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L'acqua I più antichi insediamenti sul territorio di Quercegrossa furono senz'altro favoriti dall'abbondanza delle acque dei torrenti Staggia e Bozzone e dalla presenza di numerose e generose sorgenti oltre a una forte caratterizzazione collinare che ne limitava al contempo i danni alle colture e i pericoli per le popolazioni, derivati dalle inevitabili inondazioni. Ricordo ancora negli anni Cinquanta la paura per "quelle povere genti del Mulino" isolate dall'ennesimo straripamento dello Staggia, le cui acque limacciose si spandevano nei piani del Mulino: lo spettacolo osservato dall'alto delle curve dei colonnini era di desolazione e timore per le incontrollate forze della natura. Ma, proprio per la sua accennata caratteristica tutto il restante territorio era risparmiato da allagamenti vari, scorrendo i due torrenti nei loro alvei incassati tra collinette. Il vantaggio della sicurezza era bilanciato però da una certa difficoltà d’approvvigionamento, trovandosi le abitazioni poderali in posizione elevata e quindi distanti dai due fiumi e dalle sorgenti con una difficoltà d’irrigazione delle coltivazioni. In queste condizioni il rifornimento d’acqua fresca da bere rappresentava un grosso sacrificio come ben ricordano ragazzi e donne che sviaggiavano continuamente con fiaschi e bottiglie da riempire alle spesso lontane sorgenti o piscioli come si diceva: “Vai al pisciolino a prendere l’acqua fresca”. Per far fronte alle diverse necessità di acqua, le abitazioni, sia contadine sia pigionali e padronali, erano dotate di pozzi, fonti, peschiere e "fontoni" più o meno contigui. Questi consentivano di attingere acqua da bere e per casa, di lavare panni, di bagnare orti e abbeverare il bestiame. I pozzi erano alimentati da acqua di vena o dalle acque piovane, mentre le fonti per lavare erano realizzate in luoghi adatti ad essere riempiti da piccole sorgenti che scorrevano quasi in superficie. Per i fontoni, dei quali ogni podere non poteva farne a meno anche per dissetare il bestiame, occorreva l'acqua piovana. Come si può facilmente comprendere l'intensità delle precipitazioni annue rivestiva quindi grande importanza e una loro minima variazione dava origine a grossi squilibri che turbavano la regolarità dei raccolti e l'approvvigionamento delle famiglie. Naturalmente nella stagione estiva la quantità di liquido in queste raccolte scemava visibilmente, e nelle annate particolarmente secche si pativa la siccità che prosciugava completamente questi depositi e inaridiva le sorgenti che perdevano forza fino a prosciugarsi o a zampillare col contagocce, come ci rammenta il pievano Merlotti in due "memorie" di avvenimenti ritenuti eccezionali per intensità, ma significativi sul periodico ripetersi di questi eventi calamitosi: "Nell'anno 1861 fu una straordinaria siccità in particolar modo per tutto il dominio senese. Cessò la pioggia della primavera nel giorno 30 marzo in cui cadde la vigilia di Pasqua di Resurrezione e non piobbe mai più fino al dì 11 settembre, ad eccezione di due volte che non mai corse l'acqua per i solchi. Scarsa fu la raccolta del grano, e delle biade si perderono quasi i semi. Il bestiame languiva dalla fame perché gli strami furono pochissimi, e dalla sete perché non si trovava acqua nelle fonti né tanto poco per i pozzi, ad eccezione di quelli di vena, che sono pochissimi. Finalmente ... “la notte tra il 10 e l’11 settembre si ruppero le nubi con lampi e tuoni caduti in particolar modo a S. Dalmazio e in altre parti fece furibonda pioggia”. A distanza di sei anni il fenomeno si ripetè: "A dì 18 settembre 1867, giorno delle Quattro tempi, cadde benefica pioggia, dopo sei in sette mesi di ostinata siccità, e tale che si erano prosciugati tutti i pozzi e le fonti di acqua perenne". In questi frangenti, dove l’uomo si rivelava impotente e inerme, non c’era altra soluzione che rivolgersi in alto e chiedere l’intervento Divino, come era già stato fatto nella precedente siccità: “Circa gli ultimi giorni dell’agosto p.p. era stato fatto un triduo coll’opposizione della Madonna detta del Voto ma Dio fu sordo per i mali trattamenti della sua e nostra cara Madre Maria SS.”