Federico II nacque a lesi il 26 dicembre 1194 dall'Imperatore Enrico VI e da Costanza d'Altavilla. Il padre, per consolidare il potere nella sua Casa, pensava di dichiarare solennemente che la corona era in essa ereditaria; ma, per evitare un'aperta ribellione dei maggiori feudatari, si limitò a far eleggere Federico re dei Romani. Questi alla morte del padre (settembre 1197) aveva appena tre anni, e stette sotto la tutela della madre, la quale governò con prudenza il regno di Sicilia agitato dalle lotte fra i signori tedeschi e normanni. Costanza riconobbe la signoria feudale del pontefice Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni, 1198-1216), rinunciò per Federico all'Impero, concluse un concordato che riduceva i diritti del sovrano nella nomina dei vescovi a un semplice consenso, rinunciando a quei grandissimi diritti che avevano esercitato i sovrani normanni. Ma Costanza segui presto nella tomba il marito (1198), affidando il figlio alla tutela del pontefice, mentre il regno di Sicilia ridiventava campo di contesa tra feudatari tedeschi e nobili normanni, fra pretendenti alla successione normanna e legati pontifici. L'azione energica di Innocenzo, come sovrano e come tutore, riuscì a consolidare nel regno di Sicilia la sua autorità e, dopo parecchi anni di lotte, specialmente contro i feudatari tedeschi, poté farsi consegnare il piccolo Federico (1206). L'abilità politica del papa s'era già dimostrata in Germania, dove alla morte di Enrico VI, il fratello Filippo di Svevia sembrava volesse far proclamare Imperatore Federico, in nome del quale avrebbe continuato a tenere il governo della Germania. In realtà fu proclamato Imperatore Filippo, candidato dei Ghibellini, a cui i Guelfi opposero il figlio di Enrico il Leone, Ottone di Brunswick, che fu riconosciuto come re anche dal pontefice (1201).
La lotta fra i due avversari in Germania si chiuse solo con la morte di Filippo (1208), ucciso per rancori privati da Ottone di Wittelsbach. Ottone IV riconobbe al papa le riconquiste nella marca d'Ancona, nella Romagna e nel ducato di Spoleto, oltre alla signoria feudale sul regno di Sicilia (bolla di Spira), e scese in Italia per ricevervi la corona imperiale e sistemare i suoi rapporti italiani (1209); ma volendo far valere le prerogative e le pretese della sua dignità imperiale non tardò a entrare in lotta con il papa. Questi allora scomunicò Ottone, sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà ed eccitò contro di lui la Lega Toscana; poi si accordò, contro Ottone e contro il re inglese Giovanni Senzaterra suo alleato, con Filippo Augusto re di Francia, ed entrò in trattative con i principi tedeschi per ribellarli all'Imperatore. Si formò allora in Germania una fazione che offri la corona a Federico re di Sicilia, riconosciuto e benedetto dal papa suo tutore, il quale gli fece concedere in matrimonio dal re Pietro II d'Aragona la figlia Costanza. Alla mossa di Innocenzo, Ottone rispose avanzando nell'Italia meridionale; ma la bolla di scomunica pubblicata dall'arcivescovo di Magonza, suscitando la ribellione dei feudatari, obbligò Ottone a ritornare in fretta in Germania. Federico, che aveva promesso al papa e ai baroni siciliani di non riunire mai le due corone di Germania e di Sicilia, fu impedito dalle città italiane rimaste fedeli a Ottone, e non poté inseguirlo immediatamente. Si recò allora per mare a Genova, di dove con poca scorta passò a Cremona. Attraverso Costanza e Aquisgrana, giunse quindi a Magonza per ricevervi la corona reale (1212). Ottone, sconfitto dai feudatari ribelli a Breisach, venne definitivamente vinto da Filippo Augusto a Bouvines presso Lilla (1214), e, sfuggito alla morte in battaglia, mori oscuramente quattro anni dopo.
Dopo la sua incoronazione a Magonza, Federico promise al papa di far cessare ogni abuso contro la libertà di elezione dei vescovi, rinunciò sia al diritto di riscuotere le entrate delle chiese vacanti, sia a quello di ereditare il patrimonio dei prelati, e riconobbe nella forma più ampia la giurisdizione dei vescovi in materia spirituale e il diritto di appello al pontefice in cose ecclesiastiche (1213). Soprattutto promise alla Chiesa il libero e sicuro possesso dei territori già appartenenti a essa di cui Federico si fosse impadronito, cioè la regione da Radicofani a Ceprano, la marca di Ancona, il ducato di Spoleto, i beni della contessa Matilde, la contea di Bertinoro, l'esarcato di Ravenna e la Pentapoli, costituita dalle città di Rimini, Pesaro, Fermo, Senigallia e Urbino, con le terre adiacenti. Inoltre era riconosciuta l'alta sovranità pontificia sulla Corsica e sulla Sardegna. Nel 1215 Federico II venne incoronato una seconda volta; l'anno seguente morì Innocenzo III, il quale aveva fatto proprie, in una forma anche più accentuata, le idee teocratiche ai Gregorio VII e durante il suo pontificato si era sforzato di realizzarle.
