Investitura significa "mettere in possesso di una dignità". La parola, che significa genericamente immissione in una carica o in un possesso, fu termine specifico del diritto feudale, che indicò la messa in possesso del vassallo in un feudo e più precisamente la cerimonia simbolica in cui si esprimeva l'atto giuridico. Poiché, come vedremo, feudatari furono spesso nominati anche gli ecclesiastici (in particolare vescovi e abati), grazie alla concessione di territori e di uffici da parte dei sovrani, Investitura si chiamò l'immissione nel possesso feudale di questi ecclesiastici da parte del feudatario. Dato il legame permanente stabilitosi fra la carica ecclesiastica e il feudo, il termine finì per indicare l'incorporazione nella carica ecclesiastica stessa.
A questo spostamento di significato corrispose una trasformazione nel sistema di nomina dei dignitari ecclesiastici. Già nell'Impero carolingio, ma più ancora nelle monarchie tedesca e francese, l'alto clero entrò in pieno nella gerarchia feudale e venne a costituire parte integrante e capitale dell'organizzazione politica. In particolare i re e imperatori della Casa di Sassonia (936-1024) si distinsero per le ampie concessioni di possessi e di uffici fatte ai vescovi, trasformati da essi in funzionari principali dello Stato. Contemporaneamente a queste concessioni i sovrani tenevano ad assicurarsi il controllo della scelta di coloro che ne godevano. Successe così che vescovi e abati vennero nominati di fatto, o anche formalmente, dal sovrano, e ricevettero da lui la conferma della loro nomina, gli prestarono il giuramento di fedeltà e l'omaggio feudale. L'immissione nella carica e nei possessi avveniva mediante la consegna del pastorale, a cui nell'XI secolo si aggiunse l'anello.

Le investiture dei dignitari ecclesiastici rispondevano a criteri temporali piuttosto che religiosi. Ne derivarono abusi e corruzioni, legate in particolare alla simonìa, vale a dire la concessione di cariche ecclesiastiche da parte del re o di altri signori dietro compensi pecuniari. In altre parole, per dirla con termini più correnti, i vescovi compravano le cariche politiche corrompendo i funzionari Imperiali. La profonda corruzione del clero, soprattutto al di fuori dei confini della Germania, ove al contrario la Chiesa Imperiale vegliava maggiormente sulla moralità dei vescovi insigniti dell'Investitura, produsse anche "inconvenienti morali" come il matrimonio e il concubinato del clero, vietato dalle disposizioni canoniche vigenti in Occidente da molti secoli.
D'altra parte nell'XI secolo il papa in sé non era considerato più che il semplice vescovo di Roma in senso stretto ed era ben lungi dal godere il rispetto di tutti i cristiani. Ciò era dovuto in massima parte al crollo dell'istituzione papale che si era fondata sulla rinascita dell'Impero carolingio e a sua volta era collassata col venir meno della dinastìa che aveva rifondato l'Impero d'Occidente. Inizialmente il papato subì gli assalti e la violenza dei re occasionali che seguirono la caduta dei carolingi. Poi, peggio ancora, il papa fu la preda dei nobili e della feudalità romana, allorché le famiglie si combatterono per far entrare il papa nelle loro Casate.
In questo ambiente romano, dove l'amoralità la faceva da padrona e andava di pari passo con la brutalità delle azioni adottate per conquistare o mantenere il potere, gli intrighi di donne senza scrupoli disposero più di una volta della tiara papale. Marozia e Teodora, per mezzo dei loro amanti e mariti, fecero in modo che essa venisse attribuita ai loro figli. La leggenda della papessa Giovanna è l'esagerazione, spinta fino alla caricatura, degli scandali troppo veri di quest'epoca. Il nipote di Marozia divenne papa nel 955 all'età di 18 anni e ricevette il sovrano pontificato come si riceveva né più né meno un feudo qualsiasi. Il suo nome fu Giovanni XII.
