Cliccami per ritornare alla Home               Padroni Qui non si parla di una categoria sociale, ma esclusivamente di due personaggi che appartennero a quel ceto tanto vituperato, a volte con ragione altre volte ingiustamente, dei padroni. Ma nascere padroni non era certamente una colpa, semmai lo diventava quando non cresceva in loro un filo di umanità, giustizia e rispetto verso uomini la cui condizione di inferiorità socio - economica e culturale era palese. Come accennato nel capitolo “Mezzadria”, esisteva una vasta tipologia di proprietari, il cui obiettivo primario era quella di ottenere risorse, per vivere o per arricchirsi, dalle proprie terre date a mezzadria. Il rapporto con la controparte contadina variava dipendendo dalla loro sensibilità e disposizione, ma soprattutto predominava "l'interesse" che, troppe volte, gli faceva venir meno quei valori rammentati. Senza dilungarmi oltremodo, vengo a illustrare due personaggi, i quali hanno segnato la vita agraria padronale di Quercegrossa dai primi decenni del secolo Novecento fino agli ultimi anni della mezzadria. Inoltre, erano imparentati, essendo cugini buoni. Essi, il senatore Sarrocchi e il dr. Luigi Pallini, secondo le concordanti testimonianze raccolte, rappresentano il prototipo del padrone che gestisce il bene attraverso il fattore, dal quale richiedono al tempo stesso correttezza verso di loro e severità nella professione, ma altresì seguono, appena possono, personalmente l'andamento dei lavori e della produzione della fattoria intervenendo direttamente con disposizioni ed ordini. Entrambi poi si pongono verso il colono con una certa pignola intransigenza, esigendo con fermezza la piena osservanza delle regole e dei doveri, ma rispettando onestamente la divisione dei prodotti e i loro diritti contrattuali. Il confronto personale con i componenti delle loro famiglie contadine non era improntato a quel paternalismo tradizionale, ma era fondato su concrete basi relazionali di fredda serietà con qualche nota di spirito nel Sarrocchi, il quale, per la sua posizione, non trascurava di aiutare chi aveva bisogno. Tutto ciò escludeva legami più stretti di familiarità e amicizia con i lavoratori, restando essi su un riconosciuto piano sociale superiore che incuteva soggezione e induceva i sottoposti a spontanei atteggiamenti di rispetto e riguardo e comunque non mancavano le discussioni: ”Senatore e contadini erano guerre continue”. Inquadrati in questo semplice, ma spero efficace schema, aggiungo che una trattazione di questi personaggi ci serve per illustrare certi aspetti della loro vita familiare e sociale che, specialmente per il Senatore, hanno risentito per anni di notizie fantasiose e soprattutto di inesattezze, portando il popolino a ricamare e inventare oltremodo, come d'altronde è successo con i Pallini a causa dell'incompresa origine grossetana e su alcuni fatti quasi leggendari che li coinvolsero tra l'Ottocento e il Novecento. Il sor Luigi I dati anagrafici come premessa essenziale per inquadrare l’epoca in cui è vissuto il sor Luigi e la sua famiglia. Luigi Pallini di Cesare del fu Luigi e Annunziata Bettazzi nacque a Siena in S. Cristoforo il 18 maggio 1884 e venne battezzato con i nomi di Luigi, Alessandro e Maria. Il padre è indicato come impiegato e possidente, e comare fu Alessandra Pierini ved. Pallini. Si sposò in S. Cristoforo all’età di 34 anni: “A dì 20 aprile 1918 si registra il matrimonio tra il giovane Pallini avv. Luigi figlio di Cesare del fu Luigi, e la signorina Caterina Ciseri di Francesco e Bianca Bianchini nata a Firenze il 26 ottobre 1896 alla presenza dei testimoni Ricci - Campana avv. Tommaso e Pallini Comm. Cav. Arturo del fu Cesare”. Celebrante don Alfredo Vanni. La moglie Caterina era la nipote dell’ottimo pittore Antonio Ciseri. Il padre Francesco, contrario a questo matrimonio, si rifiutò di partecipare alla cerimonia nuziale. ![]() Spese la sua vita curando i suoi interessi di agrario e dedicandosi alle sue due grandi passioni: la caccia e il gioco delle carte ai Rozzi. A questo proposito si ricorda ancora in casa Carli la perdita delle Gallozzole al tavolo da gioco nel 1926, a favore di Alfredo Rocchigiani, il quale vide bene riperderle allo stesso tavolo nel 1941. Luigi ebbe dal matrimonio soltanto una figlia battezzata Fulvia, erede di tutti i suo beni, moglie a suo tempo del prof. Franco Lenzi e madre di Gianluigi, Riccardo e sorelle. A loro lasciò i suoi beni. Gianlugi è l’attuale proprietario di Petroio. L’errata credenza