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- UN PO' DI STORIA -


LA CORSA
testo ripreso da libro: "Siena, il Palio" di Giulio Pepi, edito dall'Azienda Autonoma del Turismo

La "pista" color giallo dorato si svuota, ritorna ad essere uno spazio aperto all'episodio finale della liturgia. Lentamente, dietro il corteo che procede, la scorza di tufo liscio che occulta le pietre per darsi al galoppo dei cavalli, si apre libera verso il cielo. Intorno, la folla variopinta, il brusìo intenso, la trepidazione che rotola ed evapora in un'aria pesante, oleosa, impregnata di eccitazione soffocante e contagiosa. La grande tribuna per i componenti il corteo, è ora colma di uomini e di colori. Diciassette alfieri, disposti in una lunga fila davanti al Palazzo Comunale, eseguono congiuntamente una sbandierata di saluto ("l'ultima sbandierata", la chiamano i senesi con il senso dell'implacabile arrivo del momento fatale). Il "Palio", tolto dal carroccio, viene recato, da un gruppo di uomini in costume, al "Palco dei giudici", presso l'arrivo (che è anche la partenza).
All'interno del cortile del Palazzo Comunale, le prime ombre della sera stanno in agguato. I cavalli, irrequieti, scalpitano sui mattoni. I fantini, deposti gli smaglianti costumi da parata, hanno indossato giubbetto e pantaloni di tela con i colori e lo stemma della Contrada, leggeri come un pigiama, finissimo lembo simbolico con il quale si affronta la difficile giostra, l'abbraccio del destino. Sul capo, a differenza delle corse di prova, calcano ora uno "zucchino", un elmetto metallico dipinto çon i colori della Contrada, con visiera e copri-collo. E' una difesa dalle cadute o dai colpi di nerbo dei fantini avversari.
La gente "sente" che il compimento della celebrazione è vicino. Il campanone ha smesso di suonare e il silenzio vola dietro le note grevi degli ultimi rintocchi. L'aria è stiepidita nel misterioso arancio del tramonto estivo, che promette notti di incantevoli rivelazioni. Si procede verso una strana dimensione, dove passato e futuro sembrano coincidere e unificarsi. Il momento della vittoria. Il pensiero della sconfitta è troppo crudele per infierire nei pensieri. E la vittoria è, per gli spettatori sprovveduti e distanti, una comprensibile soddisfazione. Per il contradaiolo è una traslazione che si impadronisce di lui.
Coloro che ancora sognano, ripudiando la proterva grinta e l'egoismo; coloro che hanno vissuto realmente la sofferenza e la gioia e per i quali l'umiliazione nell'amore è una specie di lavacro; coloro che non hanno paura della luce o di essere guardati negli occhi e per i quali il cuore non è arida valvola di pompaggio, sanno immedesimarsi a tal punto da lasciarsi travolgere da questo imprevisto uragano.
Parte un colpo, al cenno di una bandierina bianca, dalla strana gabbia del mortaretto. I fantini sono già a cavallo e, fra la piccola nube azzurra del petardo che ristagna sulla folla, i "barberi" escono uno ad uno dall'entrone del cortile del Podestà.
Vengono all'aria dalla buia spelonca delle lunghissime attese, a volte di dieci, venti anni. Forse potrà sciogliersi il nodo liberatorio, o forse la sorte si rivestirà dei panni della malefica strega dei crudeli abbandoni, e ripeterà il suo diniego voluttuoso e sadico.
Due vigili municipali tendono il braccio con i nerbi che i fantini sfilano. La loro origine è antica, già precedente al "sovatto", e le schermaglie fra fantini non erano come quelle attuali, ma feroci e cruenti se, nello statuto del 1262, era stabilito che quelli "qui currerent eques", non potevano essere tenuti responsabili dell'omicidio o del ferimento altrui, a condizione che "predicta maleficia non committerent studiose". Non ci fosse, cioè, omicidio volontario.
Le chiarine suonano e i loro squilli sembrano diversi. Un attimo sospende il lento avviarsi alla partenza. I fantini salutano, con il nerbo in alto, gli ospiti illustri affacciati alle trifore di Palazzo.
Dinanzi ai due canapi tesi, il gruppo sosta. Poi, uno ad uno, chiamati dal "mossiere", secondo un ordine che ha stabilito un marchingegno ed è rimasto segreto fino a pochi minuti prima, entrano nello spazio. Il nervosismo degli uomini passa, per contatto, alle bestie. Sono attimi che scavano rughe nell'anima come secoli. Fianca in avanti l'ultimo e scatta il canape.
È una cometa variopinta che scivola sulla pista, abborda la prima, insidiosa curva. Qualcuno rotola nella polvere e tanti volti si abbassano, gli occhi si riempiono di lacrime, i denti mordono le labbra: il sogno è triturato.
