Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO XI - COSE D'ALTRI TEMPI


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A caccia (1)
I tempi d’oro vissuti dall’attività venatoria ben li rammento pur non essendo cacciatore. Sono gli anni Sessanta del Novecento e si percepivano facilmente quando, alla vigilia dell’apertura della caccia in settembre, Quercegrossa veniva invasa da torme di cacciatori locali e forestieri, soprattutto fiorentini, accompagnati da numerosi cani da caccia e armati di lustre doppiette che la migliore tradizione dell’industria italiana produceva incessantemente in quegli anni. Il boom economico italiano contribuì, infatti, enormemente alla proliferazione di appassionati cacciatori che raggiunsero in quel decennio l’eccezionale numero di oltre un milione e mezzo e continuarono ad aumentare, mentre "Negli anni Cinquanta i cacciatori erano un piccolo numero". Comunque in Italia nel 1935 si contavano 350.000 canne.
Ritornando a Quercia nel 1962/63, nel giorno di preapertura, alcuni cacciatori si avviavano fin dalla sera nei boschi piazzandosi alle poste, altri si trattenevano nel dopocena in piazza a discutere e organizzarsi per far strage, al primo affacciarsi del sole, degli ignari fagiani e lepri che ancora abbondavano nei nostri boschi e campi. Certamente in quegli anni il territorio si era già impoverito dell’antica selvaggina stanziale, fatta di starne e lepri, ma in compenso il fagiano si riproduceva discretamente invadendo l’habitat senese, e la sua caccia era preferita da molti. "Prima, 60/70 anni fa, non c'erano fagiani, ma quaglie, starne e lepri". Quanto fossero abbondanti le lepri “prima” ci viene dimostrato da un ricordo in casa Lorenzetti per una sfida tra fratelli: “Agostino cacciatore aveva ammazzato in quell'anno 70 lepri e suo fratello si fermò a 69”. Si rammenta anche la fucilata di Deodato Fusi, di Basciano, che teneva il conto, quando ammazzò la sua centesima lepre.
La domenica dell’apertura gruppi di cacciatori nostrali rientravano in paese all’ora di pranzo col loro seguito di cani esausti e lingua ciondoloni. Alcuni portando soddisfatti i tanti capi abbattuti attaccati a un palo; capi che a volte raggiungevano il numero di 15/20 fra lepri e fagiani. Furono tempi indimenticabili per i cacciatori: una caccia senza limiti, quasi sempre proficua per tutti e continuata per una lunga stagione. A questa si aggiungeva quella da fermi al capanno e agli uccelli stanziali e di passo, che dai mazzi attaccati allo strozzino finivano nei girarrosti nelle nostre cucine. Ricordo in casa Mori la macchinetta caricata a molla per girare lentamente lo spiedo, dove insieme a saporiti tordi, merli e fringuelli si infilava qualche pezzo di magro di maiale e salciccioli. Il tutto alternato con pezzetti di pane e foglie di salvia, con la zia Anna a raccomandare di dargli un po’ d’olio. Iniziavano anche in quegli anni le prime trasferte in Maremma al tiro a volo con l’abbattimento di centinaia di colombi. I cacciatori partivano presto, alle tre o alle quattro, ed era tanto presto da essere assonnati come Spartaco, il quale arrivato in Maremma si accorse di aver lasciato il fucile a casa.

Cacciatari a Quercegrossa negli anni Settanta. Sono le nuove generazioni che contribuirono alla forte crescita dell’attività venatoria.