Questo papa feudale doveva essere tuttavia lo strumento di restaurazione dell'Impero. Inutile dire che la sua spinta all'incoronazione di Ottone I a nuovo Imperatore del Sacro Romano Impero nel 962, fu data da interessi personali legati alla lotta che lo vide impegnato col suo nemico storico, il sedicente re d'Italia, marchese Berengario d'Ivrea, che a sua volta ostacolava la riunione dello stivale sotto la corona Imperiale. C'era, insomma, comunione di interessi tra Ottone I di Sassonia e Giovanni XII. Ma ormai a Roma nessuno comprendeva le grandi parole che un tempo avevano dominato la Storia. Giovanni XII credeva che Ottone avesse dell'Impero un'idea simile a quella che lui aveva del papato. Quando si accorse invece che il nuovo Imperatore prendeva il suo potere sul serio, cominciò ad ordire trame e intrighi contro di lui. Così Ottone tornò a Roma per la seconda volta, per deporre Giovanni XII e ottenere il giuramento dei romani che non avrebbero più nominato papi senza il consenso Imperiale. E fu così che Leone VIII fu eletto in sua presenza e Ottone se ne tornò in Germania. Ma i romani avevano ceduto alla forza dell'Imperatore, senza cedere alle loro trame di corruzione. Scacciarono infatti subito Leone VIII e rimisero sul trono papale Giovanni XII, sostituendolo, dopo la morte di questi, con Benedetto V, in barba al giuramento che avevano fatto a Ottone. Come si vede per l'Imperatore il papa non era altro che un qualsiasi altro feudatario disobbediente. Del resto egli stesso si comportava in tal modo, da piccolo signorotto di provincia.
La disciplina, la morale, la scienza e la ricchezza della Chiesa avevano assunto rilievo e si erano accresciute sotto i carolingi. Era naturale che al termine di questa dinastìa anche la Chiesa, che si era appoggiata all'apparato politico-temporale per far breccia nelle popolazioni, avrebbe subìto un'implosione che avrebbe dato luogo ad una profonda crisi. In Germania, dove da sempre la Chiesa Imperiale era fondata su basi solide, la crisi durò poco e sotto la direzione dei vescovi investiti dall'Imperatore la tradizione carolingia fu presto ripresa e la cultura intellettuale del clero seguì di nuovo la via tracciata da Carlo Magno. Ma non avvenne la stessa cosa negli altri paesi europei, dove la posizione dei vescovi era paragonabile a quella appena descritta relativamente al vescovo di Roma. Praticamente il compito principale dei vescovi era quello di difendersi dagli intrighi dei partiti dei signori locali. Se andava bene venivano cacciati, quando non assassinati, se questi li sfidavano troppo apertamente. Ma l'organizzazione episcopale sussisté, come continuarono ad esistere i monasteri. Nel X secolo le parrocchie si estesero anche alle campagne. I possessi monastici attirarono in massa gli uomini, che lì trovarono lavoro e la possibilità di unire le proprie forze fisiche con quelle spirituali delle comunità religiose. Anzi, l'ideale religioso dell'epoca si sposò alla perfezione con la comunità monastica, la rinuncia alla grama vita del mondo per salvare l'anima, l'umiltà e la castità. Ed è da qui che doveva partire il rinnovamento della Chiesa, non dai vescovi, fossero essi feudatari o meno, troppo impegnati a contrastare gli intrighi politici che si svolgevano nelle comunità cittadine.
Fu così che attorno al 950 si venne formando in Francia, particolarmente in seno a certe congregazioni monastiche della Lorena, un movimento per la riforma ecclesiastica locale, che in seguito prese il nome di riforma di Cluny. Questo movimento rivolse una particolare attenzione agli abusi introdottisi nelle nomine delle cariche vescovili. L'estirpazione della simonìa divenne uno dei postulati capitali del movimento. Più in generale questo mirò a ripristinare le norme del diritto canonico e l'indipendenza del clero rispetto al potere temporale. Per ulteriori notizie si è deciso di dedicare un capitolo alla riforma di Cluny.
