Anton Maria Lucchi (1700-1739)
Anton Maria Lucchi, prete di Siena, figlio di Pietro del popolo di S. Desiderio, resse la parrocchia di Quercegrossa per ben trentanove anni. La sua gestione parrocchiale sembra improntata a un certo affarismo agricolo tipico dei preti del Settecento, comunque dovrebbe aver dedicato alla cura delle anime il necessario zelo. La visita agli archivi parrocchiali, ordinata dall'Arcivescovo Alessandro Chigi Zondadari, mostra i registri e le vacchette delle messe diligentemente tenuti e ben annotati anche se richiede una maggior precisione per il libro dei morti. Le registrazioni sono fatte in latino e i registri anagrafici della sua gestione si conservano tutti. La stessa sua biblioteca comprendente libri di pensiero e manuali religiosi ce lo fanno porre su un piano culturale superiore alla media. Sotto il suo mandato la parrocchia acquisì la giurisdizione sul podere delle Gallozzole in cambio della Cappannetta nell'anno 1721.
I lunghi anni trascorsi a Quercegrossa e nei poderi del beneficio, che cercò sempre di migliorare, gli fecero amare i nostri posti e le famiglie tanto da lasciare parte dei suoi beni alla parrocchia e volle essere sepolto nella chiesa dove tante volte aveva celebrato. La sua fede sincera trova riscontro nel testamento e non si tratta delle solite formule:
"Primieramente raccomanda umilmente e divotamente l'anima sua all'Onnipotente Iddio, alla gloriosa Vergine Madre Maria, all'angiolo suo custode, a tutti i Santi e Beati del Paradiso". Dai documenti a lui relativi traspare lo scrupolo col quale espletava le sue mansioni, e quando l’Arcivescovo, nel 1705, ordinò la pubblicazione (lettura)
“fra le solennità della messa”, dell'editto sul rispetto nelle chiese, egli fa tutto quanto richiesto e relaziona di aver provveduto alla presenza di testimoni dei quali elenca i nomi.
Ma il più grande obiettivo sembra rivolto al consolidamento e accrescimento dei beni parrocchiali che lo vedrà impegnato per tutto il suo mandato. Nel 1707 chiede l'autorizzazione a costruire una capanna al podere delle Redi, finanziando i lavori con la vendita di due pezzi di terra della parrocchia situati vicino a Petroio e al confine delle Racole, da lui stesso recuperati l'anno precedente togliendoli o pagandoli agli illegittimi proprietari. Nella detta richiesta informa che le terre da vendere sono lontanissime e che
"la cappanna e altri risarcimenti sono necessarissimi" e non può farla con i proventi del beneficio. Il perito incaricato valuta i due pezzi di terra del valori di 46 scudi, ma di poca rendita annua. Per la cappanna
"fa fede che è necessaria perché non cì è commodità di salvar la paglia se non poca che si ripone in una stanza la quale stanza è sotto il granaro che per essere contigua all'altre dove si passa con il lume e cosa molto pericolosa; oltre che la paglia facilmente fa riscaldare il grano che sta nella stanza di sopra, e ancora necessaria la detta capanna perchè non si puole fare il pagliaio essendo detto luogo in sito molto eminente e dominato da venti che quando è stato fatto è ito male da' venti. E parimenti è necessario rifarsi il forno perchè è aperto in più luoghi come anco il risarcimento d'una muraglia che è molto pericolosa". Con il nulla osta della Curia don Lucchi potè risarcire il forno e costruire la capanna. I lavori affidati ad Anton Francesco Rovai, muratore di Vagliagli, richiesero la spesa di 426 lire e 10 soldi, di cui 80 lire al maestro, 70 lire per i vetturali per il trasporto materiali, 60 lire di calcina e altre 60 di sterro per i fondamenti e sassi, infine 18 lire per portare i sassi. Furono messe tre travi per 30 lire e 360 tegole per 43.10 lire, mentre i docci furono 430 per 21 lire. Nell'anno 1718 supplica ancora di essere autorizzato ad abbattere tre quercie
