QUEL SANTO GIORNO
testo ripreso da libro: "Siena, il Palio" di Giulio Pepi, edito dall'Azienda Autonoma del Turismo
L'alba del Palio segna sempre un giorno importante per i senesi. La
città dall'anti-vigilia è imbandierata: ai confini sventolano le
bandiere delle Contrade a rimarcare autorevolmente la giurisdizione,
alle finestre delle case la bandiera della Contrada; sopra le colonne
sovrastate dalla Lupa nei tre punti consacrati dalla storia, gli
stendardi dei Terzi; ai palazzi gentilizi i vessilli delle casate.
È l'attesa, che sente di arrivare al termine per sbloccarsi
definitivamente verso una dimensione irradiante, o per proseguire, con
livida delusione, verso l'indecifrabile futuro.
C'è anche il ricordo, a volte stressante, di persone care che si
schiudevano tutte in questa sagra umana che è quasi una scommessa di
non morire, che esalta la loro presenza invisibile. C'è uno scatenarsi
di sensazioni e sentimenti che è difficile non avvertire. Al caso, è
più difficile spiegare.
La mattina, sotto calma apparente, si corre la sesta ed ultima
prova. "Provaccia", viene comunemente definita. Ed è tale in realtà. Il
finale è troppo vicino perché sia possibile anche il più leggero spreco
di energia.
Dalle undici a mezzogiorno è solitamente fissata la riunione, durante
la quale ogni Capitano presenta al Sindaco e ai Deputati della Festa
il proprio fantino. Un verbale accoglie le sue generalità. Ora, non
potrà più essere cambiato né sostituito (il cavallo è insostituibile
dal momento dell'assegnazione; se un incidente gli proibisce di
presenziare al Palio, la Contrada sarà costretta a non partecipare).
Alle quindici, suona il campanone per la terza volta (la prima alle
otto del mattino, la seconda a mezzogiorno). E'la chiamata a raccolta
di tutte le Contrade, sia che partecipino sia che non partecipino al
Palio; di tutte le magistrature del Comune, di tutte le rappresentanze.
Nelle Chiese delle Contrade che correranno il Palio, si svolge la
breve, accorata cerimonia per la benedizione del cavallo e del
fantino. Torna a vestirsi di immortalità l'offerta degli uomini e
l'invocazione alla divinità propiziatoria.
Diverse superstizioni si muovono anche sul filo della benedizione, come
sul posto (sorteggiato) della bandiera della propria Contrada a una
colonna del Duomo per la festa del Corpus Domini, se di luglio, per la
festa dell'Assunta, se d'agosto. Il desiderio espresso forte sulla
scia delle stelle cadenti. Perfino la direzione del vento, che strappa
colorati palloncini dalle mani dei ragazzi e li porta in alto, come
piccole gocce vaganti, è segno divinatorio. Ancora qualcuno segue la
direzione del volo delle rondini o dei corvi, elenca certi passati
avvenimenti se si ripetono (nella speranza che portino la stessa
conclusione), e molti seguono l'andamento della sbandierata degli
alfieri perché nessun vessillo cada sul tufo, si intrighi, si avviluppi,
quale nefasta premonizione. Le antichissime voci degli aruspici,
insomma, risorgono.
Grande fermento presso le sedi di tutte le Contrade. Le belle vesti,
le armature, le bandiere, i tamburi, sono presi dagli armadi che si
spogliano quasi sospirando. La "comparsa" si forma, si incolonna. Rulla
il tamburo il passo lento di marcia, per guidarla verso prestabiliti
punti della città, a rendere i tradizionali omaggi fra i quali, l'ultimo
e più importante, all'Arcivescovo.
La riunione è nel vasto cortile del cinquecentesco palazzo del
Buontalenti, in Piazza del Duomo. Di qui il corteo, incolonnato, si
dirige verso la Bocca del Casato da dove fa ingresso, preceduto da un
colpo di mortaretto, in Piazza del Campo.