Federico, giovane poco più che ventenne, re di Sicilia e di Germania e designato all'Impero, libero dalla tutela del papa, poteva cominciare a svolgere la sua politica personale. Poco prima che il pontefice morisse, Federico aveva formalmente rinnovato la promessa di tenere separato il regno di Sicilia dall'Impero, e aveva assegnato al figlio Enrico come concessionario della Santa Sede tutti i territori di qua e di là dallo Stretto, affidandone il governo, durante la minore età del figlio, a persona che sarebbe stata soggetta e devota alla Chiesa romana. Scomparso il suo autore, egli si affacciava alla vita pienamente libero, con la consapevolezza di un potere che era il maggiore dei suoi tempi, con il suo impeto passionale, con l'ambizione che le sue forze potevano stimolare, con la sua concezione larga della cultura e della vita, che spiega tanto il suo interesse alle osservazioni e alle esperienze naturali quanto la sua tolleranza e anche benevolenza verso l'islamismo, tanto la sua tendenza allo scetticismo venata d'incredulità quanto la sua libertà di costumi, quasi inconcepibile per la mentalità medievale. A tutto ciò Federico accoppiava, come il nonno, una concezione politica assolutistica, che doveva porlo in contrasto sia con i diritti accresciuti dei feudatari, sia con le libertà dei Comuni rivendicate a Legnano e a Costanza, sia con i privilegi della Chiesa e con l'autorità che essa, per bocca di Innocenzo III, si era attribuita di direttrice suprema di tutta quanta la vita della cristianità.
Quando morì Innocenzo, nulla lasciava prevedere nel giovane sovrano l'Imperatore deciso a rivendicare in pieno il suo potere; era allora il principe più fortunato e insieme il più umile e remissivo dei sovrani d'Europa. Al pontefice aveva promesso non solo di separare le due corone di Germania e di Sicilia, ma anche di guidare una crociata in Terra Santa: a Magonza aveva vestito le insegne di crociato, e si era impegnato a partire, secondo il desiderio del pontefice, al più presto per l'Oriente, per ritogliere Gerusalemme agli infedeli. Ma per quanto l'infelice risultato della quinta crociata, proclamata dal Concilio Lateranense e guidata contro l'Egitto da Andrea d'Ungheria, Leopoldo d'Austria e Giovanni di Brienne (1217), rendesse urgente un nuovo intervento, Federico procrastinava la partenza, considerando questa impresa come un'inutile dispersione delle sue forze.
Il nuovo pontefice Onorio III (1216-27) era incapace di comprendere le difficili condizioni politiche del tempo, soltanto preoccupato che si compisse quella crociata che avrebbe dovuto portare alla riconquista di Gerusalemme. Fin dal principio del suo pontificato, non pensò che ad incitare i prìncipi cristiani d'Europa; e poiché nulla si concludeva, cominciò a rigettare la responsabilità dell'insuccesso sull'Imperatore, che se ne rimaneva inoperoso in Europa, e prese a incitarlo perché si decidesse a mantenere la promessa ripetutamente rinnovata. In realtà Federico non poteva abbandonare alla loro sorte il regno di Sicilia e il regno di Germania, tormentati da un ventennio di disordini e di anarchia; specialmente non poteva abbandonare l'Italia meridionale e la Sicilia, la cui situazione si presentava assai più grave di quella della Germania. Tuttavia Federico non venne a rottura con il papa, perché seppe tenerlo a bada approfittando del carattere pacifico di lui; anzi, rinnovando la promessa della crociata, ottenne l'incoronazione imperiale (1220) e il diritto di conservare la Sicilia. Onorio III però, di fronte al continuo indugio di Federico, giunse ad assumere un contegno più risoluto ed energico, sicché il sovrano nel 1225 s'impegnò a partire entro due anni per la crociata, pena la scomunica. A conferma del suo impegno sposò Iolanda, figlia di Giovanni di Brienne, re titolare di Gerusalemme.
Il conflitto, che con Onorio non giunse a estreme conseguenze perché poco prima della scadenza del termine fissato per l'impresa d'Oriente questi morì, esplose violento con il vecchio Gregorio IX (1227-41), uomo ben altrimenti energico, uscito dalla stessa famiglia di Innocenzo III e assertore delle stesse idealità del grande pontefice. Gregorio rivolse esortazioni e minacce a Federico per indurlo a compiere la crociata, e l'Imperatore finalmente dovette partire da Brindisi 1'8 settembre 1227; ma dopo tre giorni di navigazione approdò a Otranto, colpito dalla pestilenza che già alla partenza infieriva nell'esercito. A questa notizia il pontefice lanciò contro Federico la scomunica (29 settembre), motivandola anche con altre ragioni, quale il governo ecclesiastico di Federico in Sicilia. Questi rispose revocando le concessioni fatte alla Chiesa romana, in particolare riguardo ai beni della contessa Matilde, e suscitando tumulti nella stessa Roma contro il papa, che dovette uscire dalla città. Inviò inoltre una lettera ai sovrani d'Europa in propria difesa, e parti un'altra volta per la crociata con forze ridotte a sole 40 galee, sconfessato però da Gregorio, che ne inceppò l'azione proibendo ai cattolici di seguirlo (1228). La nuova crociata, che era la sesta, fu cosi condotta da uno scomunicato; e perciò da alcuni non viene considerata come tale.