"volendo ridurre detto legname ad uso di strettoio e parte per terminare uno sprangato e per far colonne per le viti della chiesa". Pure questa richiesta venne acconsentita. Si arriva così a quel 1723, quando il parroco decide di costruire ex novo un podere sulle terre chiamate "Il Termine", spettanti alla chiesa di Petroio, confinanti con la strada principale per Fonterutoli e Fiorenza con le Gallozzole e le terre del Mulino. Si tratta dell'attuale Poderino, ma allora veniva chiamato Bello Stento. Per finanziare l'impresa il parroco si muove per ottenere un prestito e indica chiaramente il capitale dal quale attingere: denaro vincolato alla Chiesa di Cellole, ma tenuto nella cassa dalla Congregazione di S. Pietro in Duomo. L'Arcivescovo, valutate le rendite parrocchiali, chiede la consulenza del pievano di Lornano, il quale:
"visitato e considerato le terre sodive di circa 80 staia (c.a 9 ettari), ma sono 50 staia nell'inventario del 1721 (6 ettari), mi pare evidentemente che siano capaci di esser coltivate e che se ne possa cavare competente frutto in caso si faccia sufficiente casa per allogarle a mezzeria conforme la richiesta del rettore di Quercia Grossa". Il parere favorevole porta il Vescovo a concedere il nulla osta per i richiesti 65 scudi, da restituire con un annuo censo di 14 lire o due scudi, per cui occorreranno trent'anni per estinguere il debito. Ma la somma ottenuta copriva soltanto il 50% delle spese che in tutto, compresa la sistemazione dell'area, assommarono a 977 lire delle quali 647 lire per la struttura dell'edificio con tetto di quattro travi costruito dal muratore Giuseppe Minucci di Radda, e 330 lire per le fosse di impianto delle viti (150 lire) e di una fossa a siepe per la recinzione di detti beni (180 lire). Il pagamento del debito, fatto in maniera discontinua e per questo aumentato a tre scudi annui nel 1733, si trascinò oltre la vita di don Lucchi e l'ultimo saldo venne eseguito dal successore don Picconi nel 1756.
Il sessantenne parroco attese fino all'ultimo alla cura dei suoi poderi, perché ancora nel 1736 a tre anni dalla morte era a esporre al Vescovo sulla necessità di tirare avanti le colture cominciate dieci anni prima, e per questo aveva bisogno di abbattere querci e quercioli sparsi per nuove terre e ancora di abbattere
"altre venti quercette in due altri pezzi di terra che per essere troppo spesse con l'ombra loro danneggerebbero le semente". Le querci considerate sono in tutto quaranta, e perché la chiesa non vi scapiti si obbliga a piantare oltre alle viti nel suddetto terreno 60 ulivi. Positiva la solita consulenza del pievano di Lornano che approva la bontà dell'iniziativa e della piantagione di nuovi olivi
"che già in buona perfezione tiene in una olivaia", al lato di quel medesimo campo.
Inoltre, l'inventario parrocchiale del 1721 ascrive a don Lucchi il merito di aver ridato alla parrocchia una certezza nel possesso di sette pezzi di terra sparsi qua e là, in affitto o incolti, rimanenze degli antichi beni della chiesa di Petroio.
In tutti quegli anni amministrò da buon padrone anche il podere della Buca di Siena, del quale ci ha lasciato un'ampia documentazione fatta di ricevute di lavori a muratura e acquisti di attrezzi a dimostrazione delle migliorie apportate alla casa e alle coltivazioni. La coltivazione del grano nel podere la Buca nel 1702 fruttò 57 staia di raccolto paria circa 12 quintali di grano; tolto il seme rimasero di sua parte a don Lucchi 5 ql. Tra i tanti conti spiccano i lavori effettuati a Quercegrossa con notevole spesa di centinaia di lire per calcina, gesso, opere di muratori, manovali e numerosi trasporti di rena e acqua ad opera dell'oste di Quercegrossa Marco Staterini da ricondursi a restauri della chiesa e trasformazione degli ambienti della canonica.