Tutta la pista è sgombra. È passato come un turbine, fra gli applausi,
un drappello di Carabinieri a cavallo: anche questa è una nota non
"folcloristica" e tutt'altro che anacronistica. Significa la continuità
del potere politico che dall'antica Repubblica (rappresentata in Piazza
dai suoi balestrieri o dai "miles" delle Masse, che davano maggior
affidamento di neutralità di fronte alle cittadine Contrade) passò ai
Medici (presenti con le Lance Spezzate), ai Lorena (con gli Ussari
della Guardia, i Cacciatori a cavallo o i Dragoni) e, infine, alla
nuova nazione italiana.
Un solo sbocco è rimasto aperto. Collega, come un breve nastro
brulicante, Via Malborghetto con l'interno del Campo. Attraverso questo
immissario, passano i ritardatari. Nessuno ha mai saputo con precisione,
malgrado nobili e scientifici tentativi, quanta gente contiene la
Piazza (ivi compresi i palchi, i balconi, le finestre, le torri, i
tetti). Nei giornali si è parlato di settantamila, ottantamila: un
numero probabilmente esagerato ma forse, in tempi privi di televisioni
"in diretta", abbastanza esatto. La città si svuotava. Per le strade
era silenzio. Ora, invece, migliaia di spettatori rimangono tagliati
fuori. Nelle Società di Contrada la gente fa ressa di fronte agli
apparecchi televisivi. Nelle Chiese, in appartata quiete, si prega.
Il campanone suona in vetta alla Torre del Mangia per tutta la durata
del lungo corteo. Sparge i suoi gravi rintocchi fra i marmi della
Cattedrale, sù per i vicoli di Castelvecchio, per le piagge di
Fontebranda o d'Ovile, raggiunge Camollia, San Marco, i Tufi. Si
confonde con l'amabile tintinnìo dell'acqua che zampilla sulle tazze
della fonte dei Pispini. Penetra, come un mesto richiamo, per i larghi
voltoni della Misericordia o sorvola il fiorito colle di Laterino dove
dormono, dietro le lapidi segnate dai simboli delle Contrade, i senesi
scomparsi. Raggiunge i lontani castelli e le colline di creta, spezza
il grande e giusto silenzio della campagna verde di ulivi e di viti
che il sole, nel suo arco calante, rende vellutata e soffice.
La visione è forse romantica, ma non per chi ha vagato nelle ore del
Palio, con il cuore gonfio dalla trepidazione, alla ricerca impossibile
di un'oasi sperduta. Il suono del campanone, come il battito del cuore,
non abbandona. E'un flusso sanguigno che accresce e non sopisce
l'irritabilità e l'angoscia. L'esperimento può essere consigliabile,
ma soltanto per gli antropologi e i sociologi (o gli psicologi) in
lunga sosta di studio del "fenomeno Palio".
Simultaneamente allo scoppio del mortaretto, fa ingresso il corteo. È
aperto da sei "mazzieri" (o "araldi") dalla caratteristica mazza che
portano, simbolo di riconoscimento delle loro prerogative: il ché
avveniva, nel medioevo, anche sul campo di battaglia, e non erano mai
colpiti dalle due parti in lotta (ambasciator non reca pena).
Le loro vesti riportano il segno di Siena inquartato con il leone
rampante, emblema del popolo, bianco coronato su fondo rosso. La
tradizione attribuisce la donazione di questo stemma al popolo di Siena,
da parte dell'Imperatore Ottone III nel 997. In principio, il leone
era voltato a destra e solo qualche volta a sinistra. Poi venne
definitivamente rappresentato a sinistra con l'aggiunta della corona
d'oro e delle unghie, per privilegio imperiale. Altre vesti riportano
la balzana bianco-nera di Siena, ma inquartata con l'emblema in campo
azzurro su cui è scritto in oro, di traverso, dall'alto in basso,
"Libertas", insegna inalberata fin da quando la città, costituitasi
in libera Repubblica, fu riconosciuta da Carlo Magno nell'800.