Più o meno tutti gli storici concordano nel ritenere che il germe delle lotte per le Investiture fosse già insito nella struttura che Carlo Magno aveva dato nel IX secolo al neonato Sacro Romano Impero. Per dirla in maniera semplice, già solo la presenza del termine Sacro nella denominazione dell'entità statale alludeva ad una compenetrazione tra potere politico e religioso che inevitabilmente portò ad una commistione di interessi (e successivamente di conflitti) allorquando il sistema amministrativo divenne corrotto - quando sostanzialmente venne a mancare una figura che potesse costituire una guida forte, capace di coagulare tutte le spinte centrifughe di potere. Né la situazione poté migliorare allorché l'Impero risorse (o per meglio risorse l'ideale che ne stava alla base), ad opera della dinastìa dei duchi di Sassonia.
Il primo di questi re di Germania e nuovo Imperatore, Ottone I, risollevando nel 962 le sorti dell'Impero ormai decaduto, volle far rivivere lo spirito e la tradizione della dinastìa carolingia. Ma con una differenza non trascurabile tra la prima esperienza e la seconda: infatti all'epoca di Carlo Magno l'Impero fece coincidere la sua estensione al suo carattere religioso universale, mentre l'Impero ottoniano si estese in fondo solo sulla Germania e sull'Italia, dato che la Borgogna rientrò nei possedimenti imperiali solo nel 1033 sotto Corrado II, per cessione dal suo ultimo re Rodolfo III.
Ma rispetto all'esperienza carolingia, l'Impero ottoniano non riuscì nemmeno a conservare quella sana comunione di intenti che aveva caratterizzato la collaborazione tra potere temporale dello Stato e potere spirituale della Chiesa all'epoca del primo Sacro Romano Impero. Sotto i nuovi Imperatori il papa divenne spesso una creatura senza influenza e senza prestigio quando la caratura dei pontefici non fu in grado di tener testa agli affronti Imperiali; nel caso di papi dalla grande personalità la Chiesa si pose al contrario in aperto conflitto con il potere statale. La crisi in realtà attanagliava entrambi i centri di potere. Ma la Chiesa, attanagliata dalla crisi del papato, pur essendo inevitabilmente legata alla commistione dei poteri, trovò una speranza di rinascita nei movimenti monastici, avulsi per definizione dalla realtà corrotta della politica, riuscendo, per così dire, a risorgere dalla "base".

In realtà anche il potere temporale dell'Impero aveva una sua "base" solida e meno permeata dalla corruzione: questa base era la Germania. Là l'Imperatore era riconosciuto e generalmente accettato da tutti i prìncipi, che partecipavano attivamente alla sua elezione. La Chiesa, insieme ai vescovi, che ne decidevano le sorti e le linee guida, era sempre compartecipe delle decisioni importanti e quindi i due poteri poterono collaborare fattivamente anche sotto gli Ottoni e gli Hohenstaufen. Ma i problemi sorsero in seguito ai possedimenti di Italia e, successivamente, di Borgogna, laddove cioè i feudatari non erano resi compartecipi né delle elezioni degli Imperatori, né delle decisioni che andavano a pesare sul loro destino. Le decisioni, per così dire, piovvero sempre dall'alto del potere Imperiale e ben presto i sovrani dovettero accorgersi che stavano per essere travolti ben più che da un temporale passeggero!
