Quercegrossa (Ricordi e memorie)
CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI
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Il secolo Ottocento vede aumentare il numero dei cacciatori, comunque una maggioranza composta da padroni e fattori, e una minoranza di pochi artigiani, contadini e pigionali. Con l’unità d’Italia si aprì un acceso dibattito per la regolamentazione unitaria della caccia, per superare le leggi locali e i particolarismi, ma i forti contrasti sugli intenti portarono alla caduta di numerosi progetti di legge. A questi contrasti si aggiunse la difesa di prerogative delle autonomie locali come le Province, alle quali spettava stabilire la data di apertura sulla caccia, e fissare altre regole, che in sostanza impedirono di fatto che per oltre mezzo secolo si arrivasse all’approvazione di una unica legge sulla caccia in Italia. Ci volle il trionfante decisionismo fascista per riuscirci con la legge 1420 del 1923, e il 9 luglio veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale come “Provvedimenti per la protezione della selvaggina e l’esercizio della caccia” con 42 articoli che contemplavano la protezione della selvaggina, l’esercizio della caccia, la vigilanza, le sanzioni e istituiva un registro delle associazioni dei cacciatori.
Augusto Buti versa la polenta per i cacciatori della “Merlata” sulla Monzanese nel 1937/38. Lui, Brunetto e altri preparavano il pranzo.
Il Novecento vede allargarsi ulteriormente la base dei cacciatori, e anche a Quercegrossa sono tanti i nominativi di coloro che imbracciavano il fucile, rimanendo però per i primi due decenni sempre in un ambito ristretto a certe figure benestanti, o almeno aventi delle possibilità, alle quali si affiancavano qualche contadino, ma per quest’ultimi pesavano ancora certe proibizioni imposte dai possidenti, come già ricordato a Passeggeri, e la ridotta tradizione familiare. Al periodo fra le due guerre risalgono le prime memorie di mitiche cacciate collettive che di regola finivano ad una tavola imbandita. Qui i commensali davano sfogo alle loro iperboliche avventure personali di caccia sparandole a più non posso. Particolarmente in quegli anni andò affermandosi a Quercegrossa un tipo di cacciata riproposta più volte nei mesi autunnali, alla stagione del passo, ed era la famosa “Merlata”. Un nutrito gruppo di cacciatori si portava a caccia nella Monzanese, il bosco sopra Fonterutoli, dove facevano strage di selvaggina composta in prevalenza da merli e tordi, e che ognuno di loro, al ritorno, consegnava a Carlino il bottegaio. Questi, la domenica dopo, gli preparava l'arrosto, consumato poi tutti insieme in bottega, in una grande festa in amicizia, nata dal cameratismo di quei tempi. Tra i cacciatori partecipanti si ricordano “Buccino”, ossia Gino Fanciullini, Fusi Duilio, Trombe della Ripa dei Pianigiani, Vittorio Papi, un Brogi della Staggia detto il Cimballi, Umberto Mori, “che la sera spariva e gli altri se la prendevano: "S’era detto di tornare tutti insieme”, ma quando arrivavano dal Brogi lui aveva già consegnato i suoi tordi”, Brunetto Rossi, Augusto Buti, Alfredo Vanni della Palazzina di Montarioso detto “il dottore”, e altri di Quercegrossa citati nella seguente poesia di Brunetto.
Per rivivere l’atmosfera e lo svolgersi di una esemplare battuta di caccia bisogna ricorrere alla rinomata poesia di Brunetto Rossi, conservata in alcune famiglie dei protagonisti. Egli ha descritto con la rima e un sano, personalissimo umorismo, i passi di una giornata di caccia nel 1938. Basta quindi leggerla per sognare e vedersi, armati di doppietta, camminare accanto a Dino e Corrado Castagnini, Virgilio Carusi, Paolino Masti, Gino Fanciullini, Alfredo Vanni (il dottore), Giovanni Bandini, Giuseppe detto “Tacco” e al portacaccia Taddei.
Poesia fatta ai cacciatori prima di mangiare l'arrosto la sera di dicembre 1938 a Vagliagli nella casa di Faustina Rossi alle ore 18,20, mentre il tempo minacciava neve. (Tutti a tavola, e già mangiata la pastasciutta - arrosto già in tavola).
Partiti ne siete di buon ora stamattina
da Quercegrossa cacciando a Vagliagli
trascorsa a palmo la sorridente collina
Giornata rigida e molto fina,
tempo di guanti ciarpe scialli.