Naturalmente l’attività della caccia ha sempre avuto le sue leggi e consuetudini che ne regolamentavano in qualche modo la pratica, ma miravano soprattutto alla salvaguardia dei diritti dei proprietari dei boschi e a imporre limiti ai cacciatori. Per quanto riguarda la Toscana il primo serio legislatore che mise mano e ordine in questo settore con una Legge quadro fu il granduca Ferdinando III nel 1793. Egli, riconoscendo a questa attività un valore sia economico sia di svago, e volendone moderare l’eccessiva liberta che produceva solo abusi “riducendola a quei limiti che son segnati dal rispetto dovuto alla pubblica e privata proprietà privata”, ritenne opportuno legiferare riunendo e codificando le antiche regole. Diede, a “chiunque sarà fornito della licenza dell’armi”, la possibilità di esercitare la caccia secondo le norme stabilite dalla legge, predisponendo un calendario di caccia per la salvaguardia delle specie. Concesse, inoltre, ai proprietari di boschi e fondi l’occasione di creare riserve di caccia nei loro possessi. Con la stessa legge regolamentò l’aucupio, ossia la cattura di piccoli uccellini mediante trappole e lacci. Si prevedeva il divieto di caccia dal primo giorno di Quaresima a tutto il mese di agosto per la salvaguardia della riproduzione delle specie quadrupedi (lepri) e volatili, utili all’alimentazione umana, mentre per gli animali dannosi e per quelli di passo la normativa ne consentiva, o ne limitava, la caccia con armi da fuoco e tagliole. In sostanza nei 35 articoli della Legge si prendeva in considerazione ogni aspetto della caccia, cioè le licenze, la selvaggina, anche quella nociva, la caccia in brigate, le bandite ecc., ma particolarmente significativo è il 24° articolo riguardante coloni e mezzadri che non potevano cacciare “senza il previo assenzo e permissione inscritto del loro respettivo padrone”. Il documento d’assenso doveva essere steso da un notaio e consegnato agli incaricati del rilascio delle licenze. Il che, di fatto, escludeva dall’esercizio della caccia quasi tutti i contadini essendo i proprietari poco propensi verso di loro, credendo che l’attività di caccia, oltre a impoverire i boschi, li distraesse dai loro lavori agricoli, come per esempio avveniva ancora nel Novecento nella fattoria di Passeggeri con il senatore Sarrocchi che vietava assolutamente la caccia e il possesso di armi ai suoi coloni “bastando il guardia per la loro difesa”. “I Cancelli dovettero vendere il fucile se volevano tornare a Poggiobenichi. I confini della sua tenuta erano tutti tabellati ed era Riserva di Passeggeri”. Certamente questa norma, così restrittiva per i contadini, deve aver subìto una radicale modifica già dall’Ottocento, con il periodo francese, registrando il tribunale l’aumento di procedimenti penali che vedono cacciatori - contadini come protagonisti. Un articolo, come in ogni codice che si rispetti, prevedeva penali per chi trasgrediva alla legge e non si scherzava. Infatti...
Luigi Bernini scese le scale della sua abitazione poderale a Petroio verso le cinque, quando era ancora buio, e si avviò, rasentando la vigna, nel bosco poco distante da casa sua. Era la domenica dell’11 luglio 1830 e sapeva dove andare perchè aveva già barzellato quella lepre che tutte le mattine passava dal solito viottolo. Con lo schioppo ad una canna, pronto a far fuoco, attese per poco tempo, quando la lepre saltellando si avvicinò a lui e si fermo a dieci metri con le orecchie ritte, ma non ebbe il tempo di annusare il vento che la fucilata di Luigi la stese morta stecchita. Raccattò l’animale, si mise l’arma a tracolla e ritornò verso la sua abitazione. Immettendosi nella strada si avvide che alcune persone lo stavano osservando e senza far finta di niente rientrò in casa. Era tempo di segatura e i coloni si alzavano presto. Pareva tutto finito e la lepre digerita da tempo, quando un mese e mezzo dopo ricevette un avviso di presentarsi al Tribunale per rispondere di una querela presentata contro di lui il dì 9 agosto seguente, due giorni prima della scadenza del tempo concesso dalla legge per queste denuncie, ed era accusato di caccia in tempo di divieto e delazione, ossia porto abusivo di arma. Cosa era successo? Senza dubbio, i quattro testimoni, e in particolare uno di loro, che avevano udito lo sparo nel bosco e l’avevano poi visto rincasare con la lepre in mano e il fucile ad armacollo, consci del divieto di caccia in quei giorni, avevano cominciato a raccontare il fatto in giro e la voce era giunta con tutti i dettagli al capitano Giovanni Maggiorani del Bargello della piazza di Siena. Egli non esitò a denunciare, come sua competenza, l’accaduto al Tribunale, animato dal rispetto per la Legge, ma soprattutto, come vedremo, per un altro ben più venale motivo. Il procedimento preliminare giudiziario prese il via con l’esame dei testimoni citati nel documento di querela. Infatti, il 20 agosto si presentarono davanti al tribunale Francesco Capannoli con il nipote Luigi e Francesco Celli. I primi due contadini al podere all’Erede e il terzo di 40 anni dimorante in Siena di professione pentolaio. Un quarto testimonio, presente sul posto insieme a Luigi Capannoli, certo Pietro Malandrini, poi corretto in Morandini, abitante al Palagio di S. Fedele, venne interrogato dal vicario regio di Radda.
