Quercegrossa (Ricordi e memorie)
CAPITOLO VII - STORIA CIVICA
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Il Fascismo
Gli anni che vanno dal 1920 al 1945 sono passati alla storia come gli anni del “Fascismo”, quando la dittatura mussoliniana si impose ad una fragile democrazia italiana, e dopo un “Ventennio” di autoritarismo portò il paese alla catastrofe della guerra segnando la propria sconfitta.
A questi anni risalgono le prime memorie di una certa consistenza dei nostri anziani che raccontano episodi e situazioni vissute in prima persona o per sentito dire e che trascrivo cercando di dare un ordine cronologico agli avvenimenti arricchiti da qualche nota storica senese o nazionale.
Intanto per Quercegrossa furono anni di grande crescita demografica dovuta alla realizzazione di nuovi quartieri abitativi da parte di Giotto Fontana, nel suo palazzo, e dalla famiglia Mori nel Palazzaccio. In un paese dove prima della Grande guerra vivevano 6 famiglie ne ritroveremo circa 30 nel 1940, con una popolazione intorno ai 120 abitanti. Come conseguenza dell’aumentata popolazione si sviluppò una discreta attività ricreativa che si aggiunse a quella religiosa parrocchiale creando grande aggregazione e partecipazione, tantochè Quercegrossa assunse davvero la fisionomia di centro abitato vitale con una propria identità. A questo contribuì anche il regime, del quale vennero seguite le direttive nazionali che negli anni Trenta non mancarono di portare iniziative di ogni genere. In particolare si ha l’avvio dell’insegnamento scolastico elementare e si costruisce la nuova scuola; i Mori iniziano una redditizia attività industriale, imitati più tardi dal Vienni del Castello; Giotto Fontana lavora nel suo palazzo e nelle fornaci; nascono nuovi poderi; Passeggeri si fa una fattoria modello offrendo ai salariati qualche possibilità di occupazione in più, alla quale si aggiunge alla fine di quegli anni il lavoro alle miniere di Lilliano. Un paese quindi in fermento con due botteghe e un circolo, ma le condizioni economiche risentono della perenne crisi nazionale e il livello di vita rimane piuttosto modesto. Fatta questa premessa rimane solo da raccontare come vissero a Quercegrossa l’esperienza fascista che a detta di tanti non creò problemi a nessuno nella generale adesione “S’era tutti fascisti”, volontariamente o involontariamente... fino a quando non scoppiò la guerra.
Non si hanno tanti ricordi per gli anni immediati del primo dopoguerra, e in particolare tra il 1920 e il 1923 in cui il Fascismo prese il potere, anni caratterizzati da scioperi, assalti alle sedi dei partiti, aggressioni private e violenze tra socialisti e fascisti, ma probabilmente i contadini di Quercegrossa continuarono le loro laboriose occupazioni, i salariati il loro lavoro e solo col tempo vi fu una piena adesione al Partito da parte degli esponenti più in vista che promossero la realizzazione di un circolo “Dopolavoro”, o si impegnarono in prima persona nell’assumere cariche nell’ambito della “Sottosezione di Quercegrossa”. Certamente alcuni reduci, come Brunetto Rossi, furono quelli “della prima ora”, e parteciparono alle tante manifestazioni dei Combattenti, ma si rammenta soltanto che nei primissimi anni Venti in molte famiglie vi era un distacco netto dalla politica e Marisa Candiani riporta quello che dicevano in casa Bari alle Gallozzole: ”...passavano per la strada dei Servolini i camion di manifestanti con le bandiere rosse socialiste ed erano salutati dai contadini al lavoro nei piani, e così salutavano anche i camion carichi di fascisti”. Ma ricorda anche che “C'erano i fascisti che puntavano il dito verso coloro che non aderivano pienamente e che giravano per i poderi la notte sempre pronti ad annoiare i contadini di idee socialiste”.
Non abbiamo memorie di grosse prepotenze, e l’olio di ricino sembra sia rimasto nelle bottiglie, mentre sappiamo che corse abbondante in tanti altri posti. Nei primi mesi del 1920 si era costituito a Siena la sezione del Fascio di Combattimento, mentre a Castellina in Chianti si aveva uno dei primi nuclei organizzati fascisti, con gli attivisti Paolo Becciolini e Arturo Gori ricordati negli annuari fascisti per essere stati incarcerati per qualche ora dalle forze dell’ordine.
