Cliccami per ritornare alla Home               Il pane è cotto in forno... Una delle attività principali della massaia era l’indispensabile cuocitura del pane per la famiglia, che ne faceva un discreto consumo essendo il pane la base dell’alimentazione quotidiana. Ogni podere era dotato del forno, una struttura generalmente addossata al corpo principale del fabbricato, ma poteva essere anche un piccolo edificio staccato. Si intendeva per forno un vestibolo coperto per le varie operazioni preliminari e l’ambiente di cottura posto a un metro circa d’altezza, avente il piano di pietra e la volta in mattoni, in forma tassativamente rotonda nella nostra tradizione. Vi si accedeva per l’infornatura del pane attraverso una piccola “bocca” quadrata munita di “coperchio” mobile per la chiusura. La panificazione era obbligatoria per le famiglie contadine, che compivano il ciclo completo dalla semina del grano alla produzione del pane, e per molte famiglie di salariati e artigiani in paese che non potevano permettersi di acquistare giornalmente il pane alla bottega di Quercia che, dotata del proprio forno, lo vendeva. Sappiamo che il Brogi lo inviava anche a Siena negli anni precedenti e durante la Seconda guerra. Solo alcune famiglie benestanti, o poco numerose, lo compravano, mentre le altre usavano i forni messi a disposizione dal Mori e dal Brogi. Ve ne erano cinque in paese, i due rammentati, e in particolare quello del Mori posto di fronte a Casagrande nella zona sud, e rifatto nel 1935/36 con l’edificazione delle nuove case, che serviva quasi tutto il paese; un altro privato del Mori all’interno del Palazzo nel corpo staccato realizzato nel 1921; quello di Giotto Fontana nel suo podere e infine il forno della chiesa a uso del parroco e del suo luogaiolo, rifatto nel chiostro a fine Ottocento. La lavorazione del pane richiedeva varie operazioni, semplici, ma da farsi con una certa attenzione, e aveva inizio in casa, ossia nella madia dove veniva conservata in piccole quantità la farina. Alcune madie erano munite di buratto, un meccanismo che setacciava la farina separando le scorie o semola da quella fina, usato fino a quando il mulino si attrezzò per separare durante la macinazione la semola dalla farina. “C'era un buratto a Viareggio di diversi metri. Era un cassone dove si conservava il pane, tutto di legno fatto da Brunetto". I Sequi della Magione avevano un buratto staccato dalla madia in cucina. “A Poggiobenichi avevano anche una grande madia larga circa 4 metri e profonda guasi un metro ed era dotata di buratto che aveva la funzione di eliminare le scorie dalla farina”. ![]() Il forno del podere di Quetole molto simile a quello di Quercegrossa dei Mori che però non aveva la colonnetta di sinistra. Ogni famiglia si doveva procurare le fastella nei boschi e tutte avevano un ripostiglio dove tenerle. I Mori prima della guerra avevano il Nelli che stipava i boschi facendo le fastella che col carro venivano portate in fondo al giardino e da lì al forno. Un’ora e mezza di fuoco poi, usando delle pertiche annerite dall’uso, brace e cenere erano messi da una parte addossandole alla parete del forno. Si procedeva con la spazzatura del piano usando una lunga spazzola di frasche verdi, o di ginestra, o di foglie di carciofo fresche, affinchè non s’incendiassero. Il passo successivo era controllare che il forno fosse riscaldato a dovere: “Prima venivano cotti i ciaccini per saggiare la temperatura del forno”. “Quando Maria di Losi faceva il pane metteva sempre il ciaccino e noi bambinette si aspettava e fino a quando non ce ne dava un pezzetto si rimaneva lì. Si mangiava poco e quasi tutto pane”. - “Ciaccino di pasta normale, ma anche di