo nome, ebbe la sventura un giorno di entrare nelle grazie di un grosso cane lupo, di un podere vicino, che la rovinò. La canina morì lasciando Gosto nel dispiacere. Come accennato, per un vecchio boscaiolo non c'erano misure igieniche e se c'era ancora bisogno di dimostrarlo, lo dimostrò quel giorno nel bar di Bianca e Paola: seduto vicino all'ingresso col solito cappotto che drusciava in terra, cavò di tasca un fazzoletto, che una volta doveva essere stato bianco, e con agile mossa si tolse la dentina di bocca e inizio la pulitura dente per dente. Due clienti di fuori scelsero il momento peggiore per entrare nel bar e rimasero perplessi alla vista di questo spettacolo: "Che si fa, s'entra?", mormoro uno, "Gnamo via, gnamo via", aggiunse il secondo e sparirono alla svelta. Nell'occasione di un suo ricovero all'ospedale per i primi disturbi di cuore, lo trovammo sorridente sul suo lettino. Indossava la bianca divisa dei degenti e profumava come una rosa: un occhio attento avrebbe notato la scomparsa di quella linea scura là dove appoggiava il cappello: aveva subito un completo bagno con shampo e chissà quanti anni erano trascorsi dall'ultimo. Raggiunse gli ottanta e anche lui cominciò a cedere e la demenza senile l'avvolse come un parassita avvolge una vecchia quercia, e la soffoca. A un conoscente andato a trovarlo in Commenda dove poi sarebbe morto, disse: "Lo vuoi comprà un quintale di legna?". Era già tornato nei suoi boschi, l’ultimo grande boscaiolo. Finiva un mondo.

Il mestiere del boscaiolo era tra i più duri e la paga delle giornate fatte rispecchiava quella dei salariati. Secondo la consistenza del lavoro da fare poteva esserci la necessità di albergare nel bosco per qualche settimana, oppure solitamente partire la mattina a buio per raggiungere la zona da abbattere. Quando il boscaiolo trascorreva lunghi periodi nel bosco, si costruiva il capanno per passarvi le notti. Un capanno sollevato da terra per mantenere sano il letto, vincere l’umidità del terreno e l’eventuale pioggia. Quattro grossi paletti a forma di y infilati in terra e collegati tra loro da robusti rami, con il piano formato da traverse e con pertiche verticali, che come le tende indiane si legavano in alto, lasciando però un'apertura per il fumo essendo le pareti chiuse, ricoperte con zolle di terra che le impermeabilizzavano. L’abbattimento dei boschi era preso dai commercianti in legno, come Gosto, i quali con l’ausilio di alcuni operai, abbattevano le secolari querci e lecci. Giganti del bosco, abbattuti con accetta e segone, e una giornata non bastava per buttare giù una querce, segarla e poi accatastarla: “In un giorno si potevano fare anche 10/15 metri cubi di legna accatastata”.
Con lo sviluppo delle linee ferroviarie crebbe il bisogno di traversine di legno per i binari e ciò rappresentò per i proprietari di boschi un’altra buona fonte di guadagno, non certamente per il boscaiolo costretto anche lavorare di precisione: “Le traverse servivano per le longarine per la ferrovia ... si mettevano a misura di larghezza di m.2,20 o 2,40”. Erano lavori scelti, preceduti da ispezioni dei tecnici della ferrovia che si recavano nei boschi e selezionavano, tingendoli, gli alberi adatti al loro bisogno.
Altri abbattimenti notevoli riguardavano la necessità di alimentare una fornace di carbone con la fattura di migliaia di fastelle fatte nel sottobosco e con ramaglie. Nell’esigenza vitale di lavorare quasi tutti i salariati si trasformavano in boscaioli e capitava anche che in casa Carli al Paradiso: “Dino andava a 10 anni a buttare giù il bosco con Gosto a Belvedere e le Racole”. Una categoria di professionisti ossia esperti lavoranti che si portavano nei nostri boschi furono i cosiddetti "segantini del Valdarno”. “Venivano a buttare giù i grandi alberi per farci le traversine della ferrovia e usavano quelle grandi seghe a telaio di forma rettangolare con la lama perpendicolare alla parte più lunga e tenuta da un dado. Alle estremità avevano due impugnature a forma di corna che impugnate saldamente e con forza di spinta e di tiro imprimevano il movimento a tutto l'attrezzo. Venivano usate delle zeppe sotto queste corna esterne al telaio per tirare la lama, e giù tutto il giorno a segare tronchi. Venivano e rimanevano per mesi. La sera, a veglia a Viareggio, c'era uno che portava delle foglie di tabacco faceva una pallina e la trinciava. Prendeva una cartina di marca "Luce" e faceva sigarette per tutti che venivano fumate beatamente”.