E così, dopo aver portato avanti la sua missione di parroco e accresciuti i beni e le rendite della parrocchia, don Antonio Lucchi giunse alla fine dei suoi giorni all'età di circa 65 anni. La malattia lo costrinse a letto e sentì avvicinarsi la morte. Allora volle mettere ordine nei suoi affari e diede disposizioni per i suoi beni. In
"difetto del notaio pubblico, convocati sei testimoni, sano di mente e di tutti i sentimenti benchè infermo di corpo non volendo partire da questa vita senza disporre di sé e delle sue cose", dettò le sue ultime volontà a don Giovanni Antonio Tognarelli, vice parroco di S. Leonino. Dopo la raccomandazione ricordata in apertura della sua biografia, diede ordini per il funerale ed elesse per sua sepoltura
"nella sua chiesa di Querciagrossa nel loco dove si seppelliscono i sacerdoti e vuole al suo mortorio dodici sacerdoti a quali sia dato due lire e due falcole per ciascuno, vuole che le falcole in chiesa siano accese agli altari e alla bara, candele di mezza libbra l'una". Per ragioni di legato lascia alla sua serva Maria Teresa Gosi un letto con sue banche con saccone nuovo, una matarazza, due paia di lenzuola grosse, due coperte, una di lana grossa e una di bambagiata. La medesima non deve pretendere altro per suo salario per tutto il tempo che è stata a servizio. Gli lascia anche un telaio con i suoi finimente, ma se il Sig. Masini, proprietario del legno, lo rivolesse, costui deve dare 40 lire a Maria Teresa. Per ragioni di legato e carità lascia a M. Lisabetta Paolini un paio di lenzuola grosse. Dichiara di essere debitore di 170 scudi verso suo nipote uterino Lorenzo Belli, e per questo gli lascia tutti i suoi crediti e beni di bestiami, mobili e immobili fino a raggiungere la detta somma. Di tutto quello che avanzerà nomina suo erede universale la chiesa di Quercegrossa ed elegge per suoi esecutori testamentari il Molto Reverendo Sig. Giovanni Maria Baroni, pievano di Lornano, e don Domenico Bruni, pievano di S. Leonino.
Due giorni dopo, il 6 dicembre 1739 finì la sua agonia:
"dopo aver ricevuti tutti i SS. Sacramenti, e da me sino all'ultimo assistito circa le ore cinque è passato da questa all'altra vita".
Don Tognarelli informa immediatamente la Curia dell'avvenuto decesso e del testamento fatto da don Lucchi e chiede il permesso di rompere il pavimento della chiesa per seppellirvi il defunto, come da suo desiderio. La roba del defunto rettore venne in buona parte acquistata subito da diversi compratori, e la rimanenza per volere del nipote Belli venne trasportata in Curia e messa a disposizione del Vicario: fattala stimare, risultò di valore di lire 382.