Eppure, a ben vedere, non si poteva certo dire che gli Imperatori si occupassero esclusivamente degli interessi tedeschi, anzi, fu esattamente il contrario. L'Impero, infatti, per quanto appartenesse al re di Germania, non privilegiò affatto quel paese. Per quanto fosse mutato nel passaggio dalla dinastìa carolingia all'avvento dei duchi di Sassonia, la sua stessa costituzione universale e transnazionale gli impedì sempre di diventare un trasferimento di poteri tedeschi sul resto del territorio. Avendo come prototipo esemplare l'antico Impero Romano, infatti, il dominio del Sacro Romano Impero tese per esigenza costitutiva ad essere denazionalizzato. Ci fu al contrario una compenetrazione profonda tra coloro che si sentirono "investiti" della missione riunificatrice imperiale, anche e soprattutto ispirata dalla fede religiosa e il fatto che la missione stessa era destinata inevitabilmente a lasciar perdere gli interessi locali, proprio perché occorreva soddisfare esigenze specifiche territoriali molto forti al di fuori del territorio tedesco. Gli Imperatori furono insomma sempre "predestinati", per la funzione stessa della missione che si erano dati (missione appacificatrice sull'Europa), a conciliare una dicotomìa storica di difficile soluzione: da una parte vollero incarnare l'idea della sovranità universale e transnazionale, dall'altra sconfessarono la propria specificità germanica, il che provocò uno scollamento di metodi per l'applicazione degli intenti che portò all'impedimento di essere la prima cosa per aver abbandonato l'idea di essere la seconda.
In questa dicotomìa si inserirono gli interessi papali che compresero di sfruttare a proprio vantaggio la debolezza costitutiva dell'Impero, cioè il fatto stesso che esso si appoggiasse alla Chiesa (e per essere ancora più precisi, sui feudi episcopali) per costruire l'unità nella diversità. Allo stesso tempo perfino in Germania, dove la figura dell'Imperatore era ancora guida incontestata, l'evoluzione della società feudale ed il possesso fondiario da parte dei prìncipi laici favorì una spinta rivolta ad ottenere una maggiore indipendenza delle istituzioni periferiche, rispetto a quelle centrali. Finché non si giunse ad un formale riconoscimento del principio dell'ereditarietà feudale da parte di Corrado II. Fu così che da una parte l'amministrazione Imperiale cominciò a privilegiare i feudi episcopali dei vescovi che, non avendo eredi, consentivano alla loro morte il ritorno dei feudi all'Imperatore, che li riassegnava ad altri vescovi. Per contro i prìncipi laici fecero pressioni per smembrare l'Impero in principati autonomi, un processo che in Germania ebbe dei risvolti non dissimili alla nascita dei liberi Comuni in Italia. L'unico appoggio sul quale l'Impero poteva contare furono i vescovi, nuovi e unici alleati in questo disgregamento senza antidoti. Si comprende che la cosa poté star bene al papa finché non si crearono motivi di frizione sulle investiture stesse. Ma di fatto il processo di smembramento aveva già avuto luogo e, sebbene sarebbe affrettato affermare che si trattò soltanto di un espediente e di un pretesto per affermare il proprio potere, il papa colse l'occasione per "puntualizzare" alcuni aspetti di fondamentale importanza teologica.
Il conflitto rimase a lungo latente. È facile vedere come la lotta alla simonìa si trasformò col tempo in una lotta contro il potere Imperiale, che traeva beneficio dalla subordinazione a sé stesso delle cariche dispensate agli ecclesiastici. Ma alcuni sovrani, come Enrico II ed Enrico III esercitarono largamente il diritto d'Investitura, ma al tempo stesso combatterono la simonìa, propugnando essi stessi (prima ancora che il papa) la riforma della Chiesa. Anzi, fu proprio Enrico III che, allo scopo di contrastare la corruzione dilagante nell'amministrazione Imperiale periferica, volle sobbarcarsi espressamente il diritto di designazione dei Papi romani, ormai considerati essi stessi alla stregua di vescovi di provincia. Né le cause di questo approccio alla "questione papale" era del tutto sbagliato: a Roma infatti c'erano tre papi che si contendevano il soglio di Pietro a colpi di corruzione, mentre in Francia si era ormai dato inizio alla riforma cluniacense, sostenuta essa stessa dall'Imperatore. Lo scopo era infatti, da parte Imperiale, quello di tornare alla purezza e all'ardore del sentimento religioso, assicurando la dominazione spirituale con animo più fervente e una disciplina più rigida, che l'Imperatore non poteva non auspicare.