A seguire una vicenda riguardante in qualche modo il lavoro nei boschi e l’organizzazione del trasporto del legname, ancora per buona parte realizzato con mezzi antichi come il carro e un paio di bovi e il conseguente coinvolgimento interessato dei contadini. Ce ne parla Giulio Carli, allora abitante al Paradiso di Petroio, podere del dr. Luigi Pallini. “Io e il mio fratello non s'aveva mai avuto l'orologio”. Quando morì il Sarrocchi (1950) c'era il Massetano (Gosto Torzoli) a buttare giù il bosco di Passeggeri, e a Petroio rifacevano il palazzo, con Armando Ferrozzi a cavare la rena lungo il Bozzone nel luogo detto Mandria bassa. C’era un grande monte di rena da portare e lo zio Gigi gli disse: “Ha detto il padrone se si porta la rena”. A lui interessavano i soldi e fece 14 viaggi in qualche giorno ... ma nottetempo andava a Passeggeri a “smacchiare” le cataste di traversine per la ferrovia. “Veniva il Massetano e mi metteva 5000 lire sul carro e quando raddoppiarono ci si comprarono due begli orologi”. Quando poi lo zio Gigi andò a fare i conti della rena e ricordò al Pallini di pagare i viaggi a Giulio, si sentì rispondere: "Il su' nipote l'ha già riscossa la rena". Avevano fatto la spia. Si sa che i bovi erano a mezzo col padrone e ogni lavoro doveva essere autorizzato e il guadagno diviso a metà, ma Giulio senza dir niente a nessuno e per non farsi vedere dagli altri contadini la notte staccava silenzioso le bestie e partiva passando dalle Racole, la Torre e Passeggeri. Nel bosco dove erano accatastate e legate, con un canapo e l’aiuto dei bovi trascinava e caricava le traverse sul carro. “Facevo 3/4 viaggi a notte e le portavo a Bellavista guadagnando dei soldi, ma ... “c’erano più spie che cappelli” e la rena non la riscossi”.

Il fabbro
Nella zona di Quercegrossa c'era un solo fabbro ed era quello della Ripa dove convergevano contadini e salariati per assottigliare e arrotare attrezzi da lavoro, grandi e piccoli, rifare punte ai vomeri degli aratri, ferrare bovi e, addirittura, costruire carri. Questa era in breve l'attività del fabbro e appare subito agli occhi l’utilità di questo artigiano per il mondo contadino. Le loro officine coprivano in modo omogeneo il circondario intorno a Quercegrossa e oltre alla già detta della Ripa erano attive, nel 1940, officine a Vagliagli, a Fonterutoli, che apriva anche a Lornano, a Monteriggioni, alla Tognazza e al Palazzo dei Diavoli di un certo Lucesio. Quest'ultimo fabbro aveva l'officina nell'attuale Via Martiri di Montemaggio, quella via in discesa accanto alla farmacia del Palazzo dei Diavoli.
Il fabbro della Ripa, Antonio Manganelli detto Tono, era da tanti anni in affitto dai Buti e lavorava con l'aiuto di tre apprendisti e operai in un ampio ambiente suddiviso in quattro locali. All'angolo della strada per la Ripuccia si trovava subito il tramaglio aperto per due lati e coperto da un tetto a tegole. A seguire la stanza per saldare con il gassometro a carburo e le bombole. Da qui si entrava nell'ambiente principe del fabbro, la fucina, con la sua forgia e la mola. L'ultima stanza era riservata alla falegnameria dove venivano costruiti i carri per i contadini che ne facevano richiesta.
In questa bottega lavorò per circa tre anni, dal 1938/39 al 1941, il quindicenne apprendista fabbro Nello Rossi di Quercegrossa. Col padrone Tono lavoravano lui e altri due operai, ma con l'entrata in guerra gli aiutanti partirono e rimasero in due a far fronte a una discreta richiesta di lavoro. “Tono Manganelli”, ricorda Nello, “era un po' fascista e aveva l'abitudine di partecipare in divisa alle cerimonie e sfilate del partito. Ci avvisava: "Vo via, pensateci voi", e mi lasciava da solo nell'officina”. C'era sì un orario da rispettare e Nello lo rispettava, ma quando capitavano lavori insoliti come ad esempio fabbricare pennati si facevano anche le undici della notte. Per la fabbrica di questo attrezzo usavano le molle del treno, ossia le balestre, spesse circa due centimetri. Le tagliavano a misura di pennato poi le "arrovivano" alla forgia e le "stiacciavano" a forza di martellate più della metà, per portarli alla larghezza tipica del pennato: un lavoro titanico. Poi Tono le temperava da sé e li rifiniva; era un vero artista nel suo ramo.