L'inventario completo dei suoi beni personali ci permette di ricostruire la sua cameretta nella quale vediamo un semplice letto con materasso e cuscino, senza colonnette né baldacchino, con una cassetta di legno dietro al capezzale, un tavolino di noce con sopra uno scannello di noce con suo gradino, ossia un mobiletto quadrato da tenere sopra la scrivania per conservarvi documenti e tenervi penna e calamaio, due sedie da camera antiche, due sedie con braccialetti antiche e tre sedie di stiancia di poco valore. Vi è un altarino con dieci immagini di carta pecora. Se la camera appare poco adorna di mobilia anche gli svariati oggetti sistemati probabilmente lungo le pareti o attaccati con chiodi al muro non riescono a riempirla. La ventina di libri a soggetto religioso e scientifico e altri libercoli devono essere posti in mensole a muro. La biblioteca del curato comprende testi scientifici, poetici e di spiritualità, alcuni di grande diffusione come “La sfera del mondo” di Alessandro Piccolomini, libro di scienze astronomiche pubblicato nel 1579, “Agricoltura” di Agostino Gallo, "La metamorfosi lirica di Orazio" del Mattei, testo di poesie pubblicato nel 1672, la prima parte delle orazioni e meditazioni del Granata. I testi di spiritualità e manuali religiosi sono ben presenti: L'esposizione del Miserere, “Delizie spirituali” di S. Geltrude, Il tomo terzo del “Trattato dell'amor di Dio” di Francesco di Sales, “Introduzione alla vita devota”, “Catechismo in pratica”, “La dottrina del Bellarmino”, “Il parocho istruito”, “Il catechismo romano” ecc. Tra gli oggetti rammentati troviamo un mortaio di pietra nera, un parasole verde, cioè un ombrello, un cannone di latta senza calamaro, due schioppi con acciarino alla fiorentina, un cannocchiale piccolo di latta a tre cannelli, una secchietta di lamiera d'ottone, un candeliere d'ottone, una lanternina d'ottone all'antica, una canna d'india con pomo. Dentro lo scannello descritto: uno scatolino con dentro Gesù Bambino; alcuni Agnus Dei antichi, forse di cera; una catenella di ottone di circa un braccio e mezzo (90 cm.); una panierina di vinchi con due cucchiai e due forchette a quattro punte d'argento; un lucchettino guasto senza chiave; una corona nera; un vezzino di sedici coralli; un annestatoio; un paro di tenaglie; uno scarpello; una seghetta da innestare; un coltello a petto; una zeppa di ferro per squartare la legna. Questa descritta è solo una minima parte della “robba” del rettore e per la sua elencazione occorsero circa undici pagine a 30 voci ciascuna. Vi si comprendeva un po' di tutto, distribuito nella camera della serva, in altra camera, in cucina, rami, filatura, dispensa ecc. e tutto era disponibile per i creditori fattisi subito avanti. Tra di essi risultava anche il sellaio con diciotto riparazioni in 17 anni. Tra acquisti di sella, accomodatura di cigne e bardelle don Lucchi aveva speso 69 lire e 10 soldi pagate quasi del tutto con contanti, vino e grano, rimanendo soltanto lire 19 a debito. Si fece avanti anche il bottaio con un credito di lire 23 risultante dalla fattura di una botte, cerchi di metallo e 300 pali da viti per il podere di Pescaia. Fu allegato un altro anonimo conticino di 32 lire per spese varie comprendenti una risolatura di scarpe della serva a lire 1.13.4, per semola data al mezzaiolo lire 1, per lire 28 dati in conto al curato e 1.6.9 lire per il vetturale che condusse il dottore il 30 novembre. Liquidati anche tutti i conti minori relativi ai lavori al tempio e alla canonica.
Saldati tutti, compreso il nipote che si ritenne roba per 95 scudi, ossia due schioppi, un anellino d'oro, mobili e argenteria, molta roba rimase in parrocchia acquistata dal nuovo rettore, e qualcosa forse rimase come donativo alla chiesa di Quercegrossa, ma ciò non diminuì il generoso atto di don Lucchi verso la piccola cura che contava allora 165 abitanti.