Sbarcato in Terra Santa, Federico prosegui anche là quella politica realistica di compromessi che già aveva adottato con i musulmani di Sicilia e di altre terre: usò la diplomazia invece delle armi, e concluse con il sultano d'Egitto al Malik al Kamil un armistizio di dieci anni, ottenendo per i cristiani la restituzione di Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e altre città, oltre a uno sbocco al mare, in cambio della promessa di non dare aiuti ai principati di Tripoli e di Antiochia se essi avessero fatto guerra al sultano. A Gerusalemme Federico cinse la corona reale con le proprie mani, perché gli ecclesiastici lo evitavano come scomunicato; poi rapidamente tornò in Italia, dove gravi avvenimenti reclamavano la sua presenza.
Gregorio IX infatti, dopo la scomunica di Federico, promosse una rivolta in Germania con la predicazione dei Domenicani e con l'accordo dei feudatari; e, approfittando dell'assenza dell'Imperatore, fece invadere l'Italia meridionale da un esercito pontificio sotto il comando del suocero stesso di Federico, Giovanni di Brienne, il quale, essendo già morta sua figlia Iolanda, per ragioni di interesse era divenuto ostile a suo genero. Al suo ritorno Federico cercò di inviare legati a Gregorio per spiegare la sua condotta, e scacciò l'esercito invasore dal suo regno. Il pontefice si trovò isolato, perché non aveva sufficiente aiuto dai comuni lombardi, e tanti principi tedeschi restavano fedeli a Federico; sicché dovette accettare la pace che questi gli offriva. Il patto fu concluso a San Germano (1230) sulla base dello status quo ante, e il papa sciolse l'Imperatore dalla scomunica (28 agosto). Cominciò allora un periodo di relativa calma, che si protrasse per alcuni anni, documentato dall'arrivo di Federico a Roma e dalla confidenziale accoglienza fattagli dal pontefice, il quale ratificò poi (1231) la politica dell'Imperatore in Terra Santa, ordinando al Gran Maestro dei Templari di far rispettare l'accordo concluso nel 1229. Federico aveva cercato un accomodamento perché non aveva in realtà nessun interesse diretto a condurre allora una lotta contro la Chiesa, mentre voleva perseguire i suoi fini politici in Sicilia e, contro i comuni, nel regno d'Italia. Sennonché ciò che Federico aveva operato era effimero: dopo sedici anni Gerusalemme era ripresa dai Turchi, e la pace con il papa non durò.
Federico approfittò di questi anni di tregua per dare ordinamento alle cose dell'Impero e del regno. Nato ed educato in Italia, predilesse la penisola, dove rimase per la maggior parte della sua vita, e considerò il regno di Sicilia come il vero centro del suo dominio, occupandosi poco della Germania, dove favorì i grandi feudatari, specialmente ecclesiastici, concedendo loro privilegi e diritti di governo in modo da renderli quasi indipendenti dal potere regio, e sanzionando perfino, in una dieta riunita a Cividale (1232), la loro sovranità territoriale. Cercò inoltre di rafforzare il loro potere sulle città, annullando i privilegi che esse avevano conseguiti o usurpati nel corso del tempo. Alla cristianizzazione e alla germanizzazione delle province orientali Federico non partecipò direttamente: esse furono opera di principi, come i marchesi di Brandenburgo, e dei Cavalieri Teutonici. La Prussia occidentale fu però convertita da Cistercensi polacchi; e nelle province baltiche la penetrazione del cristianesimo fu opera specialmente di Alberto vescovo della città di Riga, da lui fondata (1201), e istitutore dell'Ordine cavalleresco dei Portaspada, che venne unito poi con quello teutonico (1237).
La politica di Federico a favore dei feudatari, se sotto qualche aspetto era un mezzo per creare antagonismi fra i diversi elementi della vita germanica, corrispondeva però alla politica anticomunale che egli perseguiva. Tale indirizzo politico coincideva con quello del figlio Enrico, proclamato maggiorenne nel 1229. Queste misure suscitarono malcontenti e altri ne suscitò la politica di ostilità e di persecuzione contro gli eretici adottata da Federico in accordo con il pontefice. Enrico, forse tratto a dare altro indirizzo al suo governo vicariale in Germania o incoraggiato dalle crescenti difficoltà a fare una politica personale e indipendente, fini però con il trovarsi a capo dei malcontenti, che, prima dissenzienti, si ribellarono poi apertamente. Pare che Enrico volesse seguire una politica favorevole ai comuni; ma, richiamato dal padre nel Friuli, fu costretto a giurare che avrebbe seguito gli ordini e la politica paterna. Non tenne però fede alla parola giurata: in un abile manifesto, nel quale protestava di non voler mancare ai doveri filiali né offendere l'autorità imperiale, mostrò in realtà di voler insistere nelle sue direttive politiche, levando in questo modo lo stendardo della rivolta. Federico si recò in Germania per fronteggiare i ribelli con l'azione militare, e cercò di rendere vani gli effetti d'una situazione che Enrico aveva complicata con aiuti stranieri. Fu evitato un intervento di Enrico III, re d'Inghilterra, perché Federico ne sposò la sorella Isabella; e le città italiane che già accennavano a far capo a Enrico, furono tenute lontane dalla lotta perché l'Imperatore deferì al pontefice la risoluzione delle numerose controversie sempre risorgenti. La rivolta in Germania poté essere domata (1235); ed Enrico, che si era sottomesso, fu relegato in Puglia, dove morì suicida sette anni dopo (1242). Lasciando la Germania per tornare in Italia (1237), Federico sostituì ad Enrico il suo secondogenito Corrado, appena novenne, che fece eleggere re e designare Imperatore sotto la tutela dell'arcivescovo di Magonza, creato procuratore imperiale di Germania.