Ma voi temperati vispi e birichini
il primo colpo alle 8 tira il Bandini.
Dopo la beccaccia fallisce il Fanciullini
sotto le cave di Mocenni
Vanni e Carusi che erano vicini
si è buttata qua e la e fanno degli accenni.
Più non passerai questi confini,
e neppure tornerai ai tuoi posti perenni.
Fai disse il Carusi che ti veda;
tre fucilate e ne faremo preda.
Paolino lo metto a metà scheda
di questi bravi e famosi cacciatori
lasciatemi bene che io lo veda
per fargli i miei più grandi onori,
con fucile beretta oppure breda
fucile dei più rinomati cacciatori
di buon cariche ed anche ben premunito
con numero due fucilate fallisce la lepre a pulito.
Ma di cacciare sempre a pulito
fin tanto trova un altra lepre a covo
Paolo si alza in piedi rimpettito.
E spianando il fucile vedrai se ti ci trovo
e la lepre schizza e Dino gli tira risentito.
Credeva che fosse come bere un uovo;
coppiola gli fa Dino e il Dottore
la lepre sempre in corsa, ma gli batteva il cuore
Tacco lo ritengo un bravo cacciatore
e a girato quanto una ventarola.
E' stato sempre un bravo tiratore
la beccaccia a morto nel fondo dell'Aiola
a te vada il mio più grande onore,
che questa bestia più non vola.
Ammirato sarai sempre sera e mattina
perché hai fatto caccia della più speciale selvaggina.
17 morti ha fatto il Bandini
16 ne ha fatti Beppe detto Tacco
il Carusi due caccia piccina
il Castagnini 5 pochissimi perbacco
Dino e il Papi 6 grossa sommina
In complesso ad un buon numero avete dato acciacco
Io sarei quasi per chiudere questa storiella
ultimo ad altra lepre in padella.
La pastasciutta si è mangiata senza la coratella
di tre lepri almeno una dovevi aver ammazzato
Fatta con pollo, piccione oppur di gallinella
con battuto di funghi che Paolo ha trovato.
Faustina ce ne ha data una buona scodella
cotta giusta e di buon sapore al palato.
Paolino furbo acciò come gli altri mettersi in pari
la lepre a messo in padella e nella pastasciutta l'ordinali.
Buon appetito a tutti che sono oltre passate le sei
Evviva i cacciatori scelti padellai e porta caccia era il Taddei.
Rossi Brunetto
Poeta falegname di Quercegrossa
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Il cacciatore Dino Castagnini, uno dei protagonisti della cacciata del 1938, qui ripreso in tempi successivi con la sua fidata cagna Diana. L’abbigliamento è ancora quello vecchia maniera: lana e velluto, senza grigioverde e senza fibre.
Costretti dai divieti e dalle riserve a star lontano dagli animali del bosco, quasi tutti i contadini e i salariati si sono sempre ingegnati bracconieri per ritrarre un po’ di carne dalla caccia abusiva, usando elementari e semplici strumenti di cattura proibiti dalla legge, e diffusi, con qualche variante, in tutte le campagne. Ad esempio, per la presa di animali grossi come fagiani e lepri, il sistema migliore era quello del laccio fisso che si stringeva intorno al collo della preda bloccandola o causandone la morte da strangolamento a seguito del suo agitarsi. Naturalmente l’animale era sempre attirato da un’esca fatta di chicchi di granturco, grano, o altro, posta come si doveva. Tesi di nascosto nei posti più favorevoli e altrettanto prudentemente controllati, i lacci davano buoni risultati e qualche animale ce lo trovavi sempre. Ma questa attività di frodo doveva fare i conti con guardie forestali, guardie di fattoria e carabinieri che, con pazienza e tenacia, sorvegliavano riserve e zone di caccia nel tentativo di soffocare o almeno limitare il fenomeno. Qualche volta ci riuscivano, e il malcapitato allora subiva la multa prevista, e in casi estremi poteva andar peggio come nell’esempio seguente. Un contadino di Passeggeri ai tempi del Sarrocchi mise i lacci e prese una lepre. Il guardia Bonelli si accorse del fatto e avvisò il Sarrocchi che il tal contadino aveva una lepre attaccata in cantina. Il Senatore non se lo fece ripetere. Andò dalla famiglia, entrò in cantina e vide l’animale penzoloni. ”E questa cos’è?”, chiese il senatore. “Ma Signor Padrone, è un conigliolo”, ribatte scioccamente il contadino. Il Sarrocchi si sentì preso in giro e convocò il fattore Vannini: “Manda via subito quel contadino”, fu l’ordine perentorio. Il Vannini, dispiaciuto di ciò, fece passare qualche giorno per calmare le acque, poi tornò dal Sarrocchi a perorare la causa del contadino: “Ma Signor Padrone, è un buon contadino, produce, ha una bella stalla. Dove si ritrova uno come lui in questi tempi”. “E allora che si fa?”, gli chiese il padrone. “Facciamogli una multa”. “Va bene la multa”. Al contadino il Vannini gli disse di pagarla, ma costui non aveva i soldi, allora strappò tutto e il Sarrocchi non si ricordò della multa o forse non se ne volle ricordare. Ecco uno dei casi in cui la caccia abusiva si faceva rischiosa per chi la praticava.