Silvestro Picconi (1740-1768)
Il 1 febbraio 1739 con decreto emanato dall'arcivescovo Alessandro Chigi Zondadari veniva nominato parroco della chiesa dei SS. Giacomo e Niccolò a Quercegrossa don Silvestro Picconi, prete senese. Egli infatti è stato ordinato a Siena nel 1735, ma non è senese di nascita perché la sua venuta nella nostra città risale a pochi anni prima essendo nativo di Roma da una famiglia dimorante nella parrocchia di S. Ivo, come lui stesso dichiara in un processetto matrimoniale relativo al fratello Girolamo. Il padre Francesco Antonio è già morto, quando i figli emigrano a Siena nel 1719 con Silvestro di 11 anni, nato quindi nel 1708. Residenti nella cura di S. Desiderio dapprima e poi in S. Maurizio i fratelli di Silvestro sono probabilmente artigiani orafi e la partenza di Girolamo per Genova deve essere legata alla loro attività. Claudio ha una bottega in Siena e anche Austino, che si professa maestro di spada, a tempo perso lavora l'argento. Silvestro, invece, scegli un'altra strada che lo porterà, come detto, a Quercegrossa dove farà il suo ingresso il 4 febbraio 1740. Nel giorno festivo della Purificazione, l'attuario di Curia Sebastiano Tattarini alla presenza di testimoni e del popolo intervenuto, seguendo la procedura
"di tutte le cose solite praticarsi in simili possessi", consegnò la parrocchia nelle sue mani. Anche don Silvestro era dovuto passare sotto l'esame della Curia per entrare in possesso della parrocchia. Il concorso indetto il 6 dicembre 1739, tre giorni dopo la morte di don Lucchi, con dieci giorni di tempo per presentare le candidature, vide la partecipazione di nove sacerdoti, e fra i quattro che diedero tre risposte positive su tre come don Panzini, don Sguazzini e don Bellugi, fu scelto don Picconi. Quanto sia stato imparziale il concorso è messo dubbio dal fatto che don Picconi essendo stato nominato economo spirituale alla data del decreto, cioè il 6 dicembre, si sia affrettato a prenotare molta roba del defunto rettore che non venne portata a Siena, quasi avesse la certezza di rimanere parroco a Quercegrossa. Comunque sia andata, don Picconi, in età di 32 anni guiderà la parrocchia per 29 anni a seguire.
Il 10 dicembre 1739 si recò a Quercegrossa dove prese in consegna 24 staia di grano e 11 some di vino come congrua del nuovo rettore e mandò in Curia un registro di morti e matrimoni, alcune scritture e bolle del defunto rettore, ritrovate in casa.
La lettera d’accompagnamento è tra i pochi documenti rimasti di don Picconi alla quale devono aggiungersi altri atti relativi al disbrigo di pendenze collegate all'eredità Lucchi che lui pazientemente cerca di risolvere. Dei lunghi anni di gestione parrocchiale di don Picconi rimane soltanto un inventario fatto da lui stesso in occasione del sinodo diocesano del 1758. Il suo contenuto ci conferma la cura con la quale ha arredato la sua chiesa dotandola di tante suppellettili e ciò ci persuade che le sue attenzioni fossero rivolte più ai beni spirituali che a quelli terreni, cessando così quell'affarismo che aveva coinvolto i suoi predecessori senza tuttavia trascurare gli interessi del beneficio parrocchiale da lui mantenuto intatto.
Quanto poco stimasse amministrare i poderi lo dimostra il contratto con Domenico Mecacci al quale diede in affitto il podere della Buca, dal 1 novembre 1748, per tre anni rinnovabili motivandolo con la distanza
"per la quale non puole assistere il podere" ma aggiungendo
"per altre giuste e ragionevoli cause moventi dall'animo suo". Ma con responsabilità vi spese lire 80 nel 1750 col muratore Giuseppe Viligiardi per restaurare una pericolante muraglia di casa con posa di una trave di 6 metri e per rifare l'impiantito dell'abitazione.
Ma l'avvenimento più sensazionale, senza paura di esagerare, avvenuto nella parrocchia di Quercegrossa per proposizione e merito di don Silvestro, si registrò con l'arrivo della Madonna pellegrina della Val di Merze. Un avvenimento eccezionale che coinvolse emotivamente il popolo in momenti di alta spiritualità e partecipazione liturgica con tanti benefici per tutti. La Madonna pellegrina detta della Val di Merze col suo innumerevole seguito di sacerdoti e popolo fece il suo ingresso trionfale nella Chiesa di Quercegrossa il 20 agosto 1758 proveniente da S. Fedele. Com'era usanza vi sarebbe rimasta un anno e per tutto quel periodo numerose cerimonie liturgiche e momenti di preghiera avrebbero scandito i tempi della sua permanenza e attirato il popolo di Quercegrossa e delle vicine parrocchie.