Il 7 marzo 1920 a Siena, in occasione dell’inaugurazione del vessillo dei Combattenti e Reduci, mentre il corteo sfilava in Via Pianigiani viene assalita per la prima volta da parte di fascisti e reduci la Casa del Popolo, e nel pomeriggio, al Teatro della Lizza, si tenne un comizio organizzato dall’associazione Combattenti con la partecipazione dell’oratore on. Gino Sarrocchi, padrone di Passeggeri ed ex combattente; egli parlò dei giusti diritti dei reduci.
Coll’affermazione piena della dittatura, dopo la Marcia su Roma del 28 ottobre, che vide sfilare il 30 ottobre anche una legione di 2000 senesi, giunti il 29, nelle nostre campagne regnò la pace. I contadini parteciparono senz’altro alla mussoliniana “Battaglia del grano” e, a parere di Bruno Sestini, ognuno tirò a campare: “I contadini vennero lasciati stare, non c'erano grandi obblighi... non che non ci sia stata partecipazione... non c'erano riunioni”. I militanti socialisti o comunisti come Adriano Socci e altri si chiusero nel silenzio, attendendo tempi migliori.
Ma, come tutti sappiamo, l'adesione al fascio divenne quasi obbligatoria per chiunque, nonchè indispensabile per i lavoratori di tutte le categorie se volevano lavorare; così il rammentato Adriano, se voleva continuare a lavorare in miniera, o il mi' nonno Egisto Rossi, se voleva trovare lavoro nelle fattorie, dovettero prendere la tessera del sindacato fascista. Il mi' nonno ebbe la n° 18862 della “Confederazione Nazionale Sindacati Fascisti Agricoltura” del Sindacato “Braccianti” (era data alle seguenti categorie agricole: “Coloni o Mezzadri, Salariati o Braccianti o Maestranze boschive e specializzate, o piccoli affittuari”. Sul retro era riportato una inequivocabile norma:
“R. D. 29 marzo 1928, art. 14 E' vietato ai datori di lavoro di assumere lavoratori disoccupati non iscritti all'Uffici di Collocamento. Ad essi è data facoltà di scelta nell'ambito degli iscritti con preferenza a coloro che appartengono al P. N. F., ai Sindacati Fascisti e ai Combattenti. I lavoratori appena disoccupati, devono iscriversi all'Ufficio collocamento della propria residenza, competenti per categoria professionale.
R.D. 9 dicembre 1929 n° 23?3 Art. 4 Il lavoratore disoccupato che non assume servizio per il tramite degli Uffici di Collocamento è punito coll'ammenda sino a L. 300. Il lavoratore disoccupato che non sia iscritto presso gli uffici di Collocamento è punito con l'ammenda sino a L. 200”.
Quella che doveva essere facoltà di scelta dei collocatori divenne subito un obbligo e di conseguenza chi non era iscritto non lavorava. Nel rinnovare la tessera del 1933 il mi’ nonno spese 6 lire, metà giornata di lavoro, e la firmò il fiduciario del momento Bandini Giovanni.
Sul piano puramente politico, mentre in provincia si contavano numerose spedizioni punitive e di rappresaglia tra fascisti e socialisti negli anni 1920/23, a Quercegrossa si rammenta soltanto l’azione squadrista del 1923 da parte di fascisti provenienti dai paesi vicini, tra i quali il Focardi delle Badesse, che fecero irruzione nello stanzino della posta per smascherare il Solventi, noto dissidente, nella famosa storia delle lettere dal fronte mai consegnate (vedi Posta).
Il primo concreto atto del fascio di Quercegrossa fu la realizzazione nel 1929/30 del “Dopolavoro”, ossia di quell’edificio costruito nelle terre del Castello proprio all’uscita del paese. Nati per volontà del Duce, che li volle in ogni paese con precisi fini politici e sindacali di aggregazione, i “Dopolavoro” sorsero un po’ dappertutto.
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La foto ricordo di Anna e Albana Tacconi ci mostra la scritta “Credere obbedire combattere” dipinta sulla facciata del Dopolavoro di Quercegrossa.
Il 13 gennaio 1929, a seguito di precedenti accordi e volontà comune, alcuni uomini di Quercegrossa si ritrovarono dal notaio Soldateschi con la signora Teresa Cerpi, padrona del Castello, per stendere il contratto di compravendita di un piccolo appezzamento di terra di 387 mq per costruirvi un edificio da destinarsi a circolo Dopolavoro.