Un altro antico sistema per la cattura degli uccelli, praticato un po’ da tutti in ore notturne, lontano da occhi indiscreti e dai carabinieri, era “il diavolaccio”, vale a dire l’uso di uno strumento “impaniato”, assomigliante grosso modo ad un ombrello, e fatto di legno. Già nel 1783 la legge proibiva: “ ... ferma stante l'espressa proibizione di valersi sotto qualunque titolo e pretesto di Panie, Lastre e di Reti di maglia stretta”. Inutile, quanto inosservata norma, sempre infranta da generazioni di improvvisati bracconieri dilettanti per avere un po’ di carne in casa, o per fare un arrosto con gli amici. Infatti anche nel nostro paese...
Il "diavolaccio" si basava sul principio della “luce” e della "colla", ossia della pania che adeguatamente trattata diventava una trappola appiccicosa che tratteneva gli uccelli. La pania, una pianta parassitaria, chiamata “vischio”, che cresce sulla quercia, era cotta con un po' d'olio, e, ghiacciandosi, formava una massa gelatinosa compatta. Questo sistema ingegnoso era formato da un lungo bastone dalla cui sommità partivano a raggiera tante stecche, come quelle di un ombrello, collegate e tenute da alcuni giri di spago che formavano una rete sulla quale si spalmava e si attaccava la pania ridotta a fili. Questa specie di ombrello raggiungeva la dimensione di quasi due metri di diametro, e richiedeva forza e abilità in chi lo teneva, e una squadra di tre, quattro persone. In condizioni di abbondanza di selvaggina si potevano catturare fino a 180/200 uccelli, e una cattura di 30/35 capi era normalissima. La caccia si apriva con l’ispezione (sul calar della sera) al luogo, una macchia o una siepe, per controllare se vi fossero uccelli a dormire, ma di solito si sapeva dove andare a colpo sicuro. La luce intensa di un’acetilene, tenuta al centro del diavolaccio, attirava gli uccelli, che scacciati da loro ricovero notturno volavano verso la sorgente luminosa. Passere, fringuelli, pettieri, ma anche tordi e merli, erano le vittime predestinate. Gli uccelli presi venivano subito staccati dal diavolaccio, che tratteneva le piume assumendo un colore sempre più nero. Ma lascio la parola ai ricordi: “Molte erano le famiglie che ricorrevano a questo mezzo. Certe notti potevi vederli più d'uno all'opera. Si usava nel bosco e intorno ai pagliai dove trovavano ricovero un rilevante numero di uccelli”. "Il diavolaccio al pagliaio con l'acetilene, si catturavano a panierate. C'erano le passere intorno al seminato e allora pania". "Merli, tordi e passere spaurite dagli scaccini volavano verso la luce posta dietro il diavolaccio".
Bruno Sestini: "La notte, mio fratello Giangio, che non era cacciatore, andava a giro con i cacciatori col diavolaccio che era una specie di ombrello con tanti fili da stecca a stecca impaniati, e messo a una proda veniva fatta della luce e gli uccelli partivano a frotte e si appiccicavano a questo attrezzo". "Anche dopo guerra a caccia di frodo con Enzo del Papi, il Tognazzi, il Bandini, il Carletti, il Rossi Nello detto il Gatto". Il rammentato Gatto ricorda: "Nella nostra squadra Gino di Fusino teneva il diavolaccio. La pania si comprava dal Giachini, noto bracconiere che, tra le tante, tendeva continuamente le "panuzzole" ai pagliai. Erano piccole trappole di fil di ferro con una pallina di pane in cima. L'uccellino beccando muoveva il congegno e rimaneva strozzato dal filo scorsoio".