Il 4 gennaio 1768 un biglietto scritto da certo Angelo Guerri informava il Vicario generale Orazio Bandinelli della morte di don Picconi:
"Con questa mia gli dò aviso, come in questa notte all'ore 4 in circa è passato a miglior vita il Sig. don Silvestro Picconi curato di questa cura, e da me assistito fino all'ultimo suo spirito". Aveva governato la parrocchia per 28 anni e per essere ordinato sacerdote in quel sabato 19 giugno 1734, aveva dovuto ricorrere alla protezione di un Borghesi e al prestito 50 scudi
"per giungere al possedimento della Cappella e del sacerdozio", con la garanzia dei fratelli. Sabato 2 settembre del 1731 intraprendeva il cammino verso la consacrazione ricevendo, dopo la tonsura, gli ordini minori di ostiario, lettore, esorcista. Il 10 aprile 1734 era suddiacono e sabato 9 giugno diacono.
Sebastiano Borselli (1768-1799)
Al defunto don Picconi successe l’8 marzo 1768 un prete senese di 28 anni di nome Sebastiano Borselli e come i due precedenti rettori avrebbe tenuto la parrocchia per un lunghissimo tempo: 31 anni. Cessò poi di vivere alla vigilia di avvenimenti storici che per quindici anni avrebbero sconvolto l'Italia e la Chiesa facendo però in tempo a ricevere dalle mani del
"cittadino pievano" parroco di Monteriggioni, Vicario foraneo, una copia della “Costituzione francese” e relativa circolare come d'ordine tramite lettera riportante in alto le parole
"Libertà" e "Uguaglianza", e altra lettera sulle parole francesi per l'uso dei registri parrocchiali. Morì infatti il 29 agosto 1799, all'età di 60 anni, quando i francesi, dopo aver imposto le loro leggi, erano già stati ricacciati. Morì assistito dal vice parroco di Basciano Placido Lisi che descrisse così il suo trapasso:
"...alle ore nove di questa mattina, nella sua infermità premunito da me dei SS. Sacramenti Penitenza e Comunione il dì 24 e 26 detto e non premunito del Sacramento dell'Estrema unzione per esser morto inaspettatamente di una convulsione". Fu seppellito nella chiesa parrocchiale.
Purtroppo di questo parroco non esistono documenti che riguardino anche marginalmente la sua attività pastorale e amministrativa se si escludono alcuni resoconti economici del patrimonio della parrocchia e due inventari. Però possiamo farci una minima idea del suo essere parroco, quando in occasione della visita pastorale del 1774, il beneficio parrocchiale è detto
"trasandato e diventerà buono per l'assistenza del Sig. Borselli attuale parroco". La fiducia espressa dal Vicario ci fa pensare ad una persona capace, diligente e stimata in Curia. Per l'occasione compila anche l'elenco delle feste che si celebrano nella parrocchia e negli annessi.
In quegli anni del suo governo parrocchiale si assiste alla soppresione delle Compagnie laiche (1785) per iniziativa granducale e alle intromissioni dello stesso granduca Pietro Leopoldo II nella vita della Chiesa e delle parrocchie. Interventi riguardanti i redditi parrocchiali, le nuove disposizioni sulle decime (1783) e sull'amministrazione delle stesse, e persino sulla liturgia. Queste misure hanno come conseguenza la produzione di accurati inventari ed elenchi di entrate e uscite parrocchiali che sono rimasti negli archivi e ci consentono oggi di avere dati precisi delle rendite parrocchiali e dei loro patrimoni.
Veniamo così a sapere che nel 1788 la parrocchia aveva un reddito
"al netto delle spese e delle gravezze" di 700 lire (100 scudi) e per tale reddido superiore agli 80 scudi non poteva più esigere il pagamento delle decime ai propri parrocchiani come disponeva il Granduca. Le leggi emanate in quegli anni furono l'inizio di un nuovo sistema di controllo dell'amministrazione parrocchiale e, con la concomitante istituzione di uffici addetti, i parroci cominciarono ad esserre soggetti a normative burocratiche sempre più pressanti. Contuttociò le decime continuarono ad essere pagate, ma senza quell'obbligo e quantità del passato, finendo poi a fondersi con l'offerta della Compagnia come avvenne a Quercegrossa.