Enrico III volle così rendere per sempre impossibile lo scandalo dei tre papi che si vendevano la tiara, troncando gli intrighi incessanti che impedivano al papato di rispondere alla sua missione. Nel sinodo di Sutri del 1046, e con la sostanziale approvazione dei riformatori cluniacensi, Enrico III discese in Italia a deporre i tre papi che si contendevano il trono papale ed elesse il vescovo di Bamberga Suidger, che divenne papa con il nome di Clemente II. Purtroppo un anno dopo questi morì e gli altri papi che gli succedettero furono come lui tedeschi, sudditi dell'Impero e imposti ai romani per volontà del sovrano (Damasco II, Leone IX e Vittore II, negli anni dal 1048 al 1057). Furono dei papi eccellenti, cluniacensi convinti che portarono avanti le riforme provenienti dalla base monastico-religiosa. E infatti sotto i papi scelti da Enrico III la corrente riformistica divenne predominante in Curia romana.
Ma restava irrisolto un problema centrale: per favorevoli che fossero i risultati, l'intervento diretto dell'Imperatore nell'elezione papale non era forse un'ingerenza diretta nel campo del diritto canonico e, per parlare francamente, un atto di simonìa? E non stiamo forse parlando proprio dell'Imperatore, che per primo aveva combattuto la simonìa come fonte di corruzione? La risposta ad entrambe le domande è che l'ingerenza Imperiale nell'elezione del successore di Pietro si rivelò essere un errore imperdonabile e di questo se ne sarebbero ben presto accorti i successori di Enrico III, proprio perché fino alla sua morte il conflitto tra Stato e Chiesa rimase solo potenziale. Un'altra contraddizione imperdonabile da parte di Enrico III fu quella di eleggere due papi proprio tra i riformisti cluniacensi, i quali anziché sostenere l'Imperatore per la buona scelta operata, trovarono anche il modo di constatare e denunciare il suo comportamento come un'usurpazione insopportabile e delittuosa. Insomma il conflitto era già annunciato.
Leone IX (1049-1054) pose in testa agli obbiettivi del suo pontificato il movimento riformistico ecclesiale. Già questi, dopo essere stato designato papa da Enrico III, preso da rimorsi, si fece confermare nell'elezione dai romani. Il che apriva la strada ad una reintegrazione delle vecchie consuetudini. Era insomma una dichiarazione di intenti, un segnale di allarme che Enrico III non seppe cogliere. Nel partito riformistico interno alla Chiesa la corrente di avanguardia si propose di sottrarre il papato dalle dipendenze dell'Impero, formulando nettamente i princìpi d'indipendenza del clero e della superiorità dell'ufficio clericale rispetto a quello politico e giungendo a considerare come simonìa tutte le investiture di ecclesiastici operate dai funzionari Imperiali. Il capo di questo indirizzo fu il cardinale Ildebrando di Soana, che divenne in seguito papa Gregorio VII.
Ma prima di arrivare al ruolo di Gregorio VII restiamo ai fatti degli anni Cinquanta. Nel 1056 l'improvvisa morte dell'Imperatore Enrico III accelerò senza volere il processo di disgregazione dell'unità di potere temporale-religiosa, cioè il "duopolio" papale e Imperiale. Il suo successore era Enrico IV, un fanciullo di sei anni che, senza volere, fece precipitare la Germania in un vuoto di potere in cui si inserirono gli interessi religiosi. Ci fu prima una reggenza tempestosa in attesa della raggiunta maturità del nuovo Imperatore e poi una pericolosa ribellione dei Sassoni.
Con Nicola II (1058-1061) eletto dal partito riformista cluniacense iniziò l'attuazione dei postulati che provenivano dalla "base". Il Concilio del Laterano dell'aprile 1059, accanto al decreto che regolava l'elezione del pontefice ponendola in mano al Collegio dei cardinali (regola tuttora vigente), ne emanò un altro che determinava che nessuno avrebbe potuto ricevere il governo ecclesiale da parte di chicchessia. Con l'elezione di Nicola II il rinnovamento religioso, che si era compiuto al di fuori della ristretta cerchia papale, volgeva adesso verso il successore di Pietro.