farina gialla come sapeva fare Maria del Losi che poi distribuiva ai numerosi ragazzi sempre presenti ad accattare un pezzetto di ciaccino. Quello all’olio e sale era squisito, ma proprio buono”. Ora il forno è pronto per ricevere il pane. Da casa viene trasportato sulle tavole a spalla e posate sugli appositi paletti orizzontali infilati nel muro. Una lunga pala e un pane alla volta viene messo dentro il forno. Terminata l’operazione di infornatura si chiude il forno per mantenerne più a lungo la temperatura, e dopo un’ora circa con la pala si estraevano i pani già cotti e fragranti col forno ormai intiepidito. Tenuto ancora in casa, sulle tavole a ghiacciare, il pane finiva poi nella madia per essere consumato in un ciclo reiterato senza interruzioni. Da ricordare che nel forno si “cocevano” solo il pane e i dolci per le feste ed era assolutamente esclusa la carne o altro. ![]() La stanza abbruciacchiata del forno a Poggiagrilli con accanto la caldaia a legna dell’acqua. In casa Mori, dove vivevano 20 persone, si faceva il pane ogni otto giorni in tre tavole di 7/8 pani ciascuna, ma quando c’erano gli operai si panificava anche ogni quattro giorni. In casa Nencioni, sette persone, il pane era cotto ogni otto giorni con due tavole per 15 pani. Non c’erano giorni fissi per fare il pane e le famiglie si accordavano per l’uso del forno. Valutando ora le rese del grano e della farina vediamo che da un quintale di grano si ricavavano mediamente 75 kg (dal 70% all’80%) di farina e il resto in crusca ossia semola e semolino. “Quando si portava il grano a macinare intorno alle macine rimaneva il cosiddetto cerchio. Il mugnaio faceva pagare la macinatura meno lo spolvero (il cerchio che rimaneva). Si riceveva farina, semola e semolino, che era esattamente la quantità del grano macinato”. Un quintale di farina dava poi una resa di 120 kg di pane. Quindi, considerando la predetta famiglia Nencioni che infornava ogni sette/otto giorni, corrispondenti a 50 infornate annue, a 15 pani ciascuna, pani di 1 kg, arrotondando però a 55 infornate, per il pranzo di tribbiatura, le feste ecc, si aveva un consumo annuo di oltre 8 quintali di pane nell’annata, al quale va sommato il consumo di farina per dolci nelle feste e altri usi che porta la necessità di grano superiore ai 10 quintali annui per una famiglia di sette persone. Ecco quindi che ogni famiglia contadina di un medio podere aveva la possibilità di vendere il grano in eccedenza e ricavarvi un utile. “A Gaggiola”, ricorda Bruno, “i contadini Sestini vendevano il grano e secondo lui l'avevano sempre venduto, ma non tutte le famiglie vendevano. Il grano venduto erano 20/25 quintali e vendevano ai mugnai (mulini)”. Questa attività “fare il pane”, era una caratteristica delle campagne e del mondo contadino in particolare, ma venne meno col mutare della società. Cambiarono le farine dei mulini che rifornivano botteghe e privati, e ci si accorse che il pane durava molto meno nella madia e... “poi il pane iniziò a puzzare e peggiorare nella qualità. Allora si smise di farlo e incominciò a passare il panaio". Siamo ai primi anni Sessanta. Dal 1963/64, quando già da alcuni anni passa il panaio, i Pucci, Rino, Vittorio, Alberto e Olinto aprono il nuovo, moderno forno elettrico nel palazzo di Picciola, e rifornisco le botteghe effettuando anche la vendita casa per casa con l’Ape. Dopo di loro i Sestini, che rilevano lo stesso forno nel 1965/66: “I Sestini come fornai hanno sempre riscosso in contanti. Tenevano librettini dove segnavano il pane dato e a fine mese si facevano i conti”. Il companatico Trattato del pane è istintivo poi parlare del “companatico”, una parola ormai caduta in disuso, ma molto