Segue il vessillifero recante la bandiera bianco-nera di Siena. Il
significato di questi due colori è leggendario, ma la sua base è sempre
religiosa: è il fumo bianco e nero che si levò dal fuoco mentre i
fondatori della città sacrificavano a Minerva e Apollo (ipotesi pagana);
è il simbolo della purezza e umiltà della Madonna il bianco, dei
dolorosi misteri che contraddistinsero la Sua vita, il nero (ipotesi
cristiana). San Bernardino (1380 - 1444) nel sermone 26 delle prediche
ai senesi domandava: "anco allega el dimonio che tu non conosca el
bene dal male, in tutto che non conosca la Balzana nostra, cioè el
bianco che è purità e chiarezza, dal nero che è bruttezza e oscurità;
e che tu non conosca el bianco, che sta di sopra, el nero che sta di
sotto? Di sopra purità e grazia; di sotto malizia e pena..."
Seguono quattro "comandatori" armati che costituirono un gruppo di
scorta, porta-ordini, guide e vigilanti sulla regolare sfilata
dell'esercito.
Avanzano poi, preceduti da dodici tamburi, 18 trombetti con chiarine
d'argento seguiti da 30 musici di Palazzo. Suonano, con periodiche
ripetizioni, la lenta e marziale "Marcia del Palio", che include
originali squilli militari quattrocenteschi e cinquecenteschi (o
anteriori) in uso nell'esercito della Repubblica di Siena ("alle armi",
"alle mura", "all'attacco", "in batteria", "in carriera" ecc.). Le loro
vesti sono azzurre e verdi. Ritorna la tradizione religiosa a spiegarne
il perché. È un omaggio a due miracolose immagini della Madonna: quella
di Fontegiusta, coperta da un velo azzurro; quella di Belverde nella
Basilica dei Servi. Ma l'altra ipotesi è quella di derivazione dalla
"Famiglia di castello o di palazzo" del conte Bandinello Bandinelli
(nonno del pontefice Alessandro III), che la estese ai donzelli del
Palazzo Comunale quando fu Console di Giustizia nel 1040.
Procedono, fieri nel loro portamento, i vessilliferi delle Terre, Città,
Castelli, Podesterie e Vicariati della Repubblica di Siena. Sono 67 e
comprendono le località che sottoscrissero il giuramento di rinnovata
fedeltà, dopo la resa della città all'esercito imperial-mediceo,
stremata da due anni di assedio (1555), per continuare la lotta sotto
la guida delle Magistrature trasferite nella nuova Capitale:
Montalcino.
A queste si aggiungono altre, per particolari privilegi e riconoscimenti
ricevuti durante quella guerra: Torrita, Monticchiello, Radicofani
(ultima rocca ad abbassare bandiera, con poche località della Maremma
fra cui Grosseto, dopo lo spengersi della lotta, il 4 agosto 1559).Diamo
l'elenco in ordine alfabetico: Abbadia Spineta, Abbadia San Salvatore,
Arcidosso, Batignano, Camigliano, Campagnatico, Campiglia, Cana,
Casteldelpiano, Castelmuzio, Castelnuovo, Castiglion della Pescaia,
Castiglion d'Orcia, Celle, Cetona, Chianciano, Chiusi, Cinigiano,
Civitella, Contignano, Cotone, Fighine, Grosseto, Isola, Magliano,
Manciano, Marsiliana, Monteano, Montegiovi, Montelatrone, Montemassi,
Montemerano, Montenero, Montepescali, Monte Po, Monticchiello,
Monticello, Montisi, Montorgiali, Montornato, Orbetello, Paganico,
Pari, Pereta, Petroio, Piancastagnaio, Pienza, Portercole, Radicofani,
Rocca d'Orcia, Roccastrada, Roccatederighi, Rocchette, S.Agnolo,
S.Casciano, Samprugnano, S.Quirico, Sarteano, Sasso, Sassofortino,
Saturnia, Seggiano, Sovana, Talamone, Tatti, Torrita.