Dall'elenco predisposto da don Sebastiano per la denunzia dei redditi della parrocchia, e in prima quelli dei poderi delle Redi e Bellostento computati in anni dodici cioè dal 1768 al 1780, veniamo a conoscenza delle varie voci costituenti il reddito finale. Da precisare che i prodotti agricoli dovevano essere valutati secondo i prezzi correnti di mercato:
Grano Staia 24; Biade St. 17; Vino some 11; Olio St. 5; Bosco scudi 10 in dieci anni; Lino libbre 4. A queste voci vanno aggiunti i frutti del bestiame e i dazi del mezzaiolo consistenti in 30 coppie d'ova all'anno, in due capponi e due pollastre. Lire 210 lire entrano per affitto del podere della Buca.
In totale i tre poderi rendono lire 700.9.2 lire all'anno.
Per le decime entrano 40 e 3/4 staia di grano, sei some di vino stimate 231.14.4 lire
Si riscuotono canoni diversi per un totale di 132.14.8 lire così divisi:
un canone di lire 75.14.8 dal Sig. Muzio Tolomei per alcuni denari che tiene a frutto spettanti alla chiesa di S. Michele a Bozzone;
39 lire dalle monache di Campansi;
13 lire dal Sig. Borghesi;
5 lire dal Sig. Minorbetti.
I diritti di stola con i funerali che rendono lire 15 e soldi 9 all'anno e i matrimoni lire 4.10. e altre entrate fanno lire in totale 28.10.
La parte Spese compilata da don Borselli è parzialmente mancante nei totali che devono essere accertati, ma rimane comunque interessante ed è completata e modificata dall'elenco finale dei contabili:
Mantenimento della chiesa parrocchiale e due chiese lire 42;
Per mantenimento di utensili e paramenti sacri, lire 14;
Cera per le candelora, 7 lire;
Cera per le croci, quando si benedice le case;
Cera per il consumo di chiesa, 2 lire; Cera per il sepolcro.
Totale cera per chiesa e altro lire 40.
Olio per la lampada del SS., lire 42.
Feste: la Festa di S. Jacomo titolare, lire 42.
Festa titolare di S. Michele a Petroio, lire 6.
Lire 14.10 da pagarsi ogn'anno alla Cura di S. Martino a Cellole per frutto di denari presi tempo fa;
Lire 8 per libbre 4 di cera da pagarsi ognanno alle Monache del Santuccio.
Per il mantenimento del cavallo lire 175.
Il reddito denunciato come abbiamo visto era di 700 lire all'anno nel 1788.
Dall'elenco completo delle parrochie relativo al detto reddito e all'anno 1782 vediamo che la nostra parrocchia dichiara 132 scudi di entrate e 39 di spese per un saldo attivo di 93 scudi pari a lire 651.
La parrocchie dei dintorni avevano il seguente reddito netto: Lornano 143 scudi; Basciano 109; Poggiolo 44. Il reddito della nostra parrocchia si poneva quindi a metà tra i redditi della vicaria di Monteriggioni composta da sette parrocchie così come tra quelli delle cure di città. Si presenta quindi una situazione reddituale soddisfacente che consentiva una vita dignitosa al parroco.
Sempre dall'inventario del 1788 si ricava che il parroco aveva fatto eseguire sei anni prima importanti lavori all'interno della chiesa in particolare agli altari. Meraviglia inoltre la grande disponibilità di suppellettili e arredi sacri che sono in grande sufficienza grazie al precedente parroco e allo stesso Borselli, tanto da disporre nella sola chiesa curata della bellezza di 14 pianete e di ben tre calici elencati agli argenti. Quasi sessanta candelieri sono di proprietà della chiesa ed interessante, tra l'altro, l'alto numero di reliquie catalogate minuziosamente per la prima volta:
51 - Reliquiario di legno indorato entro vi è la reliquia di S. Jacomo in buono stato.