Al prezzo di lire Mille, interamente versate alla sig.ra Cerpi davanti allo stesso notaio, la proprietà del terreno venne divisa in nove quote e furono acquirenti per 2/9 ciascuno: Vienni Giuseppe, Mori Raffaello e Porciani Alfredo, e per 1/9 ciascuno: Tacconi Pietro, Rossi Brunetto e Masti Angiolo. Tutti si impegnarono a edificare un fabbricato a un piano e cinque stanze, ripartendo le spese secondo le quote di acquisto.
Il successivo atto notarile dell’8 novembre 1938 riguarda la cessione che il Vienni fece delle sue due quote. Come stabilito le offrì ai suindicati soci, ma non sappiamo da chi furono rilevate. Da segnalare l’importante incarico che Giuseppe Vienni ebbe per molti anni al Comune di Monteriggioni, diventandone poi podestà dal 1931 al 1934, con benefici effetti sul nostro paese per il quale fece fare l’illuminazione pubblica e sistemare la strada dei Selvolini per Lornano.
La scritta sulla parete nord: “L’Italia avrà il suo grande posto nel mondo”
Agli anni seguenti una legge del 1932, o nello stesso anno, dovrebbe risalire la costituzione della Sottosezione di Quercegrossa, dipendente dal Fascio di Siena. Da quel momento, e con il crescendo dell’organizzazione nazionale fascista, l’attività politica, ma più che altro ricreativa, si fece intensa.
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La carta intestata a uso della Sottosezione fascista di Quercegrossa
Dopo l’Impero (1936), le iniziative e la partecipazione divennero numerose coinvolgendo tutta la popolazione, e fino alla guerra fu il miglior periodo “fascista” della Sottosezione di Quercegrossa. Risalgono a questi anni i ricordi di un indimenticato ordine sociale portatore di sicurezza: “quando si teneva la chiave nella porta”, “e quando incontravi i carabinieri la notte ti chiedevano chi eri, cosa facevi e dove andavi”, e di coesione paesana.
Al comando della Sottosezione si alternarono noti personaggi del paese, e altri si assunsero le cariche di responsabili dei vari gruppi. Come “Fiduciario” (così era chiamato il capo di una Sottosezione) si ebbero Bandini Giovanni, Mori Elio, Castagnini Corrado e Orfeo Mencherini; responsabile Donne fasciste: Anita Rossi (la moglie di Brunetto); segretario Giovani fascisti: Lorenzo Bianciardi; responsabile Giovani italiane: una Vigni.
I fiduciari vestivano impettiti la divisa nera con fez, fasci dorati sul colletto, cinturone e stivali. Il mi’ babbo, che era stato uno dei fiduciari della sezione, rammentava spesso che da Roma arrivavano telegrammi “top secret” di contenuto poliziesco che ingiungevano di controllare tizio o caio noti sovversivi, ma che lui e gli altri non avevano mai preso in considerazione e nessuna azione repressiva venne mai intrapresa contro qualcuno.
Nell’indirizzo preso dal Partito di dare agli italiani più possibilità di tipo vacanziero rientravano le colonie marine, istituite per i ragazzi italiani. Di Quercia, dove si era stabilito da pochi giorni, ne beneficiò Silvano Socci nel 1934, all’età di nove anni. Un giorno arrivò una lettera con l’invito e trascorse un mese in colonia a Marina di Massa, una colonia estiva per bambini poveri con 750 posti “per la sanità fisica e morale dei giovani”. Quando ritornò in paese: “Un mese al sole marino, tinse la mia pelle tanto che la gente di Quercegrossa non avendomi ancora conosciuto diceva: “Ma chi è quel ragazzino nero”.
Nel giugno 1935, Mussolini istituisce il “Sabato fascista”: una giornata dedicata alla preparazione politica e soprattutto militare del popolo italiano. La giornata lavorativa terminava alle ore 13, e allora tutte le organizzazioni del G. I. L. si mobilitavano per un pomeriggio di marce e istruzioni.
Gli italiani erano inquadrati secondo l’età: a sei anni entravi a far parte dei Figli della Lupa, maschi e femmine, poi un giovane diveniva Balilla a 8 anni, Avanguardista a 14, Giovane fascista a 18 per entrare poi a 20 anni nel Partito Nazionale Fascista. Una giovane invece diventava Piccola italiana a 8 anni, Giovane italiana a 14, Giovane fascista a 18, ed entrava poi nei Fasci femminili; in campagna si avevano le famose “Massaie rurali”.