Segue, in gruppo a parte, la rappresentanza di Montalcino (la seconda
patria, dicono i senesi). Sono giovani che provengono direttamente da
quella città e i contradaioli ne sono fieri. Il vessillo bianco, con
il leccio ("ilex") su tre colli, precede il tamburino e quattro
arcieri, uno per ogni antico quartiere (Borghetto, Pianello, Ruga,
Travaglio).
Ancora un'immagine di una città amica, legata a Siena da un patto di
fratellanza e reciproca lealtà del XIV secolo, con il quale Massa
Marittima si riconobbe senese e volle podestà senesi. Dopo l'insegna
e il tamburino, tre balestrieri dei Terzieri.
Tre paggi recanti l'elmo (autentico cinquecentesco), la targa (scudo)
e la daga (spada corta) del Capitano del Popolo, lo precedono. Egli
segue a cavallo con il bastone di comandante generale delle milizie.
Sfilano quindi i tre Gonfalonieri Maestri dei Terzi, con i rispettivi
vessilli e sei centurioni (comandanti di centurie di cavalleria) dei
tre Terzi cittadini e dei tre Terzi delle Masse: tutti a cavallo con
palafreniere. Già abbiamo accennato ai "Terzi" e alle loro origini. Nei
secoli (nell'alto medioevo, uno cambiò nome: da Castel Montorio a San
Martino, per la Chiesa che vi era stata edificata) presero le insegne
definitive sulle quali, a conferma dello spirito unitario, si trovano
inserite la "Balzana" bianco-nera e il "Leone rampante" del popolo. Così
si possono descrivere: Terzo di Città: insegna vermiglia dimezzata da
una croce bianca; Terzo di San Martino: San Martino a cavallo in campo
rosso in atto di dividere il suo mantello con un povero; Terzo di
Camollia: insegna bianca con grande" K" al centro.
Segue, il gruppo che simboleggia l'Università di Siena; sorta nel 1240,
quinta per anzianità fra le Università d'Europa, preceduta da Padova,
Pavia, Bologna e Parigi nell'ordine. Dopo i tamburini e il gonfalone
(con la "M" centrale a ricordo del quattrocentesco retaggio della
soppressa "Domus Misericordiae", dove sorse la Casa della Sapienza),
sfila il rettore con al seguito quattro docenti (diritto, natura,
filosofia-medica, teologia) e quattro discenti.
Due tamburini con il vessillifero del Tribunale di Mercanzia seguito
da tre Magistrati, aprono il gruppo delle Arti e Corporazioni divise
per Contrada, riallacciandosi alla divisione territoriale che ebbero,
per ragioni a volte contingenti (la centralità delle vie, la vicinanza
di fonti ecc.), a volte trasmesse dalla principale attività esercitata
nei castellari. L'ordine di sfilamento è quello delle Contrade e,
pertanto, varia da Palio a Palio. Noi le elencheremo in ordine
alfabetico: Aquila, Notai, per ubicazione della sede della corporazione
fra la Bocca del Casato e l'attuale Chiasso del Bargello; Bruco,
Setaioli, dall'insegna stessa della Contrada; Chiocciola, Cuoiari, che
facevano la loro annuale offerta al Convento del Carmine; Civetta,
Calzolai, che si raggruppavano in una strada che anche oggi porta il
loro nome; Drago, Banchieri, dall'esistenza di numerosi "banchi" nel
suo territorio; Giraffa, Pittori, dalla collocazione di numerose
"buttighe" di pittori in Via del Fosso; Istrice, Fabbri, dalla Chiesa
di Santa Lucia de' Fabbri in Camollia; Leocorno, Orafi, dal
raggruppamento di questi artisti-artigiani nel Vicolo degli Orafi; Lupa,
Fornai, dall'annuale offerta della corporazione al convento di San
Lorenzo, ubicato in fondo allo stradone che portava questo nome;
Nicchio, Vasai, per i forni di ceramica situati nella zona; Oca,