52 - Altro reliquiario più piccolo di legno inargentato entro la reliquia di S. Antonio da Padova in buono stato.
53 - Quattro teche di metallo non conoscendosi se d'argento ove sono in una la reliquia di S. Lorenzo e S. Bernardino, in altra Santa Rosa da Viterbo, in altra S. Giuseppe, in altra di S. Caterina senese.
54 - Reliquia di legno della S. Croce inserita in una crocetta di cristallo.
55 - Altro reliquiario di legno con fodera di creta inargentata ove si espone il suddetto legno della santa croce in buono stato.
56 - Un altro piccolo reliquiario di legno lavorato senza reliquia in buono stato.
Tra le curiosità del tempo abbiamo al n° 58
"Teste di morto dipinte da altare, in mediocre stato".
Buona anche la descrizione delle opere d'arte pittoriche e plastiche esistenti in chiesa:
60 - Statua di creta coperta di stucco rappresentante la resurrezione in buono stato
61 - Bambino di stucco con suo stallo di legno in buono stato
69 - Tavola rappresentante il santo sepolcro in buono stato.
104 - Due statue di legno nell'altar maggiore denotanti due angioli in mediocre stato.
Un quadro di tela, pittura esprimente i Santi titolari Jacomo e Niccolò, Sant'Antonio da Padova.
L’altare di destra, quello dedicato al SS Crocifisso non viene descritto perchè risulta di patronato Andreucci.
Un'amara esperienza venne riservata al rettore Borselli e al popolo nell'anno 1793, quando la chiesa subì un furto sacrilego ad opera di un agile ladrunco che passando dal tetto portò via calici e arredi, ma subito ritrovati (vedi Cose d’altri tempi: “Un furto in chiesa”).
Un mese dopo la morte di don Borselli, il 10 ottobre 1799, l'attuario di Curia Giuseppe Pavolini consegnava all'economo spirituale don Giacomo Schiavi gli arredi sacri e i beni sinodali della parrocchia, ma, fatto il riscontro di detti arredi, trovò mancante la coppa d’argento di un calice e quella di una pisside, i pezzi rubati e ritrovati, ma dei quali rimaneva soltanto il piede di ottone. Siamo di fronte a un secondo e ignoto furto a meno che le due coppe d'argento considerate profanate non siano state consegnate come "argenti" dal parroco Borselli in seguito all'editto dell'occupante francese che impose la consegna alle Chiese di tutti gli arredi d'argento e oro non strettamente legati al culto. L'operazione gestita dal Governo cittadino del quale faceva parte anche Filippo Andreucci, che fu incaricato della requisizione, portò alla confisca di ben 5200 libbre di argento pari a 1700 kg, ma
"molti oggetti preziosi sparirono senza essere registrati". La severità dell'ordine non ammetteva repliche tanto che in una circolare arcivescovile del 19 maggio 1799 recante il alto le scritte "Libertà e "Uguaglianza" firmata dall'attuario rammentato, si consigliava a tutte le Chiese, comprese quelle delle contrade, a rompere i sigilli dei reliquiari d'argento in loro possesso e riporre con la dovuta decenza le reliquie con la loro nota in cassette parimenti decenti prima di consegnare il reliquiario alle autorità. Il 9 maggio il cittadino segretario della Circoscrizione, Cellesi, scriveva al Cittadino Arcivescovo di Siena giustificandosi che per la ristrettezza di tempo e anche per motivi di circospezione e segretezza non aveva potuto inviargli una copia degli ordini e istruzioni ricevuti da Commissario del Governo Francese e lo invita a cooperare al più felice esito della commissione e che il Governo confida nel suo conosciuto zelo, data l'urgenza dell'operazione. Le legge emanata aveva lo scopo primario di raccogliere fondi per il mantenimento delle numerose truppe francesi di stanza in Toscano e alleggerire così il peso alle Comunità. Nell'editto erano comprese anche le chiese protestanti e le sinagoghe.
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