Ora Federico, non dovendosi più preoccupare della Germania, cercò di attuare in pieno quella politica anticomunale e assolutistica che già aveva cominciato a svolgere in Italia e nel regno di Sicilia. Qui cercò di attuare i suoi ideali politici mediante il riordinamento di tutta l'amministrazione, e attese a quest'opera sistematicamente, anche se di tanto in tanto le vicende politiche e militari lo costrinsero a interromperla. Emanò quindi provvedimenti diversi, i quali tutti si assommarono e culminarono nelle famose Constitutiones Regni Siciliae, che furono dette comunemente Costituzioni di Melfi (1231) perché fatte accettare e proclamare da una dieta convocata a Melfi. In questa, accanto ai rappresentanti della nobiltà, si trovarono i rappresentanti del clero e della borghesia, perché le costituzioni stesse sancivano il principio dell'uguaglianza di fronte al sovrano e alla legge di tutti i sudditi, fossero nobili o meno. Si tratta di una raccolta di alcune delle migliori disposizioni legislative date dai Normanni e di moltissime leggi di Federico. Le informa l'ideale dell'assolutismo sovrano e vi si sente, con il pulsare dei tempi nuovi, l'interesse per il diritto di Giustiniano, al quale si ispirarono i due consiglieri di Federico, Taddeo da Sessa e Pier delle Vigne, seguendo le orme dei giuristi di Bologna e della Sorbona. Si dava al regno un carattere burocratico, per cui ogni autorità doveva dipendere dal re ed essere esercitata da lui o dai suoi ufficiali. A capo dell'amministrazione gerarchicamente organizzata stavano una Magna Curia o tribunale supremo per la giustizia, e una Magna Curia Rationum o Corte dei conti per le finanze. Sotto il Gran giudice, capo del tribunale supremo, stavano nelle province i giustizieri (giudici criminali e capi di polizia); sotto il Gran Camerario, capo della seconda Curia, stavano i camerari per gli affari finanziari e civili. Inferiori ai giustizieri e ai camerari erano i baiuli, con funzioni miste. Anche all'esercito e alla marina fu dato notevole sviluppo, e fu costituita un'amministrazione militare centrale. Un'altra questione importante risolta fin da principio da Federico fu quella dei musulmani di Sicilia, tradizionalmente fedeli e devoti alla monarchia ma irrequieti e turbolenti, anche per la generale avversione che verso di loro sentivano i cristiani. Federico li trasferì in parte a Lucera nella Puglia e in parte a Nocera in Campania, che fu perciò detta dei Pagani. La colonia di Lucera fu particolarmente numerosa, e il re vi costruì un castello per tenerla a freno; ma ne trasse anche esperti coltivatori e valenti soldati. Sottomise la Chiesa alla giurisdizione e al fisco regio, non consentendole giurisdizione sui laici se non per l'adulterio, e vietandole di acquistare terre; non consentì che si ricorresse a Roma se non per cause religiose. Mirabile impulso ricevette anche la cultura. Poiché Bologna si era schierata contro Federico, egli decretò il trasporto della sua università a Napoli; il trasferimento non avvenne, ma a Napoli sorse lo Studio Generale (1224). Da esso uscirono i migliori collaboratori di Federico, coloro che posero la propria scienza e la propria esperienza politica a servizio dell'Imperatore e del suo ideale politico, come i già ricordati Taddeo da Sessa e Pier delle Vigne. Fu curato il miglioramento della scuola salernitana di medicina, e la corte di Palermo divenne un centro importantissimo della nascente poesia volgare; poetò lo stesso Federico, e poetarono anche i suoi figli.
Federico riuscì ad affermare la sua autorità e a imporsi dando l'impressione di essere il primo sovrano assoluto dei tempi moderni. Sotto di lui il regno di Sicilia godette di un periodo di prosperità mai avuto in altri tempi. Esso costituiva il centro dell'organismo politico più vasto che ci fosse in Occidente; nell'interno vi era pace e l'autorità del re e le sue leggi erano rispettate. Fiorivano la produzione economica e gli scambi, per quanto lo consentivano le condizioni naturali del Paese e le norme legislative; la cultura si diffondeva tra i laici. Poteva sembrare che quel regime dovesse essere duraturo; ma nello Stato e fuori di esso crescevano i germi dissolvitori e le forze avverse, come il papato, i feudatari e i comuni.