Tintori, per le famose tintorie esistenti in Fontebranda (anche Jacopo
Benincasa, padre di Santa Caterina, era tintore); Onda, Falegnami, per
la Chiesa di San Giuseppe eretta da questa Corporazione e oggi Oratorio
della Contrada; Pantera, Speziali, dall'esistenza nel suo territorio,
fino al 1861, dell'Orto dei Semplici o Botanico, presso cui si
preparavano i giovani farmacisti (o speziali); Selva, Tessitori, che
costruirono la Chiesa di San Sebastiano, attuale Oratorio della
Contrada; Tartuca, Maestri di Pietra per la locazione delle loro
abitazioni (Via dei Maestri); Torre, Battilana, dalla Chiesa di San
Giusto, sede della omonima Corporazione; Valdimontone, Ligrittieri,
(venditori di panni usati e lavoratori con ligritta, specie di pettine)
per l'esistenza nel suo territorio di una grande "tira", come si
chiamavano i locali destinati a questo lavoro.
Viene ora un paggio porta-masgalano scortato da due paggi in armi. Il
"masgalano", come abbiamo avuto modo di ricordare, è il premio per il
"più galante" (mas-galante), ovvero per la "comparsa" della Contrada
che sopra le altre eccelle per prestanza fisica dei suoi componenti e
per abilità di tamburino e di alfieri. E'una commissione che giudica,
con metodo segreto. Il "premio", molto in auge per le "Bufalate" e per
il Palio fino ai primissimi anni del XIX secolo (premiava la migliore
"inventione" o "carro "), fu poi abbandonato quando le norme
regolamentari prescrissero l'uniformità delle comparse per tutte le
Contrade. Fu ripristinato il 16 agosto 1950, sopra un nuovo metodo di
giudizio.
E' a questo punto che, salutate da applausi o sottolineate da fischi,
entrano le dieci "comparse" delle Contrade partecipanti alla corsa. La
loro composizione, da più di un secolo, è fissa (successivamente al
1927 è stato aggiunto il solo "palafreniere"): un tamburino, due
alfieri, il "duce" (che impersonifica il "gonfaloniere" o comandante
delle Compagnie Militari fornite dalle antiche Contrade) con, ai suoi
lati, la scorta di due uomini d'armi; il porta-insegna con la
bandiera-simbolo della Contrada che ha, ai suoi lati, i vessilliferi
delle Compagnie Militari (così ormai epicamente denominate le
precedenti Contrade dalla cui fusione o discendenza derivano le
attuali); il fantino che correrà il Palio, indossante il quattrocentesco
costume da parata, montato sul cavallo che, con termine mutuato dalle
disfide e tornei, si chiama "asso" (o con espressione cumulativa
"soprallasso"), condotto da un palafreniere; il cavallo da corsa o
"barbero", condotto dal "barberesco".
L'ordine di sfilata, come abbiamo accennato, è determinato dal sorteggio
realizzato in occasione dell'estrazione delle tre Contrade partecipanti
al Palio, in aggiunta alle sette di diritto che non avevano partecipato
l'anno precedente.
Gli alfieri, al loro ingresso in Piazza, eseguono il saluto sincrono
con il lancio delle loro bandiere. In tre punti, ormai prefissi dalla
lunga tradizione (sopratutto di fronte al balcone di quello che fu il
Palazzo della Mercanzia e oggi degli Uniti), le comparse si fermano e
gli alfieri compiono la "sbandierata".
È un insieme di movimenti, molti dei quali provengono addirittura dal
medioevo (già abbiamo trovato gli "armeggiatori" al Palio del 1355). Si
usavano eccezionalmente durante le feste, normalmente nelle campagne di
guerra. Avevano lo scopo di segnalare i movimenti, di impartire lontani
ordini e anche di esprimere -nelle parate- un particolare linguaggio. Molti
passaggi si sono rinnovati o aggiunti con il tempo.