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Due massaie rurali Losi Maria e Argia Manganelli fotografate col fazzoletto al collo, la loro divisa, intente al loro lavoro. Così si usava riprendere le massaie rurali. Sotto la ricevuta rilasciata per la consegna della fede.

Ognuna di queste categorie aveva la sua divisa da indossare il sabato e nelle manifestazioni del regime. La mattina del sabato nella scuola di Quercegrossa gli allievi e allieve occupavano il tempo in lavori utili e formativi, poi nel pomeriggio tutti nella via principale con le divise, e adunata al Dopolavoro. Da dire che alcuni l’apprezzavano come momento di socializzazione e divertimento, altri le ritenevano solo una noiosa perdita di tempo. Sfilavano per il paese inquadrati alla meglio, passeggiando e cantando. Le ragazze cantavano: “Siam le piccole italiane, siam le donne di domani...”, e i maschi rispondevano: “Fischia il sasso, il nome squilla ... e l’intrepido Balilla”. Vanda Castagnini era una giovane italiana. Vestiva una blusa bianca con una sottanina nera e le esercitazioni e marce proprio non le sopportava.
Nel 1935, a seguito delle notizie di guerra provenienti dall’Etiopia, fu fatto un fantoccio che rappresentava il Negus e gli fu dato fuoco. Un codazzo di giovani festanti al canto di “Faccetta nera” lo trascinò per il paese, ma “fu una ragazzata”. La reazione delle democrazie occidentali all’attacco italiano fu deciso, e la Società delle Nazioni l’11 ottobre 1935 condannava l’Italia per l’aggressione all’Etiopia e decideva di applicare all’Italia le “sanzioni economiche”. La risposta del paese, grazie alla propaganda, fu di unanime solidarietà al Partito e a Mussolini giungendo a promuovere la donazione di oro e argento alla Patria.
Il 18 dicembre 1935, nella “Giornata della Fede”, si raccolsero nelle sezioni fasciste di tutta Italia, e in cerimonie pubbliche volutamente propagandistiche, gli anelli matrimoniali, e poche donne si sottrassero a questo duro sacrificio che le privava del loro più sentito simbolo coniugale. La regina Elena diede il suo esempio, mentre l’arcivescovo di Siena, Toccabelli, donò una croce d’oro. La fede veniva sostituita con un insignificante anellino di latta e una ricevuta attestava la donazione. Tra le eccezioni ce ne fu una anche a Quercegrossa. Nella Candiani del Poderino escogitò astutamente un piccolo imbroglio per salvare la sua fede come ci narra la figlia Marisa: “Quando venne l'invito a donare la fede alla patria le donne si preoccuparono perché ci tenevano e la mia mamma che era un punto di riferimento venne consultata: “Ma te che fai? Ma ora vedo, ci devo pensare”. Aveva un altro piccolo anellino d'oro con una piccola pietra senza valore che lei staccò e si presentò alla consegna portandogli quello: "Ho questo gli disse", “Siamo poveri!”. Gli diedero la fede alternativa che era in ferro. Tutti videro questa fede di latta, ma non poteva raccontare la storia vera e quando dopoguerra la rividero con la fede d'oro autentica successe il finimondo con quelle donne, e lei gli spiegò che non poteva dirglielo allora”.
Giorni di festa furono il 6, 7 e 8 maggio 1936, quando, per celebrare la presa di Addis Abeba e la proclamazione dell’Impero il 9 maggio, Mussolini volle l’Italia imbandierata del tricolore e molte bandiere si videro sventolare a Quercia. Nella Sottosezione si riunirono tutti i capi in divisa d’orbace: il Mencherini, il mi’ babbo, Brunetto, Annita ecc., e non mancarono discorsi e adunata generale. La sera fu data una grande festa da ballo e in questa occasione la sig.na Anna Mosca offrì un grande quadro di 1,50 di h, a olio, con un legionario che con un braccio indicava l'oriente e con l'altro abbracciava la mamma in piena corrispondenza con la retorica coloniale fascista. Questo quadro rimase attaccato sulla parte per alcuni anni poi, quando cadde il fascio, sparì, e non si è più visto.