popolare di una loro provenienza grossetana deriva dal fatto che possedevano estesi beni lungo la costa maremmana, dove alternavano la loro dimora con Siena e Petroio e dove avevano il domicilio. Ma bisogna sapere che i Pallini erano originari di Stia nell’aretino, e fin dal Cinquecento praticavano la transumanza delle pecore o meglio dire commerciavano dal Casentino a Siena. Fuori Porta romana esiste la via privata Pallini, perchè era lì che i Pallini tenevano le greggi non essendo consentito introdurle entro le mura. Così si arricchirono e acquistarono case in Siena, in Via Franciosa, sede del ceppo principale della famiglia, e in altre vie se nel '600 si rammenta un Pallini capitano nell'Onda. Nel Settecento la famiglia, benestante, vive in Siena, adattandosi a vari impieghi e nel 1767 Liborio (n. 1730) è maestro cappellaro e tiene una bottega di speziania in affitto. Successivamente, nel 1811, Giuseppe Pallini, di professione cassiere alle Poste, risulta abitare in casa propria con la moglie Cecilia Bianchi e tre figli tra cui l’11enne Luigi. Ma il passo che permetterà alla famiglia il salto di qualità deve ancora avvenire, e avverrà presto perchè alla nascita di Cesare nel 1840, il padre Luigi è definito “possidente”, mentre il fratello Girolamo è medico chirurgo. Infatti, si rammenta quando nell’Ottocento un Pallini sposò una figlia illegittima del Granduca (o probabilmente la figlia della figlia illegittima) della quale si ricorda la sua permanenza, insieme ad una sorella, nel collegio di Poggio Imperiale (per un riferimento storico vediamo che l'apertura del collegio avvenne il 10 dicembre dei 1825 con nove alunne). Una sorella, certamente l’Alessandra Pierini rammentata come comare al battesimo di Luigi, era dotata di beni in Maremma e fu quella che poi sposò un Pallini, portando alla famiglia i possessi maremmani. Se questi ricordi familiari contengono tutti elementi di verità, e non c’è da dubitarne essendo confermati anche dai documenti, si tratterebbe di Luigi Pallini del fu Giuseppe, nato nel 1799, che sposò Alessandra Pierini e morì il 24 gennaio 1864 nella sua casa di Siena in Via Franciosa. Egli fu il padre di Roberto, Emma e Cesare, i primi Pallini a far la comparsa nei dintorni di Quercegrossa. Il matrimonio di Emma Pallini con Tito Sarrocchi ci spiega anche la successiva presenza dei Sarrocchi a Passeggeri, eredi dei beni materni. Di Luigi Pallini, grande cacciatore, il quale deve aver trasmesso la passione ai discendenti, si ricorda un processo a suo carico nel novembre 1834, per aver cacciato di frodo con schioppo e cani sul suolo altrui, esattamente nel fondo detto Fontenuova, nel bosco del Valacchio sotto il Poggiolo vicino alle Badesse. I suoi figli, Roberto e Cesare, entrarono in possesso di Passeggeri nell’anno 1876, e Cesare acquistò Petroio nel 1896, proprio per venirci a cacciare. Cesare, quando morì nel 1911, oltre ai beni di Grosseto, era proprietario della Torre e Casanuova di Passeggeri, di Petroio e del Paradiso, delle Gallozzole e delle Redi. La sua morte, avvenuta in circostanze poco chiare, diede adito a chiacchiere certamente inventate. Si ricorda in famiglia che: “Cesare morì sul treno per Grosseto. Aprì uno sportello credendo di entrare nel gabinetto e invece si ritrovò fuori dal treno, e la sua caduta fu mortale”. Era il 2 marzo 1911. Non passò molto tempo, quando incominciò a circolare una voce sulle vere cause della disgrazia. Accuse grosse, ma ancor oggi si ricorda che: “Il Pallini morì cascando dal treno per Grosseto, e fu spinto fuori dal treno”. Questioni ereditarie sarebbe state la causa dell’incidente, e quella cattiva abitudine di orinare dallo sportello del treno in viaggio costò cara all’anziano Cesare, perchè bastò una leggera spinta per mandarlo all'altro mondo. In quegli stessi anni si mormorava di un’altra oscura vicenda capitata al fratello Arturo, proprietario, insieme a Cesare, della Casanuova e della Torre, oltre che in proprio del podere Casalone a Chieci. Le voci corse vennero subito arricchite di elementi fantasiosi, in contrasto con ogni logica. “Il Pallini di Chieci: un contadino andò a chiedere il grano per la famiglia, questionarono e lui gli tirò tre revolverate che ferirono il contadino. Il Pallini per risolvere la cosa va dal contadino e gli promette un podere, ma l'avvocato del contadino si oppone perchè ne vuole tre di poderi. A quel punto il Pallini si fa difendere dal Sarrocchi e il contadino guarì. Non si sa come ma andò a finire che il povero contadino perse