. Da queste righe emerge una situazione di crisi preoccupante, ma utile a noi per capire quanto importante e vitale fosse in quei tempi la dipendenza delle popolazioni dalle precipitazioni piovose, tanto più se si considera che oltre ai danni apportati alle coltivazioni, privando le famiglie del loro sostentamento principale, il quadro sanitario si faceva preoccupante per l'uso alimentare di acque malsane con gravi rischi alla salute, procurando le più disparate malattie intestinali, spesso mortali. ![]() La più vicina e comoda riserva di acqua era rappresentata, sia nei poderi sia in paese, dal pozzo sotto casa generalmente alimentato dalle acque piovane raccolte dalle gronde attraverso condotte. I pozzi raccoglievano quindi tutto quello che si trovava sul tetto compreso lo sterco, le penne e altro degli uccelli, in genere passere, che nidificavano sotto tegole e coppi. Dipendendo la provvista di acqua dalle precipitazioni, si creavano durante la stagione estiva condizioni di scarsità di acqua al limite della potabilità e "tante volte si beveva e c'erano certi bachi". Siccome serviva "per bere e cucinare" era di necessità ripulire annualmente il pozzo di acqua piovana, a fine agosto o ai primi di settembre. Si rimuoveva la melma depositata e si lavava il fondo, mentre si dava un'occhiata al tetto, alle grondaie e alle condutture in attesa della benefica pioggia che lo avrebbe nuovamente riempito. Il pozzo nel giardino dei Mori Naturalmente esistevano anche pozzi riforniti da sorgenti sotterranee o pozzi di vena. A Quercia esistevano sette pozzi dei quali due nella villa Mori: uno in giardino e l'altro incorporato nella parte sud del palazzo; un terzo pozzo era situato nell'angolo di Casagrande a tre metri dalla casa a disposizione dei contadini e pigionali. Era detto il "pozzo lungo" per la sua profondità di 33 metri, e per la sua pulizia ogni tanto Damino Losi vi veniva calato con dei canapi, ma tutta l'operazione era fatta alla svelta per evidenti difficoltà causate dalla profondità. L'acqua di queste vene era freschissima e così fresca tanto da tenervi fiaschi o bottiglie come in ghiacciaia; persino la carne vi era conservata. Gli altri pozzi si trovavano dal Tacconi (di vena) nel retro casa come quello del Brogi (vena), nel campo del Moro (condotta) e l'ultimo, costruito da Giotto a ridosso del suo podere (vena). Nel giardino del Mori, al centro come detto, vi si trovava un pozzo, misto sorgente - acqua piovana, utilizzato per i vari usi non alimentari e rifornito dal tetto del Palazzaccio attraverso una precaria conduttura metallica esterna in mezzo al giardino. Non era facile per le donne o per noi ragazzi tirare su a forza di braccia il pesante secchio legato alla fune attaccata alla carrucola: era un'operazione ripetuta anche decine di volte nella giornata, visto che l’acqua doveva servire per venti persone. Capitava anche che il secchio si sganciasse o si rompesse l'attacco o la fune; allora si ricorreva a un rampone detto "granchio" per setacciare il fondo e recuperare il secchio. Si rammenta uno scherzo fatto da Lorenza, la quale intenta a tirar su l'acqua lasciò la presa e il secchio pieno ricadde sul fondo con un sonoro tonfo accompagnato dal suo urlo, mentre lei svelta si nascondeva dietro il pozzo. Richiamate dal rumore, le donne accorsero impaurite, timorose di un incidente. “E’ cascata nel pozzo!", gridarono, ma tutto si risolse in qualche "Accidenta a te...ci hai fatto piglià una paura...". I pozzi, compresi quelli di vena, non garantivano però il fabbisogno di acqua e specialmente da maggio in poi si ricorreva alle sorgenti vicine che assicuravano acqua fresca e potabile. ![]() La sorgente usata dall’intera popolazione di Quercegrossa era quella detta "del Doccio" o meglio "Dorcio" nella proprietà dei Mori. Si raggiungeva percorrendo in discesa la strada che dallo Stanzone portava ai campi dei Sodi e al Mulinuzzo e si trovava là dove il terreno spianava e iniziava il bosco, a 400 metri dall'abitato. In discreta pendenza, era costeggiata sulla sinistra da un greppo, frutto della sistemazione della strada forse risalente al tempo della miniera di lignite. Completamente a solatio, non un briciolo d’ombra ti dava sollievo nella calura estiva e un viaggio verso le dodici ti faceva sudare: invano cercavi riparo dai raggi cocenti alla rada ombra dal piccolo albero da frutto all'altezza del “riposo”. Ma nonostante la fatica c'è tanta nostalgia di quei viaggi al "dorcio" in compagnia o da soli, da piccoli con un fiasco o due, poi con la brocca o il secchio. Non era una passeggiata rifare la salita col peso dell'acqua e nessuno si è mai presentato volontario. Sbuffando alle insistenti richieste delle mamme, i ragazzi, cercando sempre un compagno di viaggio, s’incamminavano giù per la discesa della "strada del Dorcio" per rifornire la famiglia di acqua potabile.