Tra le molte iniziative intraprese dalla Sottosezione è ricordata la “Befana fascista” con consegna di pacchetti con caramelle e cavallucci ai bambini. Ancora un ricordo di Marisa Candiani ci fa scoprire alcuni particolari interessanti: “Ci chiamarono una domenica mattina per le 10 (del 1937). Si partì dal Poderino e mi accompagnò il mi' babbo. Entrai al Dopolavoro, mentre il babbo andò alla bottega (della politica non gli importava niente). La sala era piena di gente, uomini e donne in divisa e c'erano anche i capi con Annita. Chiamavano i ragazzi e chiamarono anche Marisa Candiani. Il Castagnini Corrado mi consegnò un pacco contenente stoffa bianca e nera per cucire la divisa di piccola italiana, anche se a me piaceva quelle delle giovani italiane perchè avevano la cravatta. Le divise di Quercia le aveva cucite tutte Annita, la moglie di Brunetto”.
Il Dopolavoro di Quercegrossa, per il quale tutti pagavano la tessera, con le sue serate da ballo divenne un centro frequentatissimo (vedi Ballo) e al ballo si aggiunsero la rappresentazione di Commedie “un paio di volte all’anno”, con attori del paese sotto la regia di Annita e Brunetto, e proiezioni cinematografiche. Si organizzarono feste paesane come quella dell’uva e gite popolari: la prima con meta Livorno e il Santuario di Montenero. Il circolo fin dalla sua nascita apriva tutte le sere al gioco delle carte e alla ricreazione. Inoltre, fu attivato subito il bar con la gestione dei Brogi della Bottega che perdurò fino al 1935/36 circa, quando passò a Gina del Tognazzi e poi a Mario Rossi che lo tenne fino alla sua chiusura nel 1944, al passaggio del fronte. Il gestore Mario Rossi, aiutato dal fratello Nello e dalla sorella Gina, la quale apriva quando Mario non poteva, faceva il caffè in casa e lo imbottigliava. Poi al circolo lo riscaldava con un fornellino tondo a gasolio.
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Festa dell'uva a Quercegrossa nel 1940 con il capo del fascio locale Orfeo Mencherini in alta montura, e don Luigi Grandi. Sul carro adornato di tralci fa capolino la giovane Iolanda Riversi.
Altri ricordi ci parlano dei discorsi annunciati di Mussolini e ascoltati con grande attenzione ed emozione nella bottega del Brogi. La gente arrivava da diversi luoghi e “Quando c’era il comunicato bisognava levarsi il cappello”, oppure: “Durante la guerra al comunicato ufficiale delle forze armate detto il "bollettino" ci si alzava in piedi, ma non sempre, solo se c'era qualcuno di fuori”.
In parrocchia don Luigi non aveva preso posizione nè pro nè contro e accontentava tutti. Le ragazze di Quercia si recavano dal prete di Basciano che all’armonium insegnava loro a cantare i numerosi canti fascisti. La zia Piera rammenta le allegre serate davanti alla Privativa, sedute sul basso murellino a cantare in coro le canzoni di Mussolini che piacevano tanto alla sora Emilia, fervente fascista, che poi gli riempiva le tasche di caramelle. Si viveva un clima euforico, ma c’erano dei segnali poco belli che facevano pensare in privato, nonostante il regime coll’imbavagliamento della stampa tendesse a nascondere tutto quello che era di brutto nel paese e al contrario mettere il risalto le conquiste sociali, le grandi opere, la tecnologia italiana e le varie imprese, tantochè doveva apparire un’epoca di grande progresso e di pace sociale.
A Quercegrossa, come altrove, si commemoravano le date fasciste e i caduti della Prima guerra e un anno: “Per una commemorazione ai caduti, i giovani Spartaco Carletti e Dino Carli al momento della deposizione della corona tenevano un comportamento poco serio e ricevettero uno scapaccione dal fiduciario”. La mancanza di rispetto ai simboli fascisti era vista come un oltraggio. Il Masiero del Castellare si ritrovò un giorno a Siena al passaggio di un corteo fascista e del gagliardetto. Non si levò il cappello come avrebbe dovuto. Ci pensò a ricordarglielo una camicia nera con uno sciaventolone che glielo fece volare dentro un portone, e si buscò un cazzotto in piena faccia che lo distese.
Una categoria di italiani, quella dei pinzi, venne presa di mira dal regime che predicava famiglie numerose, imponendo una salata tassa a tutti gli uomini non sposati con età superiore ai 25 anni, detta “tassa sul celibato”. Nel 1936 aveva i seguenti importi: £ 115 dai 25 a 30 anni; £ 55 dai 31 ai 55; £ 85 dai 56 ai 65 anni.
Con la guerra, e le partenze dei soldati, al Dopolavoro si sospesero gradualmente feste e balli mantenendo l’apertura serale.