I tre testimoni si presentarono davanti al cancelliere del tribunale per essere esaminati e deposero concordi la stessa versione dei fatti. In pratica confermarono la relazione del capitano Maggiorani. Dissero che la mattina dell’11 luglio, essendo di segatura e trovandosi “a pagare l’opra” a Petroio, udirono un colpo d’arma da fuoco proveniente dal bosco a circa mezzo miglio, e successivamente, a trenta passi da loro, videro uscirne il Bernini con l’arma a tracolla e la lepre in mano (passò dal suo stradone e noi s’era a circa trenta passi). Francesco e Luigi Capannoli, dietro sollecitazione del giudice, aggiunsero di aver sentito dire, una sera, da alcune persone non riconosciute perchè era buio, che la lepre era stata venduta al possidente Bacci di Quercegrossa (l’affittuario dei beni e della villa degli Andreucci) per la somma tre paoli (due lire). Nella sua testimonianza il Celli precisava di trovarsi a Petroio in quel giorno, e ricorda bene perchè fece 4/5 giornate di segatura presso i Capannoli per poi ritornarsene a Siena. Il 30 agosto seguente viene inviata una rogatoria al vicario regio di Radda per l’interrogatorio del Morandini, il quale il giorno 6 settembre dichiara di conoscere i personaggi rammentati e di essersi recato al podere Erede dai Capannoli nel mese di luglio per segare il grano, ma del fatto indagato, ossia dello sparo e della lepre morta, risponde più volte: “Davvero non me ne rammento” e “Non ne so nulla”. Esaminati quindi i “fidefacenti” tre testimoni e il possidente Bacci (il sig. Bacci avrà circa 50 anni ha moglie e figlie è piuttosto alto e magro, asciutto di complessione, nativo della podesteria di Barberino Val d’Elsa) che disse di conoscere il Bernini perchè veniva a messa la domenica, ma di non aver mai fatto affari col lui. Finalmente il 16 settembre è convocato l’imputato Luigi Bernini, di anni 24, nativo di Radda, con moglie e figli, per rispondere all’accusa, e quando il cancelliere gli chiede se sappia il motivo del suo esame egli risponde: ”Non so per qual cagione mi voglia esaminare”. Alla domanda dove si trovava il giorno 11 luglio risponde: “Non ricordo precisamente dove ero; sarò stato nel mio campo“. E alle scrupolose e pertinenti domande del giudice nega decisamente ogni addebito, anzi: “Io non porto mai arme nè ho mai avuto o posseduto schioppo ... e in vita mia non sono mai stato a caccia”. Nega di essere stato nel bosco e di aver fatto dei contratti col Bacci. In merito alle testimonianze dei Capannoli e del Celli che lo videro, e alla vendita della lepre risponde: ”In coscienza buona non è vero tutto ciò che dicono queste persone”. “Di queste cose ne sono innocente, e avranno detto ciò perchè mi vorranno male”. Alla richiesta se ritiene capace il Capannoli Francesco di mentire, si rifiuta di dare un giudizio. Ammonito dal cancelliere “Che se non si risolve a dire la verità le converrà passare in carcere segreta”, Luigi Bernini aggiunge soltanto: “Io la verità l’ho detta e se dicessi diversamente direi una bugia”. E così l’imputato, ritenuto ormai colpevole dietro le convincenti testimonianze, viene incarcerato (il carcere si trovava nel Palazzo