La famosa strada del “Dorcio” che dal paese scendeva alla sorgente, e soprattutto vi risaliva impegnando i portatori d’acqua, in particolare i ragazzi. Nella foto precedente Maria Vienni in Losi col nipotino Fabio e gli strumenti per il rifornimento manuale dell'acqua ossia il secchio e la brocca.
La sera, prima del tramonto, sfilava una processione di donne giovani e meno giovani e spesso alla cannella c'era la fila per riempire il fiasco. Le massaie più esperte, con un palo in spalla, portavano due secchi attaccati agli estremi, tenuti da un incavo nel legno. A metà salita il "riposo", sosta obbligata per riprender fiato e far due chiacchiere con l’occasionale accompagnatore, indugiando prima di ripartire e affrontare l’erta finale che immetteva in paese. Vista la distanza e il tempo richiesto, si cercava di sfruttare al massimo ogni viaggio: molte donne, oltre al palo, tenevano un secchio nella mano libera e ricordo la zia Maria anche con una brocca in testa, così come faceva Chiarina dei Costanzi, la quale si proteggeva il capo con un grosso anello di stoffa. Ma la quantità maggiore era dello Starnini, il quale, oltre al palo in equilibrio sulla spalla, portava un secchio per ogni mano su per la dura salita del castello; in tutto facevano oltre venti litri d'acqua. Lo zio Nello ricorda la sora Emilia, quando da ragazzino gli dava 20 centesimi per il viaggio giornaliero con due fiaschi. Certe volte, con gli uomini assetati di acqua fresca, o dar da bere a tutti, in casa Mori si facevano anche cinque viaggi al giorno con tre secchi alla volta. La zia Ilda, sposa in casa Rossi, nella giornata del sabato, quando gli uomini si lavavano, rammenta di aver compiuto fino a dieci viaggi per riempire il conchino e per altri usi.
Veduta del “Dorcio” con il casottino della pompa. A sinistra in basso vi era la cannella dell’acqua, alla quale si accedeva da uno scomodo e ripido viottolo. In basso: il meccanismo a ruota della pompa da azionare a mano per avere l’acqua.
I contadini del Mori possedevano ciascuno un carro con botte fissa, chiusa, che usavano riempire e tenere come scorta d'acqua potabile vicino alla porta di casa. Erano muniti di una gomma che fuoriusciva dalla parte bassa della botte, agganciata con uno spago a un chiodo fissato al bordo alto; per l'uso si staccava la gomma che diventava così una cannella. Noi ragazzi, sempre accaldati dal gioco, quando nessuno vedeva si attaccava la bocca alla gomma e si beveva a lungo, ma spesso acqua calda. Quando stava per esaurirsi la botte, il contadino attaccava i bovi e scendeva al Dorcio e questo avveniva diverse volte la settimana. ![]() Ogni contadino fuori Quercia aveva la sua sorgente per riempirvi la botte: I Buti dell'Arginano andavano quasi giornalmente col carro in Val di Lama oppure al borrino del Casino, sommando qualche viaggio a piedi con secchi e brocche per bere di fresco. Fonti Pur vivendo una vita semplice, lontana da luci e ribalte, in ambienti di tipo agricolo a contatto con la natura, c'è sempre stata nelle nostre famiglie un'innata attenzione alla pulizia d’indumenti e biancheria. Le donne di casa si sono fatte carico da sempre di questa incombenza e i loro mariti hanno avuto sì il letto di foglie di granturco ma le lenzuola sempre linde e pulite. La difficoltà di approvvigionamento dell'acqua nelle abitazioni ha costretto le massaie di ogni tempo a recarsi alle fonti per il lavaggio di panni e lenzuola. Cariche del loro pesante fardello, rappresentato da una tinozza o catino pieno di biancheria o da un palo portato a spalla da sole o in coppia, con le figlie si dirigevano alla fonte distante sempre alcune centinaia di metri. Inginocchiate, con i ginocchi sopra una balla o della paglia, o in piedi, munite di sapone e "lisciva", una polvere bianca comprata alla bottega che sbiancava e puliva, drusciavano sul "lavabo o scivolo" e sbattevano nelle acque della fonte, anche per ore, lenzuola e abiti diversi con risultati eccellenti: infatti il lavaggio restituiva tessuti puliti e profumati. Poi con i "panni" appesantiti dall'acqua riprendevano la via di casa e tendevano nei luoghi abituali, riservati ad ogni famiglia o gruppo di famiglie. Ad esempio Ersilia Rossi tendeva fra la scuola vecchia e lo Stanzone.