Doveva fatalmente ricostituirsi l'alleanza fra il papato e i comuni contro l'Imperatore quando questi, riordinato il regno di Sicilia, volle estendere la sua influenza su tutta l'Italia, riprendendo per suo conto la causa perduta dal nonno Barbarossa.
Negli anni trascorsi dalla tregua di Venezia (1177) e dalla pace di Costanza (1183) fino all'avvento al potere di Federico II il corso della vita dei comuni italiani, che sentivano di avere assicurata per lungo tempo la loro indipendenza politica, assunse un ritmo di rapido e febbrile accrescimento. La popolazione venne aumentando; alcune città costruirono nuove cinte di mura a difesa; si accrebbe la potenza della nuova borghesia; si svolse un'attiva e rinnovatrice politica agraria; si fece più manifesta la crescente preminenza di alcune città a danno di comuni minori; si svolse meglio il nuovo diritto civile; si codificarono consuetudini e si contrapposero al vecchio diritto feudale; la bellezza delle città, fattesi indipendenti, si accrebbe in ragione della ricchezza, dell'orgoglio, del senso artistico dei cittadini.
Duravano tuttavia le lotte delle città fra loro, e quelle fra città e feudatari; entro ogni comune si scontravano opposte fazioni di cittadini, e di là dalle mura proprietari e contadini; né si combatteva isolatamente, ma si stringevano e si scioglievano con rapidità leghe fra gruppi di città ostili. Tuttavia il regime comunale si venne diffondendo largamente nell'Italia continentale, perfino nei territori appartenenti al papa come la Toscana, dove Enrico VI riconobbe il comune di Firenze e la sua giurisdizione sul territorio circostante, e dove Firenze, pacificatasi con Siena e accordatasi con Lucca, con Prato e con San Miniato, gettò le basi di una vasta Lega Toscana, da cui era esclusa Pisa (novembre 1198). Nel patto d'alleanza le città dichiaravano di essersi strette in lega per mantenere fra loro la pace, s'impegnavano ciascuna a non far pace separata con re o imperatori, e aggiungevano che non avrebbero riconosciuto alcun re o Imperatore senza il consenso del pontefice. Era questo un emanciparsi tanto dalla giurisdizione dei re d'Italia quanto dall'Impero; ma la Lega Toscana, nonostante le sue reverenti espressioni, mirava a emancipare i propri comuni anche dalla Chiesa. Il fenomeno comunale si era diffuso anche nell'Italia meridionale e nella Sicilia, dove la forte compagine della monarchia normanna era riuscita a frenarlo, e dove poi cercò di paralizzarlo con leggi e riforme Federico II. Per qualche tempo questi fu assorbito dalla lotta civile contro Ottone IV per il regno di Germania, e alle sorti dei comuni italiani non dedicò molta attenzione. Ciò non toglie che la lotta che si svolgeva in Germania avesse ripercussioni tra le città guelfe e ghibelline d'Italia, tanto che Milano aveva sostenuto Ottone contro Federico appoggiato da Innocenzo III. Nel 1213 Federico pronunciò il bando contro Milano, Piacenza, Lodi e altre città guelfe in lotta contro altre città ghibelline; ma grazie all'intervento pontificio le divergenze furono appianate, e Federico continuò a rispettare il trattato di Costanza. Quando poi per la Pasqua del 1226 l'Imperatore indisse una grande dieta a Cremona, nel cuore del regno d'Italia, le città lombarde furono vivamente impressionate, sia perché Federico voleva parteciparvi con numerose forze armate, reclutate in Sicilia e in Germania, sia per il programma che si annunciava. Il programma dichiarato era quello di prendere gli ultimi accordi per la crociata a cui Federico si era impegnato; ma egli voleva anche affermare sulla penisola italiana la sua autorità. Allora parecchie città della Lombardia, del Piemonte, del Veneto e dell'Emilia rinnovarono la lega del 1167, e con le loro forze armate chiusero i passi che dal Trentino scendono in Italia. Le richiese della Lega diedero luogo a difficili trattative, nelle quali Federico si mostrò abbastanza remissivo; ma un accordo non fu raggiunto, ed egli rinnovò contro le città colpevoli di lesa maestà il bando dell'Impero. Con le città erano messi al bando i sudditi feudali che fossero rimasti loro fedeli e i loro amici e alleati senza distinzione (12 luglio 1226).