la causa e andò in galera e dopo sei mesi ci morì. Il Sarrocchi per il pagamento dalla difesa del Pallini si fece dare due suoi poderi: la Casanuova e la Torre con tutta la terra, e subito rifece o restaurò la strada della catena e il ponte sul Bozzone”. L’unica cosa certa di queste reminescenze è il passaggio dei due poderi dai Pallini ai Sarrocchi in data sconosciuta, cui fa seguito la successiva vendita di Chieci, come rammenta il nipote Gianluigi: “Arturo Pallini padrone di Chiecino vende questo podere e acquista Montecelso per la grande difficoltà a fare la salita con il calesse o con la macchina. Spesso si cercano motivazioni importanti per giustificare un avvenimento, ma la realtà tante volte è più semplice di quel che si pensi”. Luigi Pallini eredita i beni di Petroio insieme al fratello Arturo, dal quale li separa nel 1921 divenendo padrone unico e aumentando la consistenza della proprietà con i poderi Olmicino, Casino nel 1925 e, poco prima della Seconda guerra, con una parte di Belvedere. L’avvocato Luigi Pallini veniva chiamato nella cerchia dei suoi amici "Gigibestia". Era un soprannome che non aveva niente di offensivo, ed era nato in una particolarissima circostanza a seguito di un suo incompreso e inaspettato comportamento: “Egli era un fanatico della caccia, passava settimane in Maremma. Ci fu una grande cacciata all'Alberese con l'intervento del re "Sciaboletta" (Vittorio Emanuele III), e come da consuetudine, al re, a fine caccia, veniva regalata la testa di un cinghiale ammazzato. Quella volta il prescelto fu un bestione abbattuto proprio dal Pallini, ma egli si rifiutò assolutamente, per motivi sconosciuti, di dare la testa al re, e da allora portò il soprannome di Gigibestia”. La sua grande esperienza di cacciatore nelle pericolose lande grossetane lo aveva portato ad avere delle precauzioni per la sua sicurezza, e il tutto si condensava in una famosa frase confidata al nipote: "L'ultima cartuccia non si spara mai perchè è per l'uomo". Un'altra sua grande massima, derivata dalla attenta osservazione dei contadini, e in sintonia con la poca fiducia nutrita verso di essi, recitava: "Quando ti avvicini alla campagna (come padrone), guarda quanto lavorano i contadini e osserva perchè quelli che lavorano tanto (quando li guardi) sono quelli che normalmente non fanno niente". Il sor Luigi era un giocatore dei Rozzi e quando vinceva gli amici usavano un accorgimento per far cambiare vento: "Quando il Pallini vince, parlagli della riforma agraria e così si arrabbia, si deconcentra e perde regolarmente". Completo ora questo affresco sulla famiglia Pallini con gli interessanti ricordi della loro permanenza maremmana testimonianti comportamenti a dir poco spregiudicati, ma probabilmente mitizzati perdendo così, parzialmente, di verità. La bella pastorella In Maremma le donne fra i parti e la malaria morivano come mosche cosicchè i Pallini le portavano a partorire in Maremma. Luigi ha una prima moglie gli nasce un figlio e muore. Sposa una seconda volta ha due figli e poi gli muore anche questa (Questi vaghi ricordi potrebbero avere una corrispondenza con la presenza di quel Benedetto e Giulio figli di Luigi che nella eredità paterna ottengono una quota molto inferiore a quella dei fratelli Roberto, Cesare ed Emma). Infine Luigi si mette con una pastorella, e la prende in casa: lei lo cura nella sua vecchiaia. I figli si ribellano, nel timore che questa possa defraudarli dei beni familiari. Da qui litigi in famiglia. Ma avevano fatto male i conti con la pastora, e soprattutto l'avevano giudicata male. Quando il Pallini morì furono effettuate le esequie e a cerimonia conclusa la pastora chiamò i figli del defunto. Con tutta naturalezza chiese loro di aspettarla un momento, ed entrò in casa. La rividero, dopo pochi secondi sfragellata al suolo davanti a loro, in una tragica scena. Si era gettata dalla finestra per dimostrare loro che il suo era solo amore e non interesse: una lezione che ancora si rammenta in casa Pallini. Lenzi Le proprietà Pallini vennero ereditate dai figli di Caterina coniugata Lenzi. Era questa una famiglia ricco-borghese con una storia interessante che parte da Lucca nel ‘700, quando si trasferisce a Firenze in un palazzo in S. Croce. Sembra siano imparentati con un Cosimo Lenzi ambasciatore, il cui ritratto del Bronzino, risalente al 1527-1528, si trova a Milano al Museo Sforzesco. I Lenzi, a un certo punto, “scappano” a Napoli e si mettono nel commercio e nella filanda di cotone insieme a un