Com’è ben comprensibile, lavare era dunque un'attività faticosa e le lavandaie più assidue prestavano la loro opera per diverse famiglie. Queste donne col passare degli anni patirono, oltre alla fatica fisica, il freddo invernale (molte volte dovevano prima rompere il ghiaccio della fonte), l'umidità e il caldo estivo, ricevendo in eredità dolori di ogni genere e anche malattie più gravi, come avvenne per la mia nonna Ersilia che si ammalò “di polmoni”. Se generalmente i poderi avevano i loro lavatoi in tomboli lungo la Staggia o il Bozzone o un borro vicino, in paese ci si serviva di quattro fonti, sufficienti per tutti: la fonte del Castello posta vicino alla sorgente del Dorcio, murata, col piano in cemento; quella posta sotto la stessa sorgente, a 10 metri in basso, senza nessuna opera in muratura; la fonte detta del Losi, nei campi fra Casagrande e la strada Statale, in muratura, e la fonte "dei noci", la più lontana, situata fra i tornanti della strada principale sotto la curva dei colonnini. Tutte erano alimentate da piccole sorgenti che zampillando continuamente ne garantivano il riempimento o la depurazione. Solamente a quelle in muratura, quando l'acqua diventava troppo saponosa, si toglieva il "tappo" alla base e l'acqua fuoriusciva svuotando completamente la fonte. Lentamente, nella nottata, dal "fontino", piccolo deposito di sorgente posto accanto o sopra le fonti (in quello del Losi nuotavano in acque pulitissime e fresche pesciolini rossi e neri, meta di noi ragazzi), l'acqua si travasava nella fonte e la riempiva, pronta per il bucato dell'indomani. La fonte del Castello veniva svuotata e pulita una volta alla settimana dai contadini del Castello, mentre i Losi ripulivano quella nel loro campo. Nelle altre due, "ai noci" e "sotto il dorcio", che in definitiva erano soltanto grosse buche per terra, l'acqua si depurava con il suo scorrere. Più duro il lavare in quest'ultime perché ti costringevano ad una posizione inginocchiata, in più dovevi portare anche la tavola che fungeva da lavatoio per strofinare i panni, inserita tra robusti paletti infilati per terra al bordo delle stesse. Alcune contadine portavano manciate di paglia da mettere sotto i ginocchi. Una parola anche per le due fonti del giardino del Mori: entrambe in muratura col lavatoio rigato e costruite con un bel cemento chiaro, ma senza nessuna alimentazione se non l'acqua piovana o il ricorso alla vicina peschiera; per questo furono usate pochissimo, anzi, io da piccolo non ci ho mai visto lavare nemmeno un calzino. La poca acqua piovana raccolta serviva ad ospitare solo qualche spaurito rospo.