Anche oggi, per rimarcare l'abilità e la destrezza, la fantasia delle
coppie di alfieri colleziona figurazioni agili e di grande espressione,
senza mai cadere, però, nella banalità dello spettacolo. "Passaggio di
collo", "stella", "alcalena", "salto del fiocco" "cartoccio" "alzata"
sono alcuni dei molti termini in uso.
Al solito, anche per la "sbandierata" esiste una leggenda. Mentre si
combatteva, sui colli di Montaperti, la famosa battaglia ricordata da
Dante Alighieri (Inf. Canto X) il 4 settembre 1260, la popolazione
rimasta in Siena, faceva ressa intorno all'alta torre dei Marescotti. Da
qui, Cerreto Ceccolini, dalla vista lunga, di quando in quando rullava
un tamburo per ottenere silenzio; allora si affacciava e gridava
notizie sullo svolgimento dello scontro. Quando fu chiaro l'esito
finale, un tal Magiuscolo, salito sopra un merlo della torre, con suo
rischio, "traevasi il mantello, e cominciava a farlo volare e a
intorniarselo intorno al capo, proprio come gli alfieri delle
Contrade".
Terminato il passaggio delle dieci Contrade partecipanti al Palio,
segue una doppia fila di paggetti recanti festoni di alloro. È la
delimitazione ufficiale dalle Contrade che non partecipano a quel
Palio. Ma l'alloro ricorda anche la pianta con la quale si incoronavano
i membri del Concistoro della Repubblica, partecipanti all'antico
corteo dei "ceri e dei censi".
Le sette "comparse" che sfilano sono identiche, per composizione, alle
precedenti. Mancano però, come è ovvio, del fantino e del cavallo.
I componenti il corteo, una volta raggiunta la "cappella" che i senesi
scampati al flagello della peste costruirono nel 1348, quale voto di
riconoscenza alla Vergine, ai piedi della Torre del Mangia, si dirigono
verso una grande tribuna appositamente eretta di fronte al Palazzo
Comunale e lì prendono posto. Il richiamo a una tavolozza di un pittore
è un'immagine facile e scontata.
Periodicamente la fanfara suona la "Marcia", che accarezza il cuore dei
senesi, e le note si mischiano ai rintocchi del campanone. "Dalla torre
/ cade un suono di bronzo: la sfilata / prosegue fra tamburi che
ribattono / a gloria di Contrade", scrisse Eugenio Montale in una lunga
poesia dedicata al Palio.
Dopo le sette Contrade, fanno ingresso sei cavalieri con palafreniere,
lancia, ed elmo con la celata calata. Sono il poetico, un po'
malinconico ricordo delle sei Contrade oggi non più esistenti: Gallo,
Leone, Orso, Querce, Spadaforte, Vipera. I loro territori sono stati
assorbiti dalle attuali Contrade: il Gallo dalla Selva, il Leone
dall'Istrice, l'Orso dalla Civetta, la Querce dalla Chiocciola, la
Spadaforte dal Leocorno, la Vipera dalla Torre.
Preceduta da un porta-bandiera con vessillo, due tamburini e il
capitano, sfila la scorta a piedi del" carroccio". Sono quattro
pavesari che recano il "pavese", o grande scudo al cui riparo si
ricaricavano le balestre con il "martinello", quattro balestrieri con
balestra grande e sedici armati di balestruccio (i balestrieri erano
la storica guardia di palazzo della Repubblica). Segue il Capitano di
Giustizia a cavallo con palafreniere (magistrato al quale era affidato
il compito di dirimere controversie militari) accompagnato da quattro
fanti armati di roncone.
Gli applausi si infittiscono, la gente urla invocazioni e tutti agitano
i fazzoletti delle proprie Contrade: entra, solenne, il carroccio.