inglese, raggiungendo una invidiabile posizione economica e di prestigio: Giacomo Lenzi, ingegnere nel Genio Civile, ricostruì il porto, e i Lenzi erano finanziatori della Compagnia Rubattino, quella che fornì i due piroscafi Piemonte e Lombardo a Garibaldi per la spedizione in Sicilia detta dei Mille. “Mio padre”, continua il prof Gianluigi, “Franco Lenzi era aiuto del prof. Izard. Doveva trasferirsi a Milano, ma la guerra bloccò tutto e rimase a Siena”. Il prof. Gianlugi dal 1973 risiede a Petroio poi torna a Roma. ![]() “Sor padrone”, “Senatore” o “Eccellenza” erano i titoli con i quali ci si rivolgeva a Gino Sarrocchi secondo il grado di dipendenza, confidenza e conoscenza. Certamente gli erano appropriati, e per quasi mezzo secolo venne considerato personaggio di spicco a Firenze, Siena e provincia: come politico, come avvocato e come agrario. Lo troviamo dalle nostre parti padrone di Passeggeri e Bellavista a partire dal 1910, erede della mamma Emma Pallini di Luigi (padrona dal 1903), insieme al fratello Guido, subito liquidato, e le sorelle. Era in età di 35 anni, già avviato alla brillante carriera di avvocato e in procinto di assumere importanti cariche politiche. Il ritrovarsi proprietario di una fattoria fece evidentemente nascere in Gino una nuova passione. Infatti, si innamorò delle sue terre e di tutto il mondo contadino a loro assoggettato. Per loro spiegò un personale contributo di capacità organizzativa e proposizioni politiche per risolverne gli annosi problemi e migliorarli, oltre che investirvi tutte le sue sostanze: “Tutto quello che guadagnava lo buttava a Passeggeri, era una fissazione... ci teneva”, rammenta la nipote. Riuscì, infatti, a trasformare terre magre e boscose con case cadenti in una fattoria modello, presa da esempio, alla quale non fece mancare mai niente, attrezzandola modernamente come poche. Ai poderi ereditati ne aggiunge altri, tanto da comprendere la sua proprietà tutto un ben delimitato e compatto comprensorio con i poderi di Castagnoli, Poggiobenichi, Monastero, Bellavista, Passeggeri, Casanuova e Torre. Nelle sue terre lavorarono contemporaneamente anche 15 operai salariati e non mancavano giornalmente nè il fabbro nè il falegname. La meraviglia per questo personaggio sta nel fatto che, pur essendo popolarissimo, nessuno a Quercegrossa sapeva che Gino Sarrocchi era il figlio del famoso scultore Tito Sarrocchi e, grazie a questo babbo e ai matrimoni resi possibili dal prestigio raggiunto, la famiglia in origine povera e popolana si ritrovò nel mondo dei privilegiati. E’ opportuno allora, ricorrendo ai ricordi e alle stesse memorie del senatore, far chiarezza e ricostruire un passato che sembra una favola. Il nonno Antonio Sarrocchi era un umile artigiano “il quale trattando nella sua bottega un ferro arrovito e incandescente ebbe la vista gravemente compromessa da una scintilla ... quando il figlio era ancora fanciullo. Il padre mio reagì e dovendo soccorrere con i frutti del suo lavoro il padre quasi cieco andando poco più che decenne a piedi da Siena a Firenze per apprendere il mestiere dello scalpellino e poi gradatamente quello di lavorare il marmo da cui lo distolse per trarlo a meno oscuro destino il grande scultore Giovanni Duprè ... lo volle tra i suoi entusiasti discepoli”. L’essere stato notato dal Duprè fu l’inizio di una bella carriera artistica che gli permise di migliorare una condizione economica la quale, come abbiamo visto, era piuttosto miserabile. Nell’estate 1860, Tito Sarrocchi sposa Ernesta Gani, ma un parto difficile, dopo 26 mesi di matrimonio, lo priva della moglie. Tito non attende molto, e il 29 settembre 1867 impalma la 23enne Emma Pallini. Dal matrimonio nascono Guido nel 1868, Gino nel 1870 e tre figlie: Adele, Giuditta e Anna. Adele sposerà il famoso ingegnere Luigi Partini. Successivamente acquistano le case in Piazza della Posta, tutto quel blocco sopra la Upim dove la famiglia va a vivere qualche anno dopo, forse dal 1885. Nel 1900, Gino, dopo la morte di Tito avvenuta il 31 luglio 1900, non abita con la madre e probabilmente si è trasferito a Firenze per aprire, dopo la laurea in giurisprudenza, il suo studio di avvocato. Nel 1913 tenta la carta politica presentandosi alle elezioni per la Camera dei deputati nel collegio di Montepulciano, e viene eletto. E’ schierato con la destra agraria liberale. Animato da spirito nazionalista e interventista non rimane a guardare l’aula parlamentare, ma imbraccia il fucile partecipando alla prima guerra mondiale col grado