Il bucato Se per vestiti e panni colorati il lavaggio era fatto direttamente alla fonte usando il sapone e lisciva, per lenzuola, federe, asciugamani e tovaglie bianche il risciacquo della fonte era preceduto dal lavaggio fatto in casa o in ambienti di lavoro casalinghi, in conche e conchini fornite di zipolo, usando cenere e acqua calda: era il cosiddetto "bucato", fatto ogni sette o quindici giorni. Chi non possedeva ambienti di lavoro, come i Rossi o altri pigionali, si arrangiava in casa con conchini di terra cotta sistemati sopra piccoli ceppi di legno o su una base in mattoni che permetteva lo scarico del ranno. La conca dei Mori, posta nell'ambiente del forno, era sempre in funzione: in casa c'erano minimo dieci letti, e molti di più quando ci dormivano gli operai. A fianco della conca, un capace bollitore per l'acqua col sottostante fornello a legna in un blocco murato. Ricordo che molte volte, a causa della grande quantità di panni da lavare, si aggiungevano delle stecche di legno messe in verticale all'interno della conca per aumentarne la capacità. Riempita dunque la conca di lenzuola, si copriva ben bene con uno spesso pezzo di stoffa di balla detto "cenerone o incerato", la cui funzione era di filtrare l'acqua e di non far passare la cenere che in alto strato ricopriva il tutto. Marcello: “Nel bucato alcuni ci mettevano anche pezzi di sapone”. La cenere fin dall'antichità era usata nei lavaggi per le sue sostanze detergenti e sgrassanti; in alcune zone vi ricavavano la lisciva liquida. Veniva messa nel catino anche per rigovernare tegami e cocci. Preparato il tutto s’iniziava col versare sopra la cenere alcuni secchi di acqua prima tiepida poi bollita, che filtrava attraverso la cenere, il cenerone e i panni per poi fuoriuscire dopo pochi minuti, dall'apertura comandata dello zipolo, con colore scuro: era il "ranno". Il liquido recuperato era nuovamente riversato sulla cenere per sette, otto passaggi, mentre in tutto l'ambiente si spandevano fumi umidi e un profumo aspro tipico della cenere in acqua bollita. Quando il ranno perdeva temperatura si rimetteva nel calderotto del focolare a bollire, prima di ripassarlo. Finita l'operazione del travaso del ranno, si toglieva il cenerone con la cenere e si riempiva la conca del ranno rimasto dove le lenzuola rimanevano a mollo per tutta la notte. La mattina seguente di buon ora le massaie, tolte e strizzate le lenzuola alla meglio, se le caricavano in spalla su di un palo, tenendolo in due, o con una tinozza, e si recavano alla fonte per il risciacquo. Le donne di Gaggiola e Viareggio si dirigevano alla fonte di Quetole e usavano, data la distanza, un carroccio trainato dalla ciuca sul quale sistemavano le ceste del bucato e montavano loro stesse. Ma non si può mai sapere cosa succede, quando si ha a che fare con questi testardi animali: Marcello montò in groppa e “Arri ciuca”, l'animale parti di scatto e a tutta birra mandando per aria donne, ceste e bucato tra le risate generali. A Petroio il bucato dei padroni era fatto in tre grosse conche ogni quindici giorni dalle donne del Carli e della fattoria. Per il risciacquo alle fonti di Quetole dove venivano accompagnate col carro carico di ceste occorreva tutta la giornata: "La sera le mani quasi sanguinavano per il continuo lavare". Sia le lavandaie sia il contadino ricevevano un compenso per la loro opera. In paese alcune famiglie usavano conche in comune: come i Guarducci e i Giannini, i quali lavavano in quella posta alla porta della stalla di quest'ultimi. Tanto era il lavoro di tutte le famiglie, da rendere indispensabile un preventivo accordo per usare le fonti: "Domani tocca a te, e poi vo' io", concordavano le donne; ma per la fonte del Castello si doveva in ogni modo chiedere il permesso ai Pratellesi. La mi' nonna Ersilia, lavandaia per necessità, serviva i Tacconi e Giulia Boddi. Portava le figliole per farsi aiutare e lavava indistintamente a tutte le fonti. Nella stagione calda spesso non c'era acqua a sufficienza e tutte ricorrevano alla gora del Mulino, con viaggi a dir poco sfibranti "pintando" un piccolo carretto carico su per la salita di Carpinaia. Una sera d'estate