Fu il trionfo della spinta di un'immensa forza morale che era stata messa in moto dai monaci benedettini e che propugnava un'inusitata fedeltà a Cristo, che abbracciava le anime e si confondeva con la fedeltà al suo vicario in terra, cioè il papa. Bastava che egli parlasse e la sua parola era intesa e venerata fino agli estremi confini della cattolicità. E la cattolicità non solo aveva ritrovato uno spirito zelante, ma aveva anche esteso la sua influenza, come mai prima di quel tempo. Al principio dell'XI secolo essa raggiunse la Danimarca, la Norvegia e perfino l'Islanda. Mai Roma aveva posseduto un dominio spirituale così vasto, né un'autorità così forte. La sua rottura con la Chiesa greca del 1054 dimostra anche quale grado di autonomia e di forza essa avesse ormai raggiunto.
Fu così che la minore età di Enrico IV permise di scuotere quello che era considerato un giogo. Il Concilio Laterano del 1059 mise fine alle ingerenze Imperiali e alle elezioni tumultuose che avevano a lungo causato il declino papale. La designazione del vicario di Cristo doveva appartenere solo alla Chiesa, raccolta nella pace e nella libertà. Una clausola speciale stabiliva che i cardinali avrebbero potuto riunirsi al di fuori di Roma, se la città non avesse concesso la tranquillità necessaria alla scelta del nuovo papa (clausola che fu spesso impugnata).
Ma se il papato di Nicola II era stato un ministero di rottura col passato, occorre dire che fino a quel momento la disputa con l'Impero non si era ancora rivelata così dirompente come accadde col suo successore, il vescovo di Lucca che nel 1061 ascese sul soglio di Pietro con il nome di Alessandro II. Questi, che aveva guidato la rivolta della pataria nel Nord Italia, era un anti-imperialista convinto. Fu a lungo sostenuto e consigliato dal cardinale Ildebrando di Soana che fu il suo successore nel 1073, anno che si può considerare l'anno dello scoppio della guerra delle Investiture (tradizionalmente indicata nei libri di storia come verificatasi tra gli anni 1073-1122).
Salito al trono Ildebrando col nome di Gregorio VII (1073-1085), nel sinodo di quaresima del 1074, egli dichiarò decaduti da ogni diritto sulle loro chiese i simoniaci ed eccitò il popolo a rompere i rapporti con loro e con i concubinari. Nel sinodo di quaresima del 1075, sotto minaccia di scomunica, dichiarò illecito ogni conferimento di ufficio ecclesiastico da parte dei funzionari Imperiali. Il divieto delle Investiture non fu pubblicato subito da Gregorio, ma solo in un sinodo del 1078, venendosi così a configurare come una sfida malcelata nei confronti dell'amministrazione Imperiale, che evidentemente ne venne a conoscenza in ritardo.
Ma a parte i vizi di forma, il potere Imperiale era costretto ad obbedire alle prescrizioni canoniche, rimettendo in sostanza il proprio potere di Investitura temporale sui feudi nelle mani di elementi estranei al governo della politica e quindi schiudendo le porte a colpi di mano da parte di chicchessia: intimare all'Imperatore di rinunciare all'Investitura era come intimargli di non essere più nulla, perché la base del suo potere di nomina gli veniva usurpata. D'altro canto si è già parlato dell'incipiente estensione di autonomia a favore dei nobili e prìncipi locali, per cui l'Imperatore si venne a trovare in una situazione di fuoco incrociato da parte di due gruppi di potere che entrambi minarono l'autorità dell'amministrazione statale. Ma non è finita. Essendo questi due gruppi di potere (religioso e nobiliare) accomunati da una convergenza di interessi che spingeva alla dissoluzione del potere centrale Imperiale, si venne a configurare praticamente un colpo di mano di stampo semi-anarchico che creò le basi per una disputa che non fu solo religiosa, ma che divenne soprattutto morale.