di tenente d’artiglieria. Si ripresenta con esito positivo alle elezioni del 1919 facendo parte del Gruppo Liberale, in quelle del 15 maggio 1921 sotto il simbolo del Partito Liberale Democratico e nel 1924 il 6 aprile nel Collegio unico nazionale. La sua appartenenza politica era maturata da una solida base di idee economiche liberali, non a caso si presenta come agrario, alle quali fu coerente, e non aderì mai al fascismo, nonostante avesse visto in questo movimento un sicuro argine al socialismo rivoluzionario e all’anarchia dilagante nel paese, legittimandolo ai suoi occhi e a quelli di molti. Per queste motivazioni i liberali appoggiarono il governo Mussolini e, dopo la scissione del 1924 col distacco di Salandra, la destra liberale, compreso il Sarrocchi, decise di fondersi nel partito fascista, deliberando l’adesione collettiva al partito fascista dal 1 gennaio 1926, prendendo ogni deputato la relativa tessera. ![]() Il ministro Sarrocchi, a sinistra, con il re Vittorio Emanuele III in una cerimonia pubblica del 1924. Così fece il Sarrocchi, il quale tanti anni dopo scriverà di non avere mai assunto personalmente nessun vincolo con questo partito. Prima di questi ultimi avvenimenti, il Sarrocchi era stato chiamato da Mussolini ad entrare nel governo. Egli, dopo essersi consultato con Salandra: “avete il dovere di accettare perchè il nostro gruppo fa parte della destra parlamentare che ha sostenuto fino ad oggi la politica del fascismo contro la minaccia rivoluzionaria”, si diresse a Palazzo Chigi per essere nominato “Ministro dei lavori pubblici”, carica che tenne dal 1 luglio 1924 al 5 gennaio 1925. Al governo il suo comportamento fu deciso, di carattere: “Mussolini gli diceva: "Gino non fare la suocera", perchè da avvocato cavillava su tutto... metteva i puntini sulle i”. Per tutta la durata della sua esperienza di parlamentare, di ministro e poi di senatore combatte apertamente dai banchi tutte quelle illegalità commesse dai fascisti nel paese, e quelle leggi che in qualche modo violavano la libertà individuale compresa quella vergognosa sulla razza da lui osteggiata con un intervento e muovendosi per la difesa di numerosi perseguitati. Le sue dimissioni da ministro furono infatti legate a quegli episodi di squadrismo e violenza che ancora serpeggiavano nel paese, e il principale fu il delitto Matteotti, del quale si dichiarava amico personale, e secondariamente la devastazione di alcuni studi cui furono vittime avvocati di Firenze: “A Firenze i fascisti bruciarono lo studio di due avvocati, Console e Pirati. Gino Sarrocchi era presidente dell'Ordine degli avvocati e si dimise da deputato”. Nominato Senatore del Regno il 24 gennaio 1929 il Sarrocchi nella sua lunga vita parlamentare fu investito di numerose cariche e prese parte a diverse commissioni trattando dalla marina mercantile all’agricoltura, venne chiamato a dare il proprio parere per la riforma dei codici civili e del commercio e si batte per una seria riforma agraria. A questa prestigiosa carriera pubblica si accompagnavano le vicende familiari di Gino e bisogna dire che non furono altrettanto fortunate, anzi riservandogli tanti dispiaceri e delusioni. Si era sposato ai primi del Novecento con Giuditta Chiavai (1875-1938), proprietaria di terre a Radicofani, dalla quale ebbe una sola figlia, Ida, nata subito dopo il matrimonio, forse nel 1902/03. Ida cresce fra Firenze e Passeggeri, ma incomincia a manifestare una certa irrequietezza. Poco più che ventenne prende marito e sposa uno straniero sul quale si sono fatte mille congetture, ma la storia vera è questa: Ida, figlia di Gino, sposa Deleon Raimondo, nato in Jugoslavia (forse in Croazia). Era di famiglia austriaca, chimico e scrittore, aveva fatto l'accademia militare a Graz. Sposa, nel 1925, Ida, che ha conosciuto a Venezia, e da questa unione nascono due figlie: Natalì nel 1927 e Sonia nel 1928. Per sposare Ida prende la cittadinanza italiana; il suo cognome von Leon è italianizzato in Deleon. Ida, col tempo, a causa del suo carattere possessivo, perseguita il marito con la sua gelosia, e lui, ossessionato, reagisce cominciando a bere e ubriacarsi. Giuditta, la mamma, mette in guardia Gino, ma lui minimizza: “Gli diceva Giuditta: Questa figliola è nervosa... Ma che, ma che, ma che; sta zitta, sta zitta, sta zitta, rispondeva lui che ripeteva sempre tre volte le parole”. Le due figlie di Ida: “Le signorine erano buone, ma non presero marito. La su' mamma non le mandava nemmeno a scuola, e faceva venire i