Nemmeno allora Federico agì subito contro i comuni; anzi richiese l'intervento di Onorio III, che accettò ma non condusse a termine quella missione difficile e delicata perché colto dalla morte. Si è già visto come Federico fosse scomunicato da papa Gregorio IX e che questi si alleasse con la Lega Lombarda. La pace di San Germano (Cassino) ristabilì un accordo, sia pur provvisorio; ma la promulgazione delle Costituzioni di Melfi aprì la via a nuovi dissidi con Gregorio IX, che protestò vivacemente contro il loro contenuto e definì Federico "persecutore della Chiesa e distruggitore delle pubbliche libertà". Decisa fu poi l'opposizione a quelle leggi dei comuni del regno di Sicilia e di quelli dell'Italia settentrionale, sudditi anch'essi dell'Imperatore e re d'Italia. Federico procedette allora duramente contro le città siciliane ribelli, mise a morte i capi dell'insurrezione, rase al suolo Centuripe e Montalbano e ne deportò gli abitanti in una città di nuova fondazione, Augusta; quindi indisse una nuova dieta per il regno Italico in Ravenna, mandando nello stesso tempo una serie di avvisi e di intimazioni ai diversi comuni d'Italia e di Germania per riaffermare la sua autorità nei due regni. I comuni della seconda Lega Lombarda rinnovarono immediatamente la loro alleanza, e a essi si unirono molti altri comuni italiani, sorti da poco; poi chiusero di nuovo i passi delle Alpi, e decisero di non intervenire alla dieta.
Questa ebbe luogo con l'intervento di pochi rappresentanti, e contro i comuni fu rinnovato il bando. L'appello dell'Imperatore alla mediazione pontificia non aveva avuto buon risultato per l'intransigenza delle città. L'Imperatore, non sentendosi abbastanza forte contro i comuni si appoggiò ad alcuni signori che aspiravano a dominare nelle città, principali fra essi Ezzelino da Romano e suo fratello Alberico, potentissimi signori della marca veronese, divenuti podestà l'uno di Verona e l'altro di Vicenza, i quali potevano facilitargli le comunicazioni con la Germania. A questa politica i comuni risposero sostenendo il figlio dell'Imperatore, Enrico, nella sua ribellione contro il padre (1234) e divampò la guerra. Domata la ribellione in Germania, Federico si accinse alla guerra contro i comuni, presumendo che la questione italiana sarebbe stata in breve risolta. Alla testa di forze più considerevoli del solito, approfittando dell'accordo con Ezzelino, Federico scese in Val Padana, assoggettò Bergamo, prese e saccheggiò Vicenza (1236), costrinse Mantova a staccarsi dalla Lega, occupò Padova, e in un inaspettato fatto d'armi sconfisse a Cortenuova presso Bergamo l'esercito della Lega (27 novembre 1237). Tutte le città della Lega dovettero arrendersi al vincitore, il quale, annullata la pace di Costanza, diede un nuovo ordinamento generale al regno d'Italia. Tutto il territorio a nord del regno di Sicilia e di Puglia, escluso il territorio della Chiesa, avrebbe avuto un luogotenente imperiale, e sarebbe stato diviso in cinque parti sotto cinque vicari; le principali città avrebbero avuto dei funzionari militari e civili, cioè dei capitani e dei giustizieri.
Fu un trionfo effimero, e l'Imperatore ebbe torto a farsi delle illusioni. Le forze della Lega non erano prostrate: Milano e Brescia resistevano, e la volontà della rivincita non poteva tardare a risorgere negli altri comuni, mentre i rapporti di Federico con la Chiesa erano diventati sempre più tesi. Dopo la battaglia di Cortenuova e dopo che erano fallite le prime trattative di Federico con i comuni, Gregorio IX aveva proposto ancora la sua mediazione alle due parti (giugno 1238); ma la proposta fu respinta dall'Imperatore, e inoltre poco dopo i Ghibellini in Roma si fecero così minacciosi da costringere il papa ad abbandonare la città. Il pontefice, riuscito a rafforzare la Lega Lombarda con un accordo dei Veneziani e dei Genovesi fra loro e con lui (30 novembre 1238), lanciò di nuovo la scomunica contro Federico, sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà (20 marzo 1239). Uno dei tanti pretesti per rinnovare la lotta fu il matrimonio concluso da Federico tra Enzo, suo figlio naturale, e Adelasia, signora d'una parte della Sardegna, e il titolo di re di Sardegna dato dall'Imperatore al figlio, mentre l'isola era considerata dai papi soggetta alla loro sovranità, e tale era stata riconosciuta nel 1213 dallo stesso Federico. Questi, cercò di difendersi dalle sedici accuse contenute nella scomunica con una lettera indirizzata ai principi e ai popoli; seguì una serie di libelli redatti dalle due cancellerie, papale e imperiale, con i quali per la prima volta si faceva appello all'opinione pubblica nella grande contesa fra le due parti. L'Imperatore, deciso ad adoperare le armi contro Gregorio, mosse su Roma (febbraio 1240); ma il pontefice seppe mantenere dalla sua parte il popolo, e Federico si ritirò. Intanto si svolgeva aspra la guerra fra Guelfi e Ghibellini nell'Italia superiore: Ezzelino inferociva nella marca trevigiana; i Veneziani, eccitati dal papa, assalivano la Puglia, e alla guerra marittima partecipavano anche i Genovesi, mentre contro le due repubbliche Federico eccitava da una parte la ribellione di Pola e di Zara e dall'altra i Pisani e il feudatario Oberto Pelavicino.