usata prima per indicare qualsiasi cibo mangiato abbinato col pane. Quindi fermo restando il pane come base primaria dell’alimentazione del quale si faceva un gran consumo, il “companatico” ci serve per inquadrare tutti quegli aspetti dell’alimentazione al tempo dei contadini e dei salariati, premettendo che il companatico del tempo era molto semplice e la cucina non molto elaborata, ma fondamentalmente genuina i cui “odori” principali erano la salvia e il “ramerino”, usati abbondantemente in ogni tipo di carne. Era un preparare alimenti in modo tradizionale e spesso non si usavano troppi accorgimenti igienici; ricordiamoci che la conservazione dei cibi, come vedremo, aveva dei grossi limiti che potevano rendere l’alimento tossico o comunque nocivo specialmente la carne se non venivano rispettate quelle procedure e precauzioni conosciute. Da distinguere, sempre per quanto riguarda il mangiare, situazioni di disponibilità molto differenti tra famiglia e famiglia originate delle condizioni economiche, produzione del podere, dal numero dei componenti ecc.; tutti elementi influenti sulla quantità calorica a disposizione giornalmente. In una casa tre erano i punti di riferimento per l’alimentazione: la madia, per fare il pane e serbarlo e per tenervi nel piano di sotto prodotti di pronto uso come olio, sale, aceto zucchero, il macinino del pepe ecc.; la dispensa, con lo ziro dell’olio e tante mensole piene di tutto: bottiglie, garaffe di sottoli, conserve, l’orzo ecc.; in alcune dispense pendeva dal soffitto lo moscaiola: una gabbietta per proteggere il formaggio e altro dai famelici topi. Infine, per chi ce l’aveva a portata di mano, la cantina, intesa come ambiente della casa e non quella del vino, per tenervi il prosciutto, i salumi, fiaschi di vino e tutti gli alimenti in fresco. In casa Mori vi era l’antichissima cantina alla quale si accedeva direttamente dalla cucina. Aprivi la porta e un intenso profumo dell'umido impregnato di prosciutto e sapori diversi ti investiva. Le pareti di tufo nerastro scalpellate e ripidi gradini ti guidavano in basso. La parte frontale mostrava numerose mensole a muro che reggevano barattoli e contenitori alimentari vari. Entrando ora nel merito dell’alimentazione vera e propria va ricordato che in linea generale la cucina di Quercegrossa anteguerra aveva come base il pane e la polenta. Si aggiungevano poi verdure e legumi dell'orto e dei campi; uova dal pollaio; la carne di maiale consumata in tutte le sue varietà della lavorazione, fresca o insaccata; coniglioli e polli in alternativa al famoso "lesso domenicale" e a tutte le frattaglie del vitello comprate a bottega; prodotti caseari come il formaggio pecorino e il latte; infine entravano nel vitto prodotti del mare come tonno, aringhe, sarde e acciughe. Non eccessivo il consumo di frutta proveniente da orti e campi consistente in mele, susine e ciliegie. Maggior importanza avevano i fichi freschi o seccati. Vi era poi il consumo stagionale della cacciagione. Le uova erano di grande disponibilità e perciò entravano nella preparazione della cena in tutti i modi, e per i dolci. Ai miei tempi era assai di moda per la merenda "l'ovo sbattuto con molto zucchero", sia il rosso soltanto in una tazza o tutto l'uovo sbattendo prima la chiara nel piatto. L’uovo a bere la mattina era inoltre consigliato dai medici nei casi di magrezza o esaurimento fisico. Il piatto tradizionale di uso comune e quotidiano dei nostri posti era la famosa “minestra di pane” fatta con verdure e fette di pane, oggi impropriamente detta “ribollita”, buona per tutte le ore e per tutte le stagioni. La mattina, quando si ribolliva nel tegame di coccio o smalto, faceva una crosta