la zia Ilda era intenta a lavare alla Gora del Molino, ed ecco un'autoambulanza venire a tutta velocità per la strada statale verso Siena. Arrivava così veloce che sbandando, per un guasto ai freni, finì nel vicino strapiombo poco prima del ponte. Vi morì l'ammalata che trasportavano all'ospedale e tutto avvenne sotto gli occhi di quell'impressionata lavandaia, unica testimone dell'incidente. Rimanendo in casa Rossi troviamo Gina che si è sposata e abita al Poggio al Sale con i Francioni: "Al Poggio al Sale la mi' socera mi diceva: "Ci sarebbero da lavare i panni di Bruna (sorella del marito Egisto)", e io prendevo i panni in spalla e partivo in bicicletta e andavo alle molto distanti fonti di Vagliagli". Le nostre donne continuarono ad usare le fonti fino al 1971/72, poi l'uso dei detersivi chimici in pratiche confezioni come Omo, Olà, Ava resero superfluo il bucato e con l'arrivo dell'acqua in casa o alla cannella pubblica oppure con la diffusione delle pompe nei pozzi cessò il ricorso alle fonti che oggi sono scomparse o sbrecciate e invase dalla vegetazione. Si modificò profondamente un comportamento secolare; sparì il momento di aggregazione e finì quel piacevole chiacchiericcio delle donne che trovavano presso le fonti interlocutrici disposte ad ascoltare e controbattere senza limiti sui fatti propri e altrui. Il sapone Insieme alla lisciva, per i panni era usato il sapone, con un impiego allargato all'igiene personale. Lo trovavi in vendita alla bottega, ma la cronica carenza di soldi costringeva quasi tutte le famiglie a fabbricarselo da sole almeno fino agli anni 50/55 del Novecento. Prodotti base per la preparazione erano il grasso di maiale e la soda caustica o caustia. A questi si aggiungevano secondo le abitudini locali altri prodotti che ne miglioravano l'aspetto o il profumo: in casa Masti di Casagrande: "Il sapone si faceva con un po' di unto di quello bianco quando si ammazzava il maiale: sapone bianco con unto, soda caustica e una busta di borotalco per dargli il profumo; oppure sapone più scuro fatto con l'unto della soppressata o del buristo. Messo in una paiola a bollire si versava poi sulla tavola e si tagliava quando era secco. In casa Pistolesi, freschi contadini al Castello: "Una pasqua non s'aveva nemmeno il sapone per lavarsi le mani. La fattoressa disse: "Davvero! Ve lo do io...”, e c’insegnò a fare il sapone alla sua maniera. Ci voleva il grasso di maiale. Andavo dal Maffei a comprare la soda caustica, c'era a scaglie verdi o in polvere". Rivedo, ritornando al 1955, le donne in casa Mori affaccendate intorno all'acquaio che conteneva un alto strato di una materia giallastra scura, già indurita: era il sapone. L'acquaio, insieme ad altri recipienti di legno o lamiera, era un ottimo contenitore per farci il sapone e tagliarcelo poi in tanti pezzetti regolari e uguali; pezzettini che rividi al momento del bagno nel conchino. Giravano in quel tempo lontano tante ricette per fare il sapone, suggerite agli interessati. Ma, da come va il mondo, immagino che alcuni avessero il segreto della migliore soluzione, suggerita con una certa saccenza a tutti, tra i quali al mi' zio Guido Rossi che ne trascrisse il testo e la conservò fra le sue carte, giunte fino a noi. Sono due metodi diversi: uno detto all'olio cotto e l'altro sapone al freddo. Li riporto integralmente col testo originale e qualche virgola in più: "Altra ricetta per il sapone all'olio cotto Olio 2 litri, aqua 4 litri, soda caustia grm 330, pece greza 100 grammi, un pugnio di sale, il tutto deve cuocere durante 3 ore. Sapone al freddo Dosi soda caustia grammi 300, olio 2 litri, cenere 200 grm, farina bianca 200 grm, aqua litri 6. Sciogliere la farina e la cenere diligentemente in 3 litri di aqua rimestando continuamente e lentamente per mezzora come si farebbe per la majonnaie, mettere l'aqua sulla farina e la cenere mescolate, poco alla volta. Poi aggiungerete adagio adagio e a poco a poco tutto l'olio. A parte, negli altri 3 litri di aqua che verrà scaldata quasi a bollare, fare sciogliere la soda caustia. Quando sarà fredda, si aggiunge all'altra miscela tutto a freddo. Si mescola si lascia depositare".