E papa Gregorio VII sfruttò a suo favore la questione morale, diffondendo alcune dicerìe, peraltro fondate, che attribuivano all'Imperatore Enrico IV frequentazioni sessuali orientate ad entrambi i sessi e un ambiente di corte che non era un esempio di rettitudine morale. Poiché questo risulta accertato si può controbattere che la debolezza dell'uomo Imperatore avrebbe forse meritato più rispetto, se si pensa solo alle conseguenze che questo avrebbe potuto provocare: dissoluzione dello Stato Imperiale e caos generale, come infatti avvenne.

Enrico IV reagì al nuovo stato delle cose riunendo il 24 gennaio 1076 a Worms la dieta che prese il nome della città tedesca, in cui convocò i vescovi a lui fedeli. E fece dichiarare il papa indegno del ministero a lui assegnato. Quando i conservatori sono privi di genialità immaginano che basti restaurare il passato senza tener conto del presente. Far deporre un papa da qualche vescovo tedesco riunito in una dieta Imperiale, senza aver capito l'importanza dell'azione politica di Nicola II e di Alessandro II provava una profonda ignoranza dello spirito dell'epoca. Nulla poteva servire meglio la causa di Gregorio VII di questa pretesa dell'Imperatore di disporre da padrone del capo della cattolicità.
La risposta di Gregorio VII non si fece attendere. Egli scomunicò Enrico IV, sciogliendo da ogni vincolo tutti coloro che gli avevano giurato fedeltà. Ci si accorse così che la decisione della dieta di Worms non era stata neppure accettata dai prìncipi tedeschi. Poiché se essi l'avessero ritenuta valida, non avrebbero tenuto conto della scomunica data al loro Re e avrebbero continuato a prestare fedeltà all'Imperatore. Invece, con la sentenza giunta da Roma, tutti abbandonarono Enrico IV, il quale per scongiurare il pericolo di una rivolta fu costretto a sconfessare il giudizio dei suoi vescovi e ad umiliarsi davanti a quel papa che egli aveva fatto dichiarare indegno. Il 28 gennaio 1077 apparve a lui vestito da penitente nella fortezza di Canossa ed ottenne il suo perdono. Ma Gregorio si riservò il diritto di intervenire nella disputa tra lui e i prìncipi. Quando Enrico, senza attendere di discutere con loro, si riprese il titolo regio, una parte di questi dette la corona a Rodolfo di Svevia e scoppiò la guerra civile.
La lotta continuò sotto i successori di Gregorio VII. Urbano II (1088-99), rinnovò il divieto d'Investitura nel Concilio di Clermont (novembre 1095), quello stesso in cui si bandì la Prima Crociata, specificando che nessun prete potesse far giuramento di vassallaggio. Pasquale II (1099-1118) concluse con Enrico V il patto di Sutri (febbraio 1111), per il quale la Chiesa avrebbe dovuto restituire i feudi e i privilegi ricevuti da Carlo Magno in poi, e il re avrebbe rinunciato al diritto d'investitura. Sarebbe stata una completa rivoluzione politico-religiosa e la soluzione ai problemi del conflitto; ma l'opposizione unanime dei dignitari imperiali fece immediatamente fallire l'accordo, poiché un simile cambiamento avrebbe di fatto trasferito l'immensa fortuna fondiaria della Chiesa nelle mani dei prìncipi che, come abbiamo visto, erano parzialmente un elemento destabilizzante dell'Impero. Enrico allora imprigionò il pontefice insieme con i cardinali e ottenne così da lui, con il patto della libera elezione dei prelati, il diritto d'Investitura (aprile 1111). Ma il partito gregoriano sollevò opposizione fierissima e Pasquale, tornato libero, riconfermò i decreti di Gregorio e di Urbano.