saporitissima e c’era la lotta per averla. Nella stagione calda era di moda la panzanella, un condito composto da pan molle, insalata, pomodoro e cipolla. Per i giorni di festa le massaie preparavano la pasta fatta in casa, i cosiddetti “tagliatini” a base di farina e uova. Impastavano e poi spianavano la pasta assottigliandola sulla tavola col rullo (mattarello), sempre infarinando per evitare che la pasta si attaccasse, ottenendo sfoglie giganti a tutta tavola. Fatte seccare per qualche ora, venivano poi ripiegate e tagliate fini per i tagliatini da minestra, o più larghe per la pastasciutta. A tavola Le famiglie di operai e contadini difficilmente osservavano orari scrupolosi per il pranzo, ossia “la desina”, a causa delle loro faccende nei campi, ma non la sera a cena, quando l’intera famiglia si riuniva intorno alla tavola dopo aver svolto completamente il loro lavoro. Comunque anche per il desinare si apparecchiava e si poteva mettere in tavola, secondo la stagione, la minestra di pane, o la polenda calda, o la panzanella, seguite da una tegamata di frittata di zucca rifatta, d’erbe, ceci e fagioli, sarde, tonno, ma accadeva anche che ci si arrangiasse come si credeva. Il venerdì, poi, era di rigore il baccalà, o più spesso l'aringa della bottega, arrostita sul treppiede del focolare o all'aperto. Per i salariati nelle fattorie la desina con la borsa. Gli affettati erano riservati per la colazione o la merenda. La mattina presto, appena alzati, la colazione poteva farsi con orzo tostato con fette di pane abbrustolite, oppure una fetta di pane e companatico, ossia affettato o formaggio o un'acciuga. A colazione e merenda non mancavano marmellate fatte in casa con susine, mele cotogne, fichi. Con l’inizio della distribuzione in paese del latte da parte del Bernardeschi, anche questo alimento entrò nell’uso mattutino della colazione, soprattutto per i ragazzi. La cena era il momento più importante della giornata e a una data ora tutti a tavola. Ma era la domenica, quando la famiglia si riuniva alla tavola imbandita per un vero pranzo, diverso e migliore al solito, ed era il momento della carne. Molte fattorie e poderi allevavano api per il miele, consumato spalmato sul pane o come dolcificante, e per confezionare dolci. Quanto detto è la risultanza di tante interessanti testimonianze, riportate con qualche inevitabile ripetizione: - “Il primo serale comprendeva quasi sempre la minestra di pane (minestrone di verdure), ma nelle famiglie di operai, soprattutto in quelle piccole, erano serviti la farinata e la pappa. Quest'ultima era brodo di erbe con pane e pomodoro condito con olio. Alcuni vi cuocevano un uovo”. - “La sera si mangiava pappa o minestra di fagioli e di ceci, per secondo un tegame di patate o cipolle o zucca”. - “Olio per condire solo di oliva quello di semi non esisteva”. - “Ci si metteva in padella anche un po’ di strutto per friggere”. Il fritto aveva un buon uso, sia con carne di pollo e conigliolo sia con prodotti dell’orto come carciofi, cavolfiore, pomodori, zucca, foglie di salvia con l’acciuga, fiori di zucca e patate, consumate spesso nei giorni feriali senza l’abbinamento con la carne. ![]() L’immagine a fianco e le tre successive, di grande interesse, mostrano le pagine del libretto dei conti di casa Carli, contadini al podere paradiso di Petroio, riferito all’anno 1910. Vi si trovano registrate, oltre alle varie uscite, quelle per i prodotti alimentari comprati a bottega che, specialmente per la carne e il pesce, rientravano nell’uso comune come attestato dalle memorie. Le 100 lire iniziali dovrebbero essere quelle del Mencherini (vedi Calzolai) e lire 47,50 sono spese per il medico e il farmacista. - In