Con la precisione di un regista di una commedia in costume Luigi Ontani ha regalato alla città di Siena un cencio nel solco della tradizione. Non la tradizione dei palii recenti degli ultimi decenni, bensì una tradizione molto più antica, che risale alla notte dei tempi, a quando il palio era un oggetto d’arte prezioso in sé, per il pregio dei materiali che lo componevano. La pittura dell’artista, il fare tecnico, cadono quasi in second’ordine rispetto all’idea trasformazionale, che è al fine un drappo della più antica specie, un oggetto di pregio, un manufatto prezioso.
Il ricamo e la pittura sono i due termini attraverso cui si svela la dicotomia interna alla narrazione, un tipico gioco d’illusione, quasi un enigma blasfemo di lontane ascendenze orientali. Ontani non è nuovo a mescolare senza pudore suggestioni proveniente da differenti professioni di fede. E il Palio è professione di fede. Nonché sogno. E il gioco onirico forma incongruenti e multicolori esseri combinanti l’allegoria, l’iconografia, l’araldica – aderentemente rispettata nella tipicità degli stemmi.
L'intricato sistema dei segni, le articolate simbologie, l’orgogliosa identità della città e l’intreccio di incantate connessioni che sono alla base della definizione in termini del drappellone trovano riscontro nell’opera di Ontani, probabilmente una delle prove più sicure degli ultimi anni, sebbene di non facile ed immediata ricezione, con una Madonna di Provenzano – omaggio alle madonne di Duccio di Buoninsegna - forse risolta oltremodo frettolosamente ed un autocitazionismo forse troppo spinto.


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