professori in casa; solo per gli esami andavano alla scuola pubblica”. Comunque non andavano e frequenti erano i litigi con la figliola. “Il senatore severo come avvocato e lo faceva applicare anche in famiglia, era un cultore della legge: la legge prima di tutto”. Il comportamento angosciante e opprimente della figliola era purtroppo il preludio alla tragedia consumatasi nella casa di Firenze, quando Ida si gettò dalla finestra e rimase paralizzata alla spina. Fu, di conseguenza, costretta a vivere sopra una sedia a rotelle, tormentata da frequenti spasimi di dolore per i quali ci voleva la morfina. La famiglia cercò in ogni modo di aiutarla: “La portarono a Merano a far operare, ma non risolse. Gli prepararono degli stivali con stecche metalliche e grucce per farla camminare, ma non camminava”. Raccontava la stessa Ida che quando il marito andò a trovarla in ospedale a Merano era ubriaco. Si presentò tutto torto con una piccola valigia in mano che sembrava pesasse un quintale e lei: “Raimo” (così lo chiamava), “Ma sei ubriaco!”. “No, Ida, no”. La sofferenza di Ida si protrasse a lungo e, passata la guerra, mori verso il 1954/55. Il marito Raimondo gli sopravvisse fino al 1960 circa. Intanto nel 1934 il senatore perde il fratello celibe ingegner Guido, deceduto nella sua abitazione in Piazza della Posta ora chiamata Umberto II, e nel 1938 è Giuditta a renderlo vedovo. Si avvicina la guerra e con la guerra arriva l’8 settembre. Il Senatore comprende immediatamente che il vento è cambiato e soffierà ancora più forte e non è certamente mosso da opportunismo quando nei giorni 16 e 18 settembre rilascia dichiarazione di fedeltà al re e respinge fermamente l’adesione al nuovo partito repubblicano di Mussolini. “La sera del 18 settembre appresi sempre dall’apparecchio radio che ho nella mia casa di campagna e che qualche volta mi serve malissimo nonostante le frequenti riparazioni, le dichiarazioni più dettagliate fatte da Mussolini sui motivi della costituzione del Partito Repubblicano....”. La dichiarazione, come la precedente del 16, fu consegnata al Gabinetto della Prefettura di Siena perchè fosse trasmessa alla Presidenza del Senato per il tramite del Ministero degli Interni. Il 7 o l’8 settembre, preoccupato per la sorte dei 50 prigionieri inglesi a Passeggeri, si reca a Siena dove trova un generale e pochi graduati: “Il generale di Brigata Domenico Angelica, investito di tutti i poteri militari e civili nella provincia di Siena dichiara che uno o due giorni dopo l’8 settembre venne il Senatore preoccupato della sorte dei 50 prigionieri, dato che non si poteva più contare sul drappello di 14 italiani addetto alla sorveglianza, per proteggerli e salvarli dai tedeschi da un probabile massacro”. Un portaordini parte in motocicletta con l’ordine di liberare tutti i prigionieri dopo averli rifocillati. Eseguito l’ordine, gli inglesi, attraverso i boschi, raggiunsero Bucine dove vennero rilasciati. Il giorno dopo un camion di tedeschi con 14 militari e tre mitragliatrici si presentò alle ore 23 ai cancelli della villa per prendere i prigionieri, eseguendo “una minutissima ricerca dei prigionieri inglesi”. Fu una notte di paura, e il Senatore ebbe a tremare per la sua vita. Il giorno 7 luglio il Sarrocchi gira tra i propri poderi cercando di controllare i tedeschi e avvisare gli alleati, ma tornando dalla Torre diretto a Passeggeri, “durante una tempesta di fuoco”, un proiettile da Vagliagli gli scoppia vicino ferendolo. Era con la “barroccina” e l’esplosione uccise la cavalla e ruppe una stanga al calesse, mentre rami d’albero lo colpivano ferendolo alla testa, alla spalla e al ginocchio sinistro. Rialzatosi, raggiunge faticosamente il rifugio costruito per i contadini vicino all’uccelliera della villa, a poca distanza dal Madonnino. Poi da lì, “nell’oscurità più completa”, raggiunge per strade di campo il podere di Bellavista, ma è deserto, e allora si dirige verso Castagnoli trascinando la gamba. Al podere trova Quintilio Florindi, il quale non riconoscendolo gli impone il “Chi va là”. Passa la notte nella stalla del contadino, insieme a numerosi fuggiaschi, dopo essersi lavato e disinfettato alla meglio con dell’etere fornito dal colono Antonio Petri. La mattina partono a piedi il Senatore, l’autista Giuseppe Lari e l’operaio minatore “Lucedio” Gennai “che si alternavano nella fatica di portarmi la valigia”. Raggiungono Basciano ed è curato dalla Croce rossa francese, poi con l’autoambulanza è portato all’ospedale di Siena dove rimane