L'acqua a Quercia Nei primi anni Sessanta, corrispondenti alla fine della mezzadria e a un sostenuto progresso sociale in tutto il paese che stava cambiando usi e costumi degli italiani, si viveva a Quercegrossa e nelle zone circostanti una contenuta espansione edilizia con una popolazione accresciuta a qualche centinaio di persone che stavano anch’esse modificando radicalmente i loro modi di vivere sia in casa sia nella società e nel mondo del lavoro. Si avvertì subito in questo mutare dei tempi la mancanza, fra i servizi primari, di un acquedotto, essendo ormai anacronistico il ricorso alle sorgenti divenute anche di difficile accesso per diversi motivi. Erano decenni che si prometteva la realizzazione di un acquedotto, se ne parlava anche ai tempi del fascio, ma tutto taceva. Negli ultimi anni del Dorcio, precisamente nel 1967, i Comuni, di fronte e una situazione non più sostenibile, attivarono un servizio di rifornimento idrico giornaliero, con autobotti per distribuire direttamente l’acqua alla popolazione rifornendo "il pozzo del Barucci" e quello della scuola vecchia. Furono dotati di una pompa, azionata a mano con un movimento vai e vieni. Tra i camionisti che rifornivano con le loro autobotti in un primo tempo fu incaricato un certo Mario Benocci e poi Adelmo Finetti, quando dotò il suo camion di una botte. Alcuni anni prima erano state avviate pratiche per l’esecuzione di un acquedotto che, come c'era da aspettarsi, non portarono a nessun risultato. La divisione della frazione in due Comuni che interagivano con difficoltà, la burocrazia romana e altri impedimenti anche di tipo economico, facevano ristagnare la pratica. Ci si moveva e si agiva soprattutto a livello personale di partito per sollecitare e per ottenere da Roma quello che lo Stato avrebbe dovuto dare tramite i Comuni. L'11 marzo 1968 il Sottosegretario di Stato rispondeva al segretario della sezione D.C. di Quercegrossa Silvano Socci in questi termini: "Caro Segretario, in relazione alla tua del 21 gennaio scorso ti comunico che questo Ministero ha inviato formale promessa di Contributo al Comune di Castelnuovo B.ga ai sensi della Legge 3.08.1949 sulla spesa di Lire 57.500.000 per la costruzione dell'acquedotto nella frazione di Quercegrossa. Tale notizia è stata da me comunicata con lettera del 28.11.1967 all'On. Fanfani". Sembrava quasi fatta, ma ancora una volta la burocrazia italiana fece la parte del leone e progressi non se ne videro. La crescente delusione portò all'esasperazione e alla mobilitazione della popolazione, la quale cominciò compatta a polemizzare fuori da ogni logica di partito e, su suggerimento di Silvano Socci, promosse una manifestazione di protesta alla Prefettura di Siena nella speranza di smuovere le acque. In ritardo si aggregarono anche i due sindaci messi al corrente dell'iniziativa. Si partì la mattina di giovedì 4 settembre 1969, intorno alle nove, con un corteo di macchine e tanti cartelli tra i quali uno al massimo della polemica e dell’ironia riportava la scritta: "E' stato più facile andare sulla luna che portare l'acqua a Quercia”. In piazza del Duomo, in una splendida giornata di sole, tra la curiosità degli ultimi turisti, ci si fece sentire sotto le finestre della Prefettura con cori come "soldi, soldi, soldi". La manifestazione ebbe effetto e alla fine dell'anno successivo la prima acqua giungeva alla cannella pubblica in piazza e poi, col tempo, in tutte le case. Era il 1970: non è mai troppo tardi!
1967: manifestazione per l’acqua. Proteste sotto la Prefettura in piazza del Duomo. Si riconoscono, da sinistra: Cesare Bartoli, Giorgio Rossi, Lara Cappelletti, Giovanna Chessa, Mariella Ruberto, Mario Stazzoni e Dino Castagnini.
Le vaste ricerche geologiche con molti saggi avevano individuato nella sorgente di Vignalino la più idonea per rifornire il paese e così fu sfruttata. Le condutture, passando da Quetole, arrivavano a Quercegrossa e per molti anni servirono al bisogno.
Una nota curiosa: già dal 1956 il nuovo podere dei Pagliantini e l'Arginano avevano l'acqua in casa, non potabile, ma per usi diversi. Forse furono i primi a beneficiare di questo servizio. Bastarono una pompa e una tubatura volante fatta fare dal sor Augusto Bindi in Val di Lama per rifornire i due poderi per buona parte dell'anno.
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