Continuò l’attività politica della Sottosezione, che nel 1940, all’entrata in guerra, organizzò la raccolta del rame e del ferro, come in tutto il resto d’Italia, per affrontare le necessità belliche del paese. In casa Mori avevano tante pentole e tegami di rame e "diedero tutto a Mussolini". Le tenevano nel corridoio che portava alle camere, agganciate ad una tavola a muro chiamata "attaccarami" con dei ganci per i tegami. Oltre la soddisfazione di aver contribuito per la patria ci fu la contentezza delle cognate Mori, felici di liberarsi di tante stoviglie da lucidare spesso. Alcune famiglie prese dall’euforia nazionalista consegnarono perfino la brocca di rame di casa. Per il ferro i Mori donarono una vecchia treggia di auto.
Si nota, in una foto di questo volume, il fattore Vannini alla chiesa di Quercegrossa che prende con la macchina l’arcivescovo Toccabelli e lo porta a Passeggeri. Lì giunse accolto da tutti i contadini e dal Sarrocchi e il piccolo balilla Pierugo Buti, rivestito di una impeccabile divisa, gli porse il benvenuto con le solite parole di circostanza, offrendogli un mazzo di fiori. La scena venne fotografata, ma col cambiamento politico la foto venne fatta sparire in casa Buti “perchè non si sa mai”, e così sparirono tutte le divise in tutte le famiglie. Tanti fecero come Pasquale, lo zio di Pierugo: “Spaccò tutti i dischi dei canti fascisti, tipo Faccetta nera ecc.”.
Durante la guerra, in casa Buti, ovvero alla bottega, come in tutti i luoghi pubblici, secondo gli ordini, era stata "bollata la radio", per non sentire radio Londra e altre sovversive voci dall'etere. “Sigillavano con un filino piombato il movimento della manopola per cercare le stazioni, ma noi aprendo la radio dal dietro si spostava manualmente il variometro che sintonizzava le stazioni. Elio Mori veniva nottetempo, come un cospiratore, ad ascoltare Radio Londra”. Pa, pa, paa, pann, le note della Quinta di Beethoven aprivano giornalmente le trasmissioni di Radio Londra ed era l’unica voce per conoscere la verità sull’andamento della guerra.
Nel 1942, l’avanguardista Silvano Socci viene segnalato come giovane in gamba e adatto a svolgere mansioni di istruttore. E’ quindi inviato a Forlimpopoli per un periodo di tre mesi dove frequenta un corso allievi sottufficiali incentrato sui primi insegnamenti per l’approccio e la conoscenza del servizio civico e militare, con tanta ginnastica ed esercitazione col moschetto. Al suo ritorno è un Cadetto e viene incaricato di tenere istruzioni pre militari alle Badesse ai giovani in procinto di essere arruolati, ma durò poco meno di un anno perchè tutto questo mondo fatto di divise, parate, istruzioni e saluti alla romana sarebbe presto crollato.
Era la fine, infatti, e anche la Sottosezione di Quercegrossa chiuse i battenti il 25 luglio 1943 alla caduta di Mussolini, e quello stesso giorno il Pratellesi Pietro, che forse era il fiduciario del momento, chiamo i suoi contadini al Castello e gli ordino: “Prendete e andate a coprire quella merda...". C'era la scritta sulla facciata “Credere Obbedire Combattere”.
Da noi a Quercia tutto finì in una bolla di sapone, e con l’avvento dei partiti che si stavano riorganizzando ognuno prese la propria strada politica, e per concludere dirò che se a Quercegrossa non c’erano state prepotenze durante il Ventennio così non ce ne furono al momento del trapasso. Molti anni dopo si rammentava di quei tristi mesi soltanto che "Il Menicucci era guardia comunale a Monteriggioni ed era responsabile del fascio del Comune di Monteriggioni: Fu ammazzato dopo i fatti di Montemaggio. Aveva detto: “Oggi s’è preso diciannove colombi”, ammiccando ai diciannove partigiani fucilati dai miliziani”. Ascoltando ancor oggi certi commenti appare chiaro che rimase in alcuni una velata nostalgia per quei tempi di ordine sociale e quieto vivere. Non tanto per un rimpianto del partito unico, rinnegato poi da tutti o quasi tutti, quanto per il confronto con i burrascosi anni del dopoguerra, anni di lotte politiche, di scioperi e discordie, che in aggiunta alle perduranti ristrettezze economiche generalizzate, fecero dire: “Si stava meglio, quando si stava peggio”.
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