Gli altri volano sull'invisibile binario senza congiunture certe, senza scambi dallo scatto preciso e combinato. Navigano nell'incertezza, in braccio al caso, sprigionando pensieri che sono preghiere, con l'aria che brucia e la gente che si è stranamente fusa in due lunghe strisce che rombano e tuonano e assordiscono. Prigionieri di un cavallo che corre, di un possibile precipizio, di un traguardo agognato. Schiacciati dal peso di tante promesse e dalle altrui speranze.
L'arrivo, lo scatto impetuoso del primo, che porta in alto il nerbo per lo scoppio di una felicità fuorviante, tanto è simile al sortilegio o all'annullamento nel totale amplesso d'amore. Nel 1842 Giuseppe La Farina scriveva: "Qui si comprende come un vincitore dei Giochi Olimpici potesse meritare statue e templi". Bandiere intorno, mille mani che strappano, poliziotti inermi che vorrebbero proteggere, urla incomprensibili, il groppo che sale.
Hanno vinto: sono quelli che si rotolano per la pista, che svengono dall'emozione, che non possono sostenere l'esultanza sulle proprie spalle con i centomila ricordi, perché è anche l'esultanza di coloro che non ci sono più, dei padri, dei nonni, degli amici nelle lontane tombe che ora ritornano e si intravedono in attimi deliranti. Sembra di camminare leggeri, sfiorando la terra, come nei sogni, in una ineffabile sublimità.
Il Palio viene lentamente calato dal palco dei giudici, ligneo, aereo ponte sulla Costarella dei Barbieri. Le bandiere di tutte le aggregate e amiche salutano, sventolano, partecipano (a volte per dovere, con gli alfieri dal dolore represso, a volte con sfrenata adesione). La Collegiata di Provenzano (o, d'agosto, il Duomo) attende il corteo dei vincitori per il "Te Deum laudamus". Dopo, fra urla, canti, gioia troppo a lungo repressa, si raggiunge la Contrada, la bella, cara Chiesa di Contrada, le ridenti strade e gli allegri vicoli, la gente che balla con il sano ritmo balordo e felice di una divina letizia, gli abbracci, i sorrisi storti dal pianto nervoso, il premio di anni, la fine di un incubo, la costruzione di un pilone del ponte che viene dalle nebbie del passato e si protende luminoso nel futuro.
Domani il giro del trionfo, con il cavallo-uomo, il cavallo-dio, il cavallo-simbolo con gli zoccoli dorati. Tante bandiere e costumi e gente intorno al Palio, alla grande seta con trasparenti immagini. Per molti giorni ancora. Perché scrivere una pagina di vittoria è bello e deve durare. Fino a settembre, alla grande e magica cena celebrativa, con il cavallo (sempre lui) presente al posto d'onore, fra luci e musiche per la lunga strada o la grande piazza.
Gli altri, i vinti. Un quadro disperato. Sussulti di collera tesi a una vana liberazione; irrazionali e scomposte accuse; atroci e immaginifici dubbi. Le annose stalattiti, stille di candide illusioni, sono precipitate giù negli improvvisi baratri. Solo un alto ventaglio di luce e lame di pulviscolo biondo, restano in cielo, lottando con sempre più debole forza contro la notte. Le cose a poco a poco assomigliano già alle ombre, ad avviliti fantasmi. La sconfitta è messaggero dell'inferno.
L'orologio riprende il suo imperturbabile cammino e il tempo si apre per essere via via aggiunto ai cinque, dieci, quindici, venti anni e più, che hanno consumato la vita di inutili attese, di fantasiosi programmi, di impossibili ritorni. La sorte non ha deposto la sua ignobile maschera di insensibile egoismo. Non si è sentita in colpa per l'annoso, pertinace, feroce rifiuto.
La disperazione trova però, lentamente, un suo spessore, subisce una trasformazione. Ritorna l'antica, indomita speranza. La Contrada ripristina la volontà competitiva, il giovanile e orgoglioso impulso per ripartire; tutto rientra nella dimensione senese, che può significare anche una sofferta assimilazione delle altrui vittorie, che sono pienamente tali solo in quanto, visibilmente o meno, appartengono anche alle altre, appartengono alla storia di un popolo.
Resta vero quello che scrisse Carlo Cassola: "Il Palio non vive la vita stentata delle tradizioni ormai logore, che sussistono per la forza d'inerzia, che sono tollerate, ma a cui nessuno piu crede. Fin che ci saranno degli uomini che indosseranno i costumi rinascimentali senza vergognarsi, ma anzi con fierezza e con gioia, non ci sarà pericolo che la secolare tradizione del Palio invecchi".



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