pubblico di Siena entrando da Via Salicotto, e nei magazzini del sale) a meditare, in attesa di richiamare i testimoni dell’accusa per una conferma delle loro deposizioni. Ciò avviene il giorno seguente 17 settembre, ed essi convalidano ulteriormente, anche perchè dice il Celli “Io non ho nessun interesse a dire una bugia ... e a lui conviene negare, ma io ripeto che lo vidi col fucile armacollo e la lepre in mano dirigersi verso casa sua”. Il cancelliere chiede ai testimoni se siano in grado di mantenere in faccia al Bernini quando affermano, e loro si rendono disponibili al confronto. Così accettò anche il Bernini, che interrogato nuovamente in quel giorno, mantenne ferma la sua posizione d’innocenza dichiarando che “loro hanno preso un giuramento falso, perchè torno a ripetere sono innocente”. Allora a turno furono fatti passare nella stanza dove si trovava l’accusato, il quale dichiarò di conoscere i Capannoli, ma non il Celli. I tre testimoni, di fronte a lui e nonostante la sua disperata difesa: “Non è vero e torno a ripetere che pigliate tutti un giuramento falso”, furono risoluti, persistendo nelle loro precedenti dichiarazioni “e che non potevano dire una cosa per un’altra”. Nessuno firmò il verbale in quanto tutti erano illetterati. Preso atto dell’esito del confronto, e ancora di un successivo esame del Bernini, il quale si mantenne “negativo”, il cancelliere verbalizzò “che la giustizia ha tutto il fondamento di credere e sussistere quanto dai medesimi viene a lui riguardo deposto”, riconoscendolo esplicitamente responsabile dei fatti accaduti, “e che in conseguenza non risolvendosi a dire la verità converrà soffrire più a lungo la carcere segreta, e pena”. Il Bernini ribadiva con rassegnazione: “Che gli ho a fare, siccome non è vero non posso dire quello che non è”. Dopo un’altra nottata in guardina, la mattina del 18, fatto estrarre dal carcere segreto venne condotto nuovamente davanti al cancelliere. Ammonito a dire la verità e aver giurato, gli fu rivolta la domanda: “Se siasi disposto a dire la verità meglio che negli altri suoi esami”. La lunga notte passata in carcere, con la prospettiva di passarvene altre, aveva fatto riflette il Bernini, il quale compreso ormai di essere inguaiato, rispose sorprendentemente: “Io ora sono disposto a dire la verità, correggendo gli esami che ho fatto nel passato, le voglio raccontare come sta veramente la cosa. Sappia che ... “. Qui l’imputato, nel tentativo di ribaltare le responsabilità, si inventa una sua storia che non migliora la sua posizione, e infatti non sarà presa in considerazione. “Sappia che la mattina fra il nove e il dieci luglio essendo di segatura mi sentivo arsione e presi bevere al pozzo che si trova proprio alla casa del contadino Luigi Capannoli e c’era il Capannoli e incominciammo a discorrere e mi disse che quella mattina aveva visto passare una lepre proprio davanti al bosco di casa mia e mi istigò ad ammazzarla e io gli dissi che non avevo voglia e non mi volevo entrare in impicci e molto più non avevo lo schioppo. Esso seguitando a persuadermi ... tanto fece e disse che gli promisi di andarci ... e il giorno dopo 11 di