casa Carli al Paradiso di Petroio: “La sera la zia faceva il minestrone di pane e la mattina lo ribolliva per gli uomini. "Gosto abitava a Quercia e veniva a Petroio in bicicletta e faceva colazione da noi con l'orzo che si tostava. Da noi piantavano anche l'orzo buono per l' alimento". Giulio Carli: "La zia Sestilia la mattina metteva tre fagioli in pentola e li girava tutto il giorno con una foglia di bietola; di tre fagioli due le passavano per la minestra. Poi radicchi, raperonzoli, ceciarelli ed era l'insalata che si condiva con l'olio. Pane abbondante con vino e olio. La domenica qualche pezzettino di lesso comprato a Castellina. Uova polli e coniglioli venivano venduti per acquistare prodotti. Difficilmente sulle mense dei contadini ci trovavi l'arrosto fatto in casa”. - “...e le massaie quando tornavano i minatori alle quattro tutte a preparare la cena... perchè ci voleva del tempo a fare il brodo d'erbe o la ministra di pane o la farinata o la pappa”. - “Il Gazzei veniva in bottega del Cappelletti con il pranzo in mano: una patata lessa e un pizzico di sale nell'altra mano”. . “Farinata: acqua e farina di grano, gli zoccoli di pane fritti nel padellino e messi nella farinata; pappa: pane in acqua con i pomodorini olio e sale e ogni tanto un uovo”. - “La Polenta col sugo. Paiolo sulla tavola ossia sulla spianatoia, calda con sugo di carne (fegatino di coniglio o carne di bove macinata). Polpette (pulpette) fatte con uova, formaggio (alcuni le patate) e carne di bove. La zia Anna anche il battutino di aglio ed erbucce (pochino)”. - “La cioccolata? E chi la comprava. Uno cioccolatino era già tanto. L’aringa e l’acciughe molto spesso. I limoni dalle limonaie nelle fattorie. Sulla pasta si grattava il pecorino”. Zia Ilda: “La mattina la prima faccenda era quella di mettere i fagioli al fuoco, sarà stato un kg, poi erbe, patate, ceci, cicerchie. Si faceva in primavera la punta delle vitalbe, si coglievano e si facevano le frittate... “Quando si va a cogliere il vitalbino? ![]() Quando si coglievano l'olive, ci portavano nel campo per desina fichi secchi, uva secca, noci con pane e vino”. - “...una sera gli diede le olive secche lucide lucide. Ma come fate a farle così lucide: in una caraffa olio,aglio e prezzemolo e agitare”. - “La farina di castagne serviva per fare la polenda”. - “La polenta di farina gialla di granturco si tagliava col filo sulla tavola”. - “Pane in casa Rossi: nei momenti del bisogno si allungava la farina che veniva mescolata con patate lesse oppure con riso bollito a oltranza fino a formare una massa gelatinosa. Veniva un pane bianco…”. I Buti all’Arginano: “La carne una volta alla domenica. Vendevano polli e coniglioli per acquistare viveri. Si faceva la ricotta che andava quasi tutta al padrone. A cena, minestra di pane col cavolo, fagioli oppure polenta col paiolo retto da una pertica sostenuta da due persone, e una razzolava. Colazione con pane, rigatino, affettato. Acqua e forno nel chiostro. Una notte ci rubarono dallo stanzino del chiostro le forme tonde del formaggio fatto col latte delle pecore e i pezzi del maiale ammazzato e anche il pane coi fichi secchi che faceva la mamma di Ilva”. I Masti a Casagrande di Petroio: “Chi l'aveva i soldi!! La domenica venivano a Quercegrossa compravano 1 kg di lesso, la lisciva, il sale, la pasta, lo zucchero i fiammiferi. Quando morì la mamma di setticemia, la mattina prima di ricoverarsi fece colazione col pane messo a tingere (ammollo) con una cipolla salata... dopo alcune ore ebbe la febbre. Il nonno andava a zappare con un pezzo di pane: "Nonno ti dò un pezzo di carne". "Non lo voglio: fate tanto per la carne, ma un bel pezzo di pane e un bicchiere di vino...”