Federico aveva proposto al papa di convocare un concilio per decidere sulle reciproche accuse, ma Gregorio non poteva accettare, non volendo ammettere la costituzione di un ordine giurisdizionale al di sopra dell'autorità pontificia. Il papa convocò invece un concilio generale per condurre a termine la dura lotta e ratificare la condanna di Federico. Questi vietò ai prelati suoi sudditi di parteciparvi, e cercò di impedire che il concilio si riunisse. I Genovesi si offrirono di trasportare via mare da Nizza a Ostia i prelati francesi, inglesi e spagnoli; ma Federico inviò loro contro l'armata di Sicilia sotto il comando del profugo genovese Ansaldo de' Mari, il quale, unitosi con una squadra pisana, assalì e vinse presso l'isola del Giglio la flotta genovese e fece prigionieri i prelati, che in parte si riscattarono e in parte furono relegati nei castelli di Puglia e di Sicilia (maggio 1241). Questa vittoria ebbe grande importanza, perché impedì che il concilio avesse luogo e ridiede animo alla parte ghibellina: Federico mandò l'armata imperiale a molestare la riviera ligure e marciò un'altra volta a capo dell'esercito delle città ghibelline contro Roma, deciso a imporre con la forza la pace al vecchio pontefice. Proprio allora Gregorio moriva (22 agosto 1241) e dopo il breve pontificato di Celestino IV e un anno e mezzo di sede vacante, fu eletto il genovese Sinibaldo dei Fieschi, che assunse il nome altamente significativo in quell'ora di Innocenzo IV (1243-54). Questi era stato favorevole a Federico, ed era amico suo personale; ma eletto pontefice si mostrò poco arrendevole verso Federico, che intavolò trattative di pace, facendo importanti concessioni. Gli accordi fallirono perché il nuovo pontefice voleva decidere anche il conflitto dell'Imperatore con le città lombarde, di cui Innocenzo si fece aperto tutore per averne in cambio sostegno e aiuto. Rotte le trattative, Innocenzo si recò su navi genovesi in Francia e convocò a Lione, città dell'Impero, quel concilio che Gregorio non aveva potuto tenere in Roma per giudicare Federico. L'Imperatore citato non vi si recò in persona, ma inviò i suoi legati, fra i quali il suo ministro Pier delle Vigne e Taddeo da Sessa, che invano tentarono di difenderlo: non ottennero neppure che fosse fissato un termine perché egli potesse essere sentito personalmente. L'ultima seduta (17 luglio 1245) si concluse con la terza scomunica di Federico, dichiarato spergiuro, sacrilego, sospetto di eresia, violatore della pace stabilita fra la Chiesa e l'Impero e dei suoi doveri feudali come re di Sicilia. Egli veniva spogliato di tutte le sue dignità, e si proibiva di obbedirgli; inoltre si invitavano i principi tedeschi a scegliere un nuovo re, mentre per la corona di Sicilia il pontefice si riservava ogni decisione. Federico protestò contro tale sentenza dichiarando che essa era un abuso di potere da parte del pontefice; ma questi la difese con un'epistola indirizzata ai principi, nella quale svolse la teoria papale della subordinazione del potere temporale a quello spirituale e i frati Mendicanti predicarono una nuova crociata contro l'Imperatore.
Alla condanna papale e alla predicazione dei monaci Federico contrappose altre violenze e i popoli sciolti dal giuramento di fedeltà si ribellarono contro di lui soltanto quando furono spinti a farlo dai loro interessi materiali. In Italia, continuò la guerra fra Guelfi e Ghibellini: si combatté fra le città collegate e l'esercito imperiale comandato da Enzo re di Sardegna; vi fu guerra tra Genova e Pisa; scoppiarono sommosse domate con la forza; le congiure ordite contro la vita di Federico furono sventate. In Germania dopo la rivolta dell'arcivescovo Sigfrido di Eppenstein, l'Imperatore, che aveva fatto proclamare re dei Romani il figlio Corrado, aveva affidato la reggenza dell'Impero a Enrico Raspe, landgravio di quella Turingia che era in guerra da secoli con l'arcivescovado di Magonza. Dopo la condanna di Lione anche il Raspe passò dalla parte dei nemici di Federico: e una parte dei principi tedeschi, prevalentemente ecclesiastici, lo elesse re di Germania (22 maggio 1246), anzi lo designò come Imperatore. Enrico sconfisse il vero re Corrado, ma morì poco dopo (1247); l'opposizione guelfa di Germania elesse allora come suo successore Guglielmo d'Olanda, che riprese vigorosamente la lotta (1247-56). I due "re dei preti" (così furono chiamati) non riuscirono però a trionfare in Germania, perché trovarono i loro fautori quasi esclusivamente nell'elemento ecclesiastico. Inoltre la lotta fu abilmente sostenuta per Federico dal figlio Corrado, il quale non si peritò di invocare l'aiuto dei nobili minori e dei comuni tedeschi, che prima l'Imperatore aveva combattuto e cercato di umiliare. In questa occasione le città tedesche ebbero modo di consolidare e di accrescere privilegi e prerogative, che vennero meglio utilizzati in seguito, nel periodo di disgregazione del regno.