L'altro impegnativo lavoro che gli faceva far tardi era la fabbricazione dei ferri da bovi. Gli portavano delle lastre di ferro e loro con uno scalpello e secchi colpi di mazza le tagliavano in una grezza forma del ferro del bove. Alla successiva scaldatura seguiva la martellatura che gli dava la forma perfetta, priva di magagne e sporgenze. A quel punto, con uno stampo praticavano i fori per i chiodi. Occorrevano grandi quantità di ferri perché la ferratura dei bovi era una delle principali occupazioni dell’officina e per effettuarla si servivano del tramaglio. A volte erano tante le bestie in attesa, e la fila arrivava in fondo alla Ripuccia. Lavorando al tramaglio, una grossa gabbia di legno, per prima cosa legavano due grosse fasce sotto il bove, poi lo sollevavano da terra col verricello. “In poco più di dieci minuti, in due o tre, si facevano le zampe di dietro e quelle davanti”. C'era pero un inconveniente a primavera, quando i bovi mangiavano l'erba e gli veniva il "corpo sciolto", perché mentre si dimenavano sollevati dal tramaglio “gli scappavano certe sfagliate di m…”.
Alla Ripa ferravano soltanto bovi e vacche perché Tono non ferrava i cavalli, ma c’erano delle eccezioni, e per i pochi clienti amici che ne possedevano faceva venire il già citato Lucesio di Siena, esperto e solito a questo tipo di ferratura. Nel periodo che i contadini trasportavano il grano nelle aie, non avevano tempo per venire dal fabbro a far sistemare i ferri agli animali da lavoro “e allora Tono mi incaricava di andare da quel contadino o dall'altro. Partivo in bicicletta con un po' d'attrezzi e andavo a Basciano, Passeggeri o dove capitava e nel campo rimettevo i ferri, ma solo nelle gambe davanti perché per quelle di dietro ci voleva il tramaglio”.
Un altro lavoro che non mancava mai era la costruzione di carri agricoli. Questo quando erano in quattro e lavoravano su ordinazione. Le ruote le faceva il falegname Furielli di Vagliagli. Per un certo periodo ripararono anche le pompe da rame e spesso avevano la bottega piena; in quegli anni ramavano tutti a mano. Poi arrivò Succhiellino, un Boschi, (dormiva ospite dei Nencioni all'Arginano) che si prese questo lavoro: le saldava, riparava lo stantuffo e cambiava i beccucci.
Non mancavano le falciatrici a riparare con qualche ingranaggio rotto, ma soprattutto ad arrotare le lame. La mola era fatta girare da una grossa ruota di oltre un metro, collegata da una cinghia. Il contadino che veniva ad arrotare dava una mano girando egli stesso la ruota. I lavori di assottigliatura di piccoli attrezzi e vomeri dei coltri non si contavano; arrivavano anche i boscaioli per affilare le accette. La fucina era sempre accesa; il ferro riscaldato alla giusta temperatura veniva ribattuto (assottigliato) da Tono e raffreddato nell'acqua. “Si servivano le mezzerie di Passeggeri, del Parigini, di Vignaglia e tutti i poderi di Quercegrossa. Quelli della Torre, anche se del Sarrocchi, andavano a Vagliagli. Quando c'erano lavori più grossi si segnavano e si addebitavano alla fattoria. Si teneva un librettino e lì si registrava il lavoro fatto, poi i fattori passavano a pagare. Con i contadini soldi non si vedevano e Tono si accordava per due o tre staia di grano e gli assottigliava tutto l'anno; una specie di abbonamento. Lavori di meccanico non se ne facevano e poi il trattore ce l'aveva solo il Mori a Quercia e il Parigini a Basciano".Tono sposò una Pulcini e da lei ebbe una figlia chiamata Lucia. Quando costruì la casa a tre piani lungo la strada statale, la chiamò Santa Lucia e lì trasferì casa e bottega dove lavorarono il conosciutissimo, sempre irritato, Niccolo Rovai e Renato dei Masti di Cavasonno. Povero Tono, ora è morto, mi aveva messo tre anni di marchette e non lo sapevo. Quando feci i conti della pensione vennero fuori, e mi fecero comodo".
Alcune fattorie come Passeggeri o Larginano si erano dotate di una piccola fucina, mola e altri arnesi dove, al bisogno, un contadino o un salariato fungeva da fabbro per i semplici lavori da fattoria.




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