domenica avanti la levata del sole andai a casa del Capannoli che mi diede lo schioppo stato già bello, e caricato da lui”. Poi, seguendo la deposizione del Bernini, egli narra che andò nel bosco, ammazzò la lepre e la mise nella sua capanna a contatto con la sua abitazione. Una mezzoretta dopo entrò per riprenderla, ma il suo cane la stava mangiando, ed essendovi rimasto solo un coscio terroso e sudicio gliela lasciò. La sera il Capannoli gli chiese la metà della lepre, e il Bernini gli raccontò la storia del cane, ma l’altro pensò a una bugia inventata per non dargli la lepre, e che piuttosto l’avesse venduta al Bacci. “La mattina successiva preso lo schioppo lo riportò al Capannoli ma non combinandolo lo consegnò alla moglie”. “Questa è la verità e se non l’ho detta prima è perchè il Capannoli ha minacciato di darmi e di uccidermi”. Dopodichè il Bernini venne scarcerato. Si viene a sapere nel reinterrogatorio di Francesco Capannoli, il 23 settembre, che un anno prima lo stesso aveva dato il suo schioppo in pegno al Bernini, ma l’aprile ultimo l’aveva ripreso. A sostegno delle sue accuse contro il Capannoli, il Bernini non porta nessuna prova, e di conseguenza il 29 settembre il Primo cancelliere ordinava la trasmissione della speciale inquisizione contro di lui, per trasgressione alla legge sul divieto della caccia e per delazione d’arma da fuoco “qualora non abbia la patente del regio Fisco da poterla usare”. In breve, il Bernini venne rinviato a giudizio e processato dopo che ebbe dichiarato: “io sono miserabile e perciò voglio essere difeso dall’avvocato dei poveri”. Alle ore dieci del 27 gennaio 1831 la Ruota criminale di Siena, dopo breve processo, sentita la relazione del giudice auditore Palazzeschi, riconosciuta la validità delle testimonianze accusatorie, emise la sentenza contro Luigi Bernini e lo condannò, come prevedeva la rammentata legge del 1783, alla pena di lire 100 per trasgressione alla caccia, nella mercede al querelante di lire 28 (metà della somma alla Cassa delle multe e metà al Capitano Maggiorani, e ora si spiega tanta solerzia), nella perdita dell’archibugio o suo giusto valore e nel divieto di tre anni a poter cacciare. Inoltre, per il capo di porto d’arma abusivo lo condannò altresì alla pena di scudi 25 (175 lire), e nelle spese processuali fissate in fiorini 14 e 64 centesimi. Il Bernini non volle essere presente al processo e la sentenza gli venne notificata il 31 gennaio 1831 dal Panci, uno dei cursori del tribunale di Siena. Seguì il ricorso inoltrato al Granduca dall’avvocato Del Sarto, con risposta negativa del 13 aprile seguente, e allora ebbe dieci giorni di tempo per pagare la multa. Non avendo il Bernini una lira in tasca, venne carcerato a Siena il 22 aprile, dove rimase per un tempo a noi sconosciuto.
Un finale tragico, se si vuole, per una storia assurda, ma la giustizia del tempo era inflessibile e perseguiva ugualmente qualsiasi tipo di reato commesso dal popolo, applicando la dura legge che mirava a scoraggiare ogni sorta di reato con severe pene, aiutata in questo dalle guardie che, come abbiamo visto, ottenevano una ricompensa ad ogni loro denuncia.