ricoverato una settimana, lamentando anche forti dolori. Il dr. Brunetto Moggi e il chiarissimo prof. Bolognesi lo visitano e medicano. Queste le peripezie di quei giorni pericolosi raccontate dal Senatore in alcune memorie date alle stampe con il fine di difendersi pubblicamente dalle accuse rivoltegli di collaborazione con il fascio e di essersi debitamente arricchito approfittando del suo ruolo politico. Riconobbe l’errore in cui era stato vittima “...allorchè aveva continuato a credere ... nella missione patriottica di Mussolini senza sospettarne allora i tortuosi fini”, ma respinse aspramente “la turpe leggenda di un accrescimento della mia fortuna patrimoniale derivata da profitti non meno iniqui e illeciti”. Gino Sarrocchi rispose alla Corte di Giustizia, che ne aveva sancita la decadenza dalla carica di senatore nel luglio 1944, che non aveva compiuto nessun atto tra quelli previsti dal D. L. del 27 luglio 1944, ”risulta anzi una mia costante opposizione al fascismo specialmente sul tema della politica economica”. Le decisioni della Corte di annullare e cancellare oltre duecento senatori dalla carica vennero impugnate e diedero seguito a diverse sentenze. Finalmente, nel 1946, gli veniva restituita la dignità senatoriale, che ricordo, era una carica vitalizia. Si legge la meraviglia del Sarrocchi, il quale pone l’accento sul clamore fatto quando gli venne tolta, e al contrario stimmatizza la difficoltà a diffondere la nuova rimasta ignorata da quasi tutti. Infatti, dalle nostre parti nessuno ricordava che il Sarrocchi era stato reintegrato nella sua carica, e morì da senatore pur non avendo rimesso piede a Palazzo Madama. Passarono alcuni anni e il Sarrocchi si ammalò e infine nel 1950: “Martedì 30 maggio solenni funerali del Senatore Gino Sarrocchi nel pomeriggio di ieri partendo dall’abitazione di Piazza Vittorio Veneto ... si sono svolte le esequie dell’avvocato Gino Sarrocchi spentosi alle 19,30 di sabato scorso oltre ai familiari ..., le bandiere del Partito Liberale ... l’ordine forense. La salma dopo la funzione religiosa nella chiesa di S. Lucia al Prato è stata trasportata a Siena per essere tumulata nella tomba di famiglia del cimitero della Misericordia”, come lui volle fosse fatto. Con la sua morte inizia l’inarrestabile declino della fattoria: villa e poderi si ridurranno in una rovina. Le cause vanno ricercate nell’abbandono dei contadini, nell’assenza delle proprietarie, e nel saccheggio generalizzato di materiali e arredi compiuto dai soliti ignoti. “Se ritornasse il mi’ nonno ci ammazza tutti”, ebbe a riflettere un giorno la nipote. Di questo personaggio, che tanto lustro diede ai nostri posti, rimangono alcune memorie di chi lo conobbe, o di chi ne ha sentito parlare. Alcune sono sparse in questo libro, altre le riporto di seguito e contribuiscono, se mai ce ne fosse ancora bisogno, ad addentrarci nei particolari della sua vita quotidiana quando girava per Passeggeri o veniva a Quercia. Da smentire subito certe voci tendenti a mitizzarlo, inventando lo studio a Parigi, o una carica di ambasciatore a Vienna che mai rivestì. Poi ce n’è una un po’ fiabesca: “Il Sarrocchi veniva alla messa a Quercia, e veniva in carrozza tirata da quattro cavalli bianchi. Assisteva alla messa seduto in una seggiola all'altare della Madonna. I cavalli, con la museruola e fieno; di solito mentre mangiavano la facevano e poi toccava ad Attilio, con pala e carretta, ripulire tutto”. Da gran cacciatore il Sarrocchi apprezzava i Fusi di Basciano, falegnami per lui a Passeggeri; la rete intorno alla villa l'avevano messa loro, ma non per questo gli diceva confidenzialmente: “Questo è il mio fabbrino e questo e il mio falegname: cani buoni e fucili meglio”. In casa Fusi, Beppe sentì e risentì il babbo parlare del Sarrocchi, e ne viene fuori un ritratto positivo: “C'era Amato, il famoso autista del Sarrocchi che guidava e un giorno a Macialla trovano la polizia stradale che li ferma. Erano i tempi della strada a sterro, e i poliziotti osservarono attentamente la vettura girandogli intorno: “Signore, lei è in contravvenzione perchè ha la targa sporca”. Chiesero libretto e patente ad Amato. Quando videro che si trattava dell'auto del senatore Sarrocchi, cominciarono a scusarsi: “Scusi; ci scusi Senatore”, probabilmente salutandolo alla militare. “Vada pure”. “Fermi, fermi”, disse il Sarrocchi scendendo dall’auto, e si rivolse alle guardie: "Se voi ritenete che la mia targa sia sporca, mi dovete fare la contravvezione”. Amato aggiungeva quando