Nel mondo teologico francese intanto si formò la distinzione fra Investitura spirituale ed Investitura temporale. Il vescovo Ivo di Chartres ne fu uno dei principali sostenitori. Distinguere tra i due momenti andava a risolvere una serie di problemi nati, in primo luogo, dalla corruzione del clero di bassa leva, che per ascendere a cariche ecclesiali più elevate era stato disposto finanche a corrompere i funzionari dell'Impero. Fu grazie agli auspici propugnati da Ivo di Chartres che si arrivò al concordato di Worms (23 settembre 1122), stipulato tra papa Callisto II e l'Imperatore Enrico V. Esso stabiliva la rinuncia del potere politico all'Investitura dei vescovi e degli abati con la consegna dell'anello e del pastorale (simboli ecclesiali). In sostanza l'Imperatore rinunciava all'Investitura nell'ufficio ecclesiastico, ma si riservava di compiere l'Investitura con lo scettro, assegnando i poteri feudali del sistema politico. In Germania tale Investitura temporale doveva precedere la consacrazione vescovile, mentre in Italia e in Borgogna la doveva seguire (essendo la prima disposizione molto più favorevole al potere regio). Le elezioni sarebbero avvenute in forma canonica, cioè per elezione del clero e approvazione del popolo, ma in Germania alla presenza di un funzionario imperiale (o dell'Imperatore in persona), il quale avrebbe avuto diritto d'intervento nel caso di doppia elezione. Il Concilio lateranense del 1123 (primo concilio ecumenico dell'Occidente) ratificò l'accordo.
La questione delle Investiture fu agitata anche in Francia e in Inghilterra. Gregorio VII ebbe un violento conflitto con il re di Francia Filippo I; ma non si arrivò a una rottura decisiva, e in complesso la lotta fu assai meno vivace e profonda di quella con il re di Germania. Filippo finì poi sul principio del XII secolo, senza un espresso accordo, per rinunciare all'Investitura con l'anello e il pastorale, conservando il diritto d'approvazione delle elezioni e il conferimento dei beni temporali. In Inghilterra Anselmo d'Aosta, arcivescovo di Canterbury (1093-1109), fu in violento conflitto con i re Guglielmo II ed Enrico I, al quale ultimo ricusò il diritto d'Investitura e il giuramento feudale. Ma nel 1106 si giunse a un accordo, rinunciando Enrico all'Investitura e conservando il giuramento feudale da parte dei prelati prima della consacrazione.
L'istituto dell'Investitura, essendo strettamente legato con la società feudale, venne meno con la sparizione di questa. Rimangono fuori del quadro della lotta per le Investiture gli ulteriori svolgimenti nelle elezioni dei prelati. Per essi da una parte il pontefice romano trasse a sé in sempre più larga misura le loro nomine, e dall'altra i sovrani affermarono il loro diritto di nomina in forza, non più del principio feudale, ma di quello di sovranità territoriale, venendosi poi fra i due poteri a compromessi, per i quali il sovrano faceva le nomine e il papa impartiva la conferma e l'istituzione canonica.
I due poteri, che un tempo erano stati uniti indissolubilmente nel governo dell'Europa, si erano messi a guerreggiare per dispute sì importanti, ma che avrebbero condotto ad un indebolimento di entrambi. La Chiesa Imperiale crollava e non restava che una Chiesa feudale, basata su ripicche pignole nei confronti dei funzionari statali. L'Impero ne soffriva, il papato ne guadagnava in prestigio, ma non migliorava la disciplina ecclesiastica. Ogni elezione papale diventò una lotta d'influenza che subì le pressioni dei grandi, non solo l'Imperatore, ma anche gli astri nascenti del Re di Francia e d'Inghilterra. Non esisteva più la simonìa e la subordinazione agli ordini Imperiali, ma subentrarono altre vie per la costituzione di sotterfugi che avrebbero in seguito portato non alla rovina della Chiesa, ma al suo coinvolgimento in pratiche che hanno richiesto le scuse ufficiali da parte di papa Giovanni Paolo II per le sofferenze inflitte all'Europa dai suoi predecessori di tutte le epoche.
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