Il Giachini, detto Peppola, aveva il capanno allo Stanzone, dietro la concimaia del Giannini, ed era un esperto preparatore di pania, in più intrallazzava con la vendita di uccelli vivi da richiamo, in particolare di peppole: "Una peppola con la cresta? 100 lire". Nei giorni di freddo, magari dopo una spruzzata di neve che metteva in difficoltà i piccoli uccellini nel procurarsi il cibo, divenendo quindi facili prede, venivano usate da tutti per un’agevole cattura, semplici trappole come “gabbie” e “lastre” di legno. Le gabbie di legno erano usate con la stessa procedura delle trappole da topi. L'uccellino affamato vi entrava per beccare il pezzo di pane, facendo così scattare la molla che chiudeva lo sportellino, imprigionandolo. Lo “stiaccione”, invece, era un elementare congegno che richiedeva l'uso di un piano inclinato, che poteva essere una vecchia porta, una tavola e perfino una mezzana da tetto, tenuto alzato da un bastoncino al quale veniva legata una lunga sottile corda. Sul terreno, sotto lo stiaccione, erano spante briciole di pane e grano. Uno strattone al momento opportuno, faceva abbassare all'improvviso il piano schiacciando così gli incauti uccelletti, per lo più passere, concentrati a beccare.
Bruno Sestini ha preso il suo primo porto d'arme nel 1938 a sedici anni, l'ultimo nel 2002: "Nel 1938 spesi per tutta l'attrezzatura da caccia 220 lire, compresa la macchinetta per fare le cartucce". Era indispensabile per molti cacciatori autoprepararsi le cartucce, per evitare di spendere somme anche notevoli in quei tempi con tanti uccelli e poche lire. Per far ciò riciclavano più volte i bossoli usati e si dotavano di bilancia, misurini e macchinetta per cartucce, polvere e pallini come fece Bruno. Rivedo il mi’ zio Sandro in cucina, seduto sulla panca della grande tavola di marmo, trascorrere lunghe serate circondato dai suoi strumenti, posati con ordine davanti a lui, intento a confezionare con pazienza decine e decine di cartuccine da uccellini per il suo Ventiquattro. Usava da anni i bossoli metallici delle cartucce militari, residuati della Seconda guerra, nei quali metteva i nuovi fulminanti e, dopo una precisa pesatura, polvere e piombo separati da cartoncini che lui stesso ritagliava da cartone duro, scatole da scarpe o quel che trovava. Li realizzava sopra un ceppo di legno con il martello e un ferro vuoto tagliente. Usava, inoltre, per pressare la polvere e il piombo, un corto bacchetto di legno. Si possedeva in casa Mori anche una macchinetta per le cartucce di cartone, che arrotondava ripiegando all’interno il bordo alto, impedendo così all’ultimo cartoncino e al piombo di fuoriuscire. Molti recuperarono per anni la polvere da sparo dalle cartucce dell’ultima guerra e alcuni, come i Fusi di Basciano, giunsero perfino a prepararsi i pallini di piombo con un metodo artigianale, ma ingegnoso: “Si facevano i pallini da caccia fondendo pezzi di piombo in un tegamino. Poi su un piccolo telaio che stringeva una carta da gioco, forata da tanti piccoli buchi circolari, vi si gettava il piombo fuso, facendo attenzione alla giusta temperatura, che se alta avrebbe bruciato la carta e se bassa sarebbero usciti pallini con la coda”.
Unisco alla breve escursione storica sulla caccia, una interessante informativa in vigore ai primi del ‘900 sulle regole per il porto di armi, stampate sul porto d’arme del fattore Cesare Castagnini di Quercegrossa; licenza rilasciatagli nell’ottobre 1918. Il testo, come si legge nella foto a fianco, si richiama al regolamento del 1915 e i suoi articoli contengono le norme fondamentali da osservarsi dai portatori d’arme, non solo da sparo (l’art. 3, infatti, tratta del bastone animato, ossia una lama sfoderabile dal bastone), con particolari e anche curiose disposizioni relative a quei tempi come l’art. 6.
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