raccontava il fatto “... e non ci fu verso. Volle che gli facessero la multa in tutti i modi. Beppa Raimondi di Basciano aveva perso il marito in guerra e ora attendeva che gli liquidassero la pensione di guerra come vedova. Ma tardava ad arrivare e un giorno si sfogava con Duilio Fusi: "Sono alla fame, se non arriva la pensione non ce la faccio più". “Ne parlo al senatore”, la tranquillizzò Duilio. E infatti, con tutta la cautela, Duilio accennò al Sarrocchi di questa pratica che tardava: “Dalla a me, dalla a me”. Dopo quindici giorni arrivò la pensione. La povera vedova volle ringraziare personalmente il Sarrocchi e gli si presentò tutta vergognosa, ma riconoscente nel suo ufficio. A Passeggeri nel laboratorio del Fusi si trovava il Bega che mangiava. Uno lo avvertì: “C'è il Sarrocchi, stai attento”. “Quando mangio non ho padroni", ribatte il Bega. Il senatore, che aveva sentito tutto, entrò in bottega e rispose al Bega: "Mangia, mangia Bega". Al Sarrocchi, come a tutti i tenutari di riserve, in tempo di guerra venne imposto di consegnare tanti capi di fagiani e lepri. L'avvocato chiamò Tono e Duilio e li incaricò di cacciare quello che occorreva. Non gli parve il vero. Gli preparavano i capi che lui consegnava allo Stato e per i quali riceveva un compenso. Poi finì anche questa storia e il Sarrocchi generosamente consegnò tutti i rimborsi ricevuti ai due cacciatori. In aggiunta gli pagò anche le giornate di lavoro perse per cacciare per lui. Il Sarrocchi uomo alto, grosso, vestito di velluto, con l'orologio al panciotto e diti indici nel giubbino. Era un uomo serio che metteva soggezione in tutti, ma aperto e disponibile. Una volta ebbe a questionare con il contadino e lo invitò a non continuare. Vedi, gli disse: “Questo cappello è nero fra poco lo fo diventare rosso”. Anna Florindi ebbe modo di conoscerlo da piccola. “Al Sarrocchi piacevano le vescie bianche (si può dire che facevano tutto l'anno a Passeggeri) e mi mandava a cercarle, poi con un po' d'olio e uno spicchio d'aglio e la nepitella ( menta selvatica), se le mangiava. Il Sarrocchi non parlava mai del babbo, ma aveva una sorella Anna, a Siena, dove andava la mi mamma”. - “Il Sarrocchi veniva a Quercia in tenuta estiva: cappello bianco a larghe tese e giacca dello stesso colore. La fattoria aveva ventidue salariati, tra Quercia e Vagliagli. A quei tempi lavorare a Passeggeri era considerato un privilegio, lavoro sicuro e paga altrettanto sicura. Costruirono vigne a non finire e le strade erano più belle di quella principale di Quercegrossa. Il fattore Vannini curava i rapporti con gli operai e contadini, poi aveva il cosiddetto "Ministro" che sarebbe stato l'amministratore, il contabile”. - “Il Sarrocchi aveva il calesse e la carrozza chiusa”. - “Deleon levava lo zipolo dalla botte... ci metteva la bocca e beveva”. Francino Innocenti: “Andavo a fare la barba al genero del Sarrocchi che morirà alcolista. Beveva e gli fregarono degli appartamenti in Piazza della Posta”. Ida Fanetti al servizio a Firenze dal 1940 al 1942: “La domenica la cacciata a Passeggeri con tutti i suoi amici e la mangiata con anche i contadini che aiutavano. A Firenze, quando seguivo il senatore, facevo la domestica e Giulia Florindi la cuoca. Giulia preparava il mangiare anche per Ida, la figlia che abitava al piano di sopra. Ida conduceva un'esistenza semplice; vestiva dimessa quasi trasandata, e mandava le figlie a prendere il pranzo di sotto. Il De Leon aveva molti amici. Era una combriccola di allegroni e pescavano nell'Arno. La sera rientrava regolarmente tardi, verso mezzanotte, mezzo briaco o tutto, accompagnato dagli amici che subito se ne andavano, mentre Ida Sarrocchi l'aspettava per la cena. A Firenze il senatore era avarissimo; segnava la fetta di pane a striscioline che dovevano mangiare. Aveva lo studio a Firenze, ma si assentava spesso per i suoi affari. Non era cattivo, ma si arrabbiava quando le cose non stavano bene”. - “L'avvocato Sarrocchi era stato console o ambasciatore in Francia dove aveva anche uno studio”. - “Al Sarrocchi di Passeggeri arrivava un sacco di posta riservato e veniva o mandava a prenderlo; poi mandava prodotti alimentari a Firenze con la Sita”. Oggi la proprietà è in completo abbandono. Già tanti anni fa la stessa Sonia Deleon dovette portare le porte della villa a Siena per salvarle dal saccheggio. “C'erano certe botti di rovere, il concaio come lavanderia pieno di conche, un orcio grandissimo che spaccarono per portarlo via” . Tutto e tristemente finito. |