Fallirono i tentativi fatti dal re di Francia Luigi IX per giungere a un accordo tra Innocenzo e Federico, nel tempo in cui Gerusalemme era di nuovo caduta in mano ai musulmani ed egli si accingeva alla nuova crociata bandita dallo stesso Concilio di Lione. L'Imperatore, disperando di poter piegare in altro modo il suo implacabile avversario, decise di andare a catturarlo a Lione, dov'era rimasto dopo il concilio, e di imporgli con la forza la pace. In Italia la guerra si svolgeva soprattutto nella parte settentrionale, dove due figli illegittimi di Federico, Enzo e Federico di Antiochia, insieme con Ezzelino, capeggiavano le forze ghibelline. Ma mentre Federico era a Torino, pronto a recarsi attraverso le Alpi nella Borgogna, gli giunse inattesa dall'Emilia la notizia che anche la ghibellina Parma era insorta e s'era unita alla Lega Guelfa. Egli accorse a investire la città e le costruì di fronte un'altra città imperiale fortificata, a cui diede il nome augurale di Vittoria; ma una fortunata sortita degli assediati, sorprendendo gli imperiali impreparati e dispersi, portò alla presa e alla distruzione di Vittoria (18 febbraio 1248). Anche nell'Italia meridionale e in Sicilia la situazione si era fatta grave: fra i principali motivi che provocavano il malcontento delle popolazioni, era il fatto che dopo l'interdetto pontificio non si potevano celebrare le funzioni religiose. Si aggiunga che nonostante la forte pressione tributaria, che la guerra continua aveva resa intollerabile, lo Stato doveva contrarre prestiti a breve scadenza e a interessi usurari. Nella corte si giudicava aspramente la politica del re, che conduceva il Paese a rovina, e si ricominciò a congiurare contro la sua vita. Anche Pier delle Vigne, uno dei maggiori artefici delle Costituzioni di Melfi e il più fidato dei ministri di Federico, fu accusato di tradimento e condannato a morte; accecato in carcere, morì poi suicida (gennaio 1249). Pochi mesi dopo i Bolognesi sconfissero le milizie imperiali a Fossalta (maggio 1249) e fecero prigioniero il loro generale, il re Enzo, destinato a morire in prigione dopo lunga detenzione (1272). La notizia colpì crudelmente Federico, che aveva particolare affetto per questo figlio. Tuttavia, benché fiaccato da tante disillusioni, volle ancora resistere e sperare nella vittoria finale. Si ritirò nel regno di Sicilia per riprendere la lotta, ma morì dopo brevissima malattia a Castel Fiorentino, presso Lucera, il 13 dicembre 1250. Scomparve così a 56 anni, in modo inatteso, il protagonista di uno dei periodi più grandiosi e convulsi della storia dell'Occidente.
Intorno a lui si pronunciarono contrastanti giudizi, per esaltarlo o per umiliarlo: ed era naturale, perché nonostante le doti di cui era fornito non possedeva una perfetta unità spirituale. Per il suo carattere, per i suoi gusti, per le sue idee, per i suoi atti, Federico II preannunziò l'uomo nuovo, in certo modo il Principe del Rinascimento italiano. Con il suo temperamento ardente e passionale cedette ai sensi e al lusso; di intelligenza acuta e vivace, amò le scienze e la poesia, convinto che senza di esse la vita dell'uomo non avrebbe avuto uno scopo degno; cresciuto in un triste isolamento, senza i genitori, si rafforzò nel suo animo la convinzione che bisognava tenere nascosti agli altri i propri disegni, e fu abilissimo dissimulatore. Fra i sentimenti che lo mossero dominò quello della sua dignità imperiale e la coscienza dei doveri a lui imposti dalla sua posizione. Nella realizzazione del suo ambizioso programma fallì: i tempi non erano adatti e troppe furono le circostanze avverse. Intorno alla sua morte doveva fiorire, con le notizie contraddittorie, la leggenda. Una corrente ostile a Federico lo fa morire attorniato da astrologi e da Saraceni suoi devoti; altri narrano che indossò l'abito dei Cistercensi e morì confessato e assolto dall'arcivescovo di Palermo, Berardo, suo amico. Per le sue lunghe lotte contro il pontefice fu identificato con l'Anticristo delle profezie dell'abate Gioacchino da Fiore; ma poiché l'Anticristo non poteva morire se non dopo compiuta la sua opera nefasta, si svolse la leggenda che Federico II non era morto, ma stava addormentato in una caverna, da dove un giorno sarebbe ritornato alla vita. Il popolo riferì poi questa leggenda al suo avo Federico Barbarossa.
Con la fine di Federico cominciò il crollo della Casa sveva: la morte di Manfredi a Benevento nel 1266 e la sconfitta subita da Corradino a Tagliacozzo (seguita dalla sua morte a Napoli) nel 1268 non furono che gli ultimi segni dell'inevitabile catastrofe.
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