. ![]() - “Per Pasqua si faceva la stracciatella, ossia un uovo girato nel brodo”. Spartaco: “La carne la domenica: un po’ di conigliolo oppure, quando Fosca era grande, un po’ di carne al macello del Braccio, e le palline di sangue assodato, in umido. Prima della guerra il mi’ babbo Angiolo andava a Passeggeri e ricordo di aver mangiato anche i gatti selvatici. Mettevano i lacci, e quel che chiappavano si mangiava. I disperati mangiavano anche serpi e volpi che tenevano per alcuni giorni a purgare nei borri”. Erano le palline ricordate l’economicissimo sangue di bove seccato, venduto in panetti dal macellaio e fatto fritto in padella col pomodoro: "Se ci ripenso mi fanno rivoltare lo stomaco anche ora", dice Piera Rossi. - “Lesso con salsa, patate o maionese e anche carciofi lessi. 300 lire di lesso negli anni sessanta”. - “Per Pasqua agnello di Damino Losi, e pranzo con minestra in brodo con tagliatini fatti in casa, poi lesso e arrosto”. Vaga ricorda i piatti che scandivano le feste: “...e per il Giovedì grasso le polpette, per i Santi la bistecca di maiale; per Natale un cappone o qualche conigliolo che si rallevava con Annita Rossi”. - “Broccoli di cavolo: il grumolino del cavolo mangiato condito con olio, mentre le foglie erano lessate. Pinzimonio con carciofi, radici rosse, baccelli e cipollotti, tutta roba colta nell’orto e nei campi. Cipolle cotte nella brace e sotto cenere, lesse con aceto e acqua condite con il lesso. - Pane a merenda con pomodoro, vino e zucchero, burro e acciughe, olio, sale e aceto”. - “Miele in abbondanza alla colazione e a merenda. Con la mi’ mamma si mangiava sempre il miele”. - “La padrona (Annunziata Mori) ci chiedeva di spazzare le scale, in cambio ci dava una fetta di pane e miele”. - “Si facevano i brigidini con lo stampo di ghisa a manici lunghi e disegno interno alla piastra, come per le ostie. Vi si schiacciava una pallina di pasta. Poi i cenci, il ciaccino, le brioche, fichi secchi con noci tritate dentro, il pane con fichi e noci, marmellate di fichi e mele cotogne, susine, fragole di bosco. Nespole e nocciole lungo i borri, semi salati di zucca, granturco arrostito in forno dove era stato il pane (tipo pop corn), castagnaccio, il croccante di mandorle o noci, bucce d’arancio cotte con lo zucchero”. - “Marmellata di more (le ciliegie venivano mangiate non ci si faceva la marmellata)”. - “Frutta: qualche sorba e nespola venivano razziate nei campi”. - “Castagnaccio con farina di castagne mangiato con uva secca”. - “I fichi dottati venivano aperti e sbucciati e messi a piccia. Due insieme con la noce interna e messi a seccare al sole. Venivano mangiati a colazione merenda o come dessert. Sulla pianta, parte venivano mangiati dai gazzillori, parte cadevano, parte gli uccelli, i fichi allora abbondavano nelle varie specie”. - “Frattaglie di bove: polmone in umido, trippa e fegato di bove. Patate lesse e in umido”. - “Pane di granturco con l’uva secca. Pane dei santi: “Da quanto se ne faceva durava un mese”. - “Conserva di pomodori per fare il sugo tutto fatto in casa. I sughi per la pasta tutti di carne, non si usava la pomarola”. ![]() Si bollivano i pomodori in una grossa pentola, poi con uno staccino sopra un recipiente si spiaccicavano a mano: si drusciavano sullo staccino in modo che la parte polposa cadesse dalla fitta rete nel tegame sottostante, mentre bucce e semi restavano nello staccino per essere buttati. Una tovaglia, fissata alle gambe anteriori di una seggiola sdraiata, riceveva e filtrava la polpa che così perdeva i liquidi rimasti. Dopodiché si metteva nei tegami a bollire. Infine si imbottigliava e portava in dispensa da dove ci si riforniva per tanti mesi. I