Per completare la storia c’è da dire che il 20 dicembre 1830, ossia un mese prima del processo contro il Bernini, si presentò al Tribunale di Siena Francesco Capannoli detto Cecco, denunciando un’aggressione subita la sera del 15 dicembre “circa le ore 7 e mezzo”, sulla strada di Petroio, fra la chiesa di Quercegrossa e il podere Casino, da parte di Luigi Bernini, suo vicino. L’aggressore, con un legno da carro in mano, si diede a percuoterlo “cagionandogli più e diverse offese”, dandosela poi a gambe. Tornando a casa “si avvide mancargli un borsellino di filaticcio di lana verde contenente sette monete di 10 paoli l’una (46 lire circa)”, e altre due monete tenute in una tasca dei calzoni. Anche di questo furto accusò il Bernini, perchè sentì che mentre lo malmenava gli metteva le mani addosso per frucarlo. Motivò l’aggressione come una vendetta per aver testimoniato contro di lui nel caso della lepre, e ricordò che nel confronto faccia a faccia il Bernini l’aveva minacciato: “Me la pagherai vecchietto, ti troverò qualche volta”. Successivamente, per la sua guardiana di bestie Assunta Manenti, gli aveva mandato a dire più volte “Che era un vecchiaccio birbone e una spia”. Alcuni contadini che si trovavano al Casino, Tommaso Pacciani (contadino al Casino, mentre tornava da governare i bovi), Giovanbattista Morandini (di 23 anni pigionale al Casino, mentre cenava “e saranno state le sette incirca”) e Giuseppe Mariotti (contadino a Gaggiola, “ero in casa del Pacciani a veglia”), sentendo le grida di aiuto dell’aggredito accorsero prontamente. Trovarono Luigi Capannoli in terra dolorante, ma non videro intorno anima viva, e lo accompagnarono alla sua abitazione dell’Erede. Il chirurgo che lo visitò il giorno seguente all’ospedale di Siena, gli riscontrò tre contusioni alla spalla e al braccio ma poteva riprende le sue normali occupazioni. In fase di indagine, alla domanda del cancelliere sul denaro rubato, seppe dire soltanto di averlo “cumulato” da circa otto anni, da quando si trovava come garzone ad Arceno e Solata presso i fratelli Prosperi dai quali riceveva il salario di 100 lire l’anno. Aveva confidato ai nipoti, la sera dell’aggressione, e il giorno dopo anche a Giovanni Palazzi dell’Olmicino, la perdita delle monete, tantochè il nipote Luigi era ritornato sul luogo del fatto per cercarle. Il Melani, detto Bigiolo, disse che a lui aveva detto soltanto di essere stato bastonato. I citati fratelli Prosperi assicurarono di aver tenuto a garzone il Capannoli per 100 lire l’anno, ma “Non ne aveva mai uno perchè gli piaceva scialacquare all’osteria e che a Solata vi lasciò qualche debito ... quando stava meco non aveva mai un quattrino”, e per ciò non ritenevano avesse dei soldi in tasca. Anche l’istruttore Santi, del tribunale, non ricordava della minaccia profferita dal Bernini nel confronto. Infine il Bernini disse che all’ora dell’aggressione si trovava presso il curato di Quercegrossa, don Gaetano Pratesi, dove si era portato “prima dell’unora de morti” (verso le 18), e presso il curato, insieme al suo servitore Giuseppe Manganelli, con Angiolo Masti (contadino alla Casanuova) e Pietro Bianciardi (a retta dal curato), rimase a chiacchiera fino alle dieci. Deposizione confermata da tutti che parlarono inoltre concordemente “sul buon nome del Bernini”. Al contrario, il Masti, testimone interessante, disse del Capannoli: “Si sente dire poco bene e che un suo fratello ... morisse per le prigioni ... e che il Bernini è un uomo di garbo ... lui frequenta più di me perchè ci va a scuola dal signor curato ... ricordo ancora che io albergai in casa del prete per via della novena della mattina (a Petroio) ... e vi stette sempre anche il Bernini che se ne andò alle dieci circa”. Il curato Pratesi aggiunse che “al predetto Luigi Bernini non mi sono mai stati portati reclami e che lo conosco per un ottimo giovane ... come è suo solito di venire a imparare a leggere presso di me”. L’insieme di questi elementi concorsero a convincere il giudice che non vi erano prove sufficienti per processare il Bernini, pertanto l’11 febbraio 1811 dichiarava il non luogo a procedere. Si trattò evidentemente di una meschina messinscena del Capannoli, i cui sentimenti verso il vicino, vista l’animosità dimostrata, non dovevano essere dei più benevoli. Non gli era bastato mandarlo sotto processo per la lepre, ma volle regalargli altri giorni di carcere prima che venisse scagionato.




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