Riproduce, in forzata, opportuna misura, il carro da guerra medioevale.
Sul pennone sventola il gonfalone bianco-nero della città e una piccola
campana (martinella) suona, tirata da un emozionato valletto. Vi hanno
preso posto sei trombetti che lasciano partire gli squilli, quasi
rincorrendo e rispondendo a quelli della fanfara; un servente
porta-Palio e, seduti sulla panca posteriore, i Quattro di Balìa,
massima espressione dell'esecutivo del governo repubblicano. Sulla
parete anteriore, issato fra due cerchi di ferro, il "drappellone" o
Palio, che andrà in premio alla Contrada vittoriosa.
La scorta al carro si prolunga con otto fanti, lateralmenente disposti,
armati di roncone e seguiti da sei cavalieri con palafreniere
rappresentanti l'aristocrazia di Siena.
Sono cavalieri di sei nobili e antiche casate:Pannocchieschi-D'Elci,
colore rosso con arabeschi d'oro e aquila imperiale nera, che vantarono
privilegi concessi dagli Imperatori Carlo IV e Arrigo VII; molti suoi
membri furono conti palatini; nel 1222 affidarono gran parte dei loro
beni terrieri al Comune di Siena con il quale finirono per
identificarsi.Piccolomini: colori bianco-celeste con stemma con
croce recante all'interno cinque mezze lune; questa famiglia dette due
pontefici (Pio II e Pio III), dieci santi e beati, letterati, uomini
d'armi fra cui Enea, eroe della cacciata degli spagnoli nel 1552 e
dell'ultimo assedio (1554-1555).Salimbeni: colore rosso con
rombi d'oro; fu stirpe potentissima; finanzieri e operatori economici
di grande rinomanza, sensibilissimi all'amor di patria (si ricorda
Salimbene Salimbeni che offrì l'oro necessario a finanziare l'esercito
nella guerra contro Firenze e i guelfi nel 1260) ricoprirono incarichi
di prestigio ed ebbero empori in tutta Europa e in Medioriente. L'antica
rocca è oggi sede dell'Istituto di credito Monte dei Paschi di Siena,
che in certo senso ne perpetua le tradizioni.Salvani: un nome
solo potrebbe giustificare la presenza di questo cavaliere nel corteo
(colori giallo e blu con stelle a sei punte rinquartate), quello di
Provenzano, il più prestigioso componente il Consiglio dei Ventiquattro,
(di cui già abbiamo avuto occasione di parlare), fondatore della pur
breve supremazia senese in Toscana; da questa famiglia provengono la
Beata Bonizzella e il Beato Antonio dell'Ordine dei Servi di Maria.
Tolomei: colori bianco e blu con stemma blu con fascia bianca a
tre lune ai tre spazi interni; famiglia dei Grandi di Siena, del "monte"
dei gentiluomini; celebri banchieri, come i loro tradizionali nemici
Salimbeni, ebbero scali e succursali ovunque; annoverano otto beati,
innumerevoli porporati, uomini d'arme, letterati.Ugurgieri:
colore oro con tre leoni in nero abbrancati a una ruota rossa; famiglia
ghibellina di origine franca, fu ammessa più volte alla dignità
consolare di Siena e ha risieduto spesso al supremo magistrato della
Repubblica. Ancora visibile l'imponente "castellare" da cui partì il
cavaliere Giovanni, caduto nella giornata di Montaperti e sepolto in
Duomo; ebbero cinque beati, letterati, uomini d'armi (si distinse
Giovanni I alla presa di Tolemaide durante la terza crociata, e
Ciampolo alla battaglia di Camollia il 25 luglio 1526).
Il corteo termina, con una nuova linea formata da sei paggetti con
ghirlanda di alloro: stavolta esclusivamente simbolo di vittoria.
|
TUTTI I CAPITOLI DEL LIBRO
|
|