pomodori per l’uso quotidiano erano tenuti uniti e legati con lo spago in grosse “picce” lunghe oltre mezzo metro, attaccate nelle stanze di servizio e nelle dispense; al momento del bisogno si staccavano secondo la quantità necessaria. - “Si sbucciavano i ceci sottocenere. Era la “cenerata”. I ceci si mettevano in un tegamino coperti con un tovagliolo. Sopra il tovagliolo la cenere sulla quale si buttava acqua bollita che cascava sui ceci e li sbucciava”. - “Croccante con miele, pinoli o mandorle. Si faceva spesso, alcuni usavano lo zucchero invece del miele. Il croccante di miele si cuoceva in una padella di ferro. Vi si mettevano le mandorle e al momento giusto si versava sulla tavola di marmo. Si freddava e per staccarlo ci voleva lo scalpello”. - “Le frittelle in casa Carli le facevano la domenica delle Palme, e toccavano tante quante erano le foglie della rama benedetta dell'ulivo”. - Dolci di Pasqua. “ciambellone, pan di Spagna, crostate un po’ meno; salame come ripieno e schiacciate coll’anice”. Lea: “In forno a Pasqua schiacciate, ciambelloni, pan di spagna, crostate e come dolce ripieno il salame”. - “A Natale si facevano i cavallucci e poi si comprava un panforte a bottega. Il panforte lo giocavano a bottega”. - “Liquori: il vinsanto e la grappa che tutti facevano, dai contadini agli altri”. - “C'era l'attrezzo per tostare l'orzo, il tostino. Girava con il fuoco di brace sotto e mandava un profumo...”. - “Nel pozzo ci mettevano al fresco la carne e le bevande: il fiasco o la bottiglia. Nel granaio mele, zucche, poponi a maturare”. - “Anche il pozzo serviva per mettere in fresco cibi e bevande. Si calava un cestino a fior d'acqua. Quando non c'era cantina fresca i salami si conservavano sotto la cenere; i fegatelli si conservavano sotto lo strutto, poi c’erano i sottoli”. - "Il buristo veniva in parte messo sotto la cenere e alla fine dell'inverno tolto e ribollito ed era buono". Latte Quando subito dopoguerra Attilio Bernardeschi mise su la mucca cominciò pure la vendita del latte alle famiglie di Quercegrossa. Dapprima con la distribuzione a domicilio, poi in casa. La sera mungevano la mucca e consegnavano il latte in paese: "Quanto ne volete oggi?", si sentiva chiedere dalla voce di Attilio o dalle figliole alle porte delle abitazioni di Quercia. Libera e Anna passavano per le case e davano i misurini di latte richiesti. Ma alla fine degli anni Cinquanta questa pratica venne abbandonata e s’incominciò, soprattutto noi ragazzi, a recarsi con un ciotolino a casa Bernardeschi, alla chiesa, a comprare il latte fresco, munto da Attilio. Avevano predisposto nell’ingresso un tavolino, coperto da una tovaglia incerata a quadretti bianchi e celesti, con sopra alcuni mezzilitri di latte e un misurino. Giulia teneva pulitissimo l'ambiente, e l'odore del latte ti stimolava il primo appetito. Riempiva il piccolo misurino e lo travasava con attenzione nel tuo ciotolino. Pagavi le dieci, quindici lire, ringraziavi e riprendevi la strada di casa camminando con cautela per non versare il liquido, e già pregustavi la colazione. Attilio si sudava quell’attività di vendita perchè la legge del tempo obbligava i produttori di latte a conferirlo in una certa quantità alle rivendite cittadine. Quindi, partiva tutte le mattine con la sua bicicletta con due recipienti da latte rotondi, uno per parte, e si recava al Mercato di Camollia, quello dentro la Porta, dove consegnava e ripartiva. Infatti, spesso capitava che esauriva il latte e ci si doveva rivolgere al contadino del Castellare oppure, come ricorda Giulia Carli: “Quando si ammalò lo zio Gigi si andava a Campalli a prendere il latte perchè il Bernardeschi non ce l'aveva per tutti”. |