Quercegrossa (Ricordi e memorie)

CAPITOLO VII - STORIA CIVICA

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Il Duecento e la vicenda storica del castello di Quercegrossa
Tralasciando da qui in avanti la storia religiosa che inizia autonomamente il suo cammino nel capitolo dedicatole e trascurando inoltre la specifica storia interna del libero Comune di Siena, terrò in considerazione solo quelle attenzioni politiche, militari ed economiche che Siena ebbe verso il nostro paese e territorio, insieme ai fatti più notevoli originati dal continuo stato di guerra con Firenze. E’ una storia interessante che assume aspetti rilevanti per Quercegrossa. Intanto è da premettere che il Comune di Siena fin dai primi anni del Duecento organizza amministrativamente il contado affidandolo ai Terzi cittadini di competenza e il territorio di Quercegrossa fino al confine fiorentino venne affidato al Terzo di Camollia sia per la gestione delle tasse sia per l’arruolamento di milizie.
Il nuovo secolo, il XIII, si apre sotto l’apparente calma militare, frutto dell’accordo della Lega Guelfa, detto di S. Genesio, del 1197 tra Firenze, Siena, Volterra, Lucca, gli Aldobrandeschi e Arezzo, mirante ad appianare controversie ed evitare conflitti tra i legati, ma il successivo patto stipulato a Fonterutoli il 29 marzo 1201 tra Siena e Firenze non fa presagire niente di buono, essendo fondamentalmente un accordo per avere entrambe le parti via libera a conquiste territoriali: una mano lava l’altra. Infatti, i senesi dopo pochi mesi assediarono e conquistarono Montalcino, mentre Firenze si liberò definitivamente dell’emergente Semifonte, nel Comune di Barberino Val d’Elsa, radendola al suolo nel 1202. Non contenti di ciò i fiorentini, in barba al patto, l’anno successivo 1203 attaccarono il castello di Tornano in mano ai senesi e questo grave fatto causò l’intervento conciliatorio della Lega. Si comprese che era giunto il momento di stabilire una volta per tutte i confini territoriali tra le due città e ciò fecero i legati riuniti a Poggibonsi con sentenza emanata il 4 giugno 1203 dal podestà locale, arbitro tra le parti. Essi tracciarono esattamente la nuova frontiera, dopo aver interpellato 31 testimoni conoscitori dei reali confini.
Prevalsero però in questo arbitrato gli interessi di Firenze, e Siena, dovette rinunciare a terre da tempo in suo possesso, accettando obtorto collo questa imposizione. Essa si ritrovò con la nuova linea di confine in prossimità di Quercegrossa (i cui uomini si erano dichiarati appartenere al contado senese) soltanto a 6 miglia dalla città, e ciò non era garanzia di sicurezza. I confini fissati nel nostro territorio avevano la linea di demarcazione che da sotto Cignano di Vagliagli passava per il piano di Mucenni, sopra Quetole e la Staggia, tra le Gallozzole e Topina. In definitiva rimasero in territorio senese Vagliagli, Quetole, Petroio, Sornano, le Gallozzole, la Magione, Gardina e Lornano, mentre Vignale, Frassi, Pomona e Topina (tutti luoghi sotto influenza di Siena) con la pieve di S. Leonino in Conio rimasero sotto Firenze. Fu una divisione definitiva per il nostro territorio di Quercegrossa perchè, se il confine tracciato subì nel tempo e in alcuni punti leggere modifiche, da noi rimase integro fino alla caduta di Siena nel 1555, segnando quella differenziazione dialettale che tutt'oggi possiamo udire, avendo la parlata fiorentina maggior espressione sia a Fonterutoli sia a Castellina.
In questo incerto inizio di secolo per Quercegrossa, castello fortificato la cui corte, ora sinonimo del territorio di competenza, si estende fino alla Ripa con Gardina, Petroio ecc., abitata da una novantina di famiglie, gli auspici non sono buoni perchè come prevedibile la lotta fra Siena e Firenze si farà sempre più accanita essendo le due città impegnate alla conquista di un maggior spazio vitale e in una lotta economica di predominio senza quartiere.
Di questi anni si conosce come residente in paese un certo Bernardino di Ranuccio da Quercegrossa il quale nel 1208 insieme a Martino di Gianni d’Argiano (o Larginano?) stipula un importante contratto di 40 lire con Ermanno, un canonico della Cattedrale di Siena, a favore della medesima.

Il castello di Quercegrossa
Ritrovandosi Siena il confine nord con Firenze quasi a ridosso delle mura cittadine, facilmente raggiungibili da improvvise scorrerie di bande ed eserciti nemici, il Governo del Comune avvertì l’urgenza di risolvere questo grave problema di sicurezza attuando interventi di protezione e controllo fortificando e presidiando gli avamposti di frontiera come Selvole, Cerreto, Quercegrossa e Monteriggioni, anche perchè nel frattempo nuove battaglie erano state combattute contro Firenze con varia fortuna negli anni 1207 e 1208 e il futuro non prometteva niente di buono. In particolare fu immediatamente programmata la costruzione di castelli fortificati, difesi da una robusta cinta muraria merlata con feritoie e apparati a sporgere, con torrione sopra la porta d’entrata a Monteriggioni e Quercegrossa, che divengono importanti e vitali avamposti senesi.
Il territorio adiacente al Poggio di Quercegrossa e al borgo era già suddiviso al quel tempo in numerose proprietà e fu quindi necessario, onde ottenere il totale controllo del luogo e garantirsi in prospettiva una produzione alimentare per il mantenimento della guarnigione, dare il via a una serie di acquisti di appezzamenti di terra, da privati cittadini ed enti religiosi, che così passarono al Comune la piena proprietà su quelle terre. La loro estensione abbracciava il Poggio, il borgo di Quercegrossa, e andava dalla Staggia fino presumibilmente al Castellare. In pratica vennero acquistate quelle terre che quasi due secoli dopo saranno in mano all’Opera del Duomo e avranno i Benvoglienti prima come affittuari e in seguito proprietari fino al Cinquecento inoltrato quando la proprietà divisa in due parti, Castello e Quercegrossa, passò in mano ad altri.
Una decina gli atti conosciuti di queste transazioni, alcune modeste altre di gran costo, e dal loro contenuto possiamo ben comprendere quanto importante fu quest’operazione di compravendita i cui contratti vennero stipulati il primo nel 1210 con Ciampolo da Cerreto rogato dal notaio Rainerio e tutti gli altri concentrati nel dicembre 1214, rogati quasi tutti dal notaio Bernardino e acquirente Guelfo, podestà, in nome del Comune di Siena, con il rettore della chiesa di S. Stefano alla Ripa, con i canonici del Duomo, con le monache di Montecellese e diversi privati. Quasi tutti gli atti riportano i confinanti ma è ugualmente impossibile ricreare l’ubicazione e la posizione delle proprietà.
L’acquisto di maggior valore riguardò le terre e i poderi di Ciampolo da Cerreto che l’8 giugno 1210 cedette ai consoli senesi per la considerevole somma di 325 lire i suoi beni posti in Quercegrossa con tutti i diritti annessi e i coloni che lavoravano i suoi nove/dieci poderi (vedi “Mezzadria”).
Quattro anni dopo, dal 2 dicembre 1214 si acquisirono gli altri appezzamenti per formare un blocco compatto delle terre intorno al castello e vendettero la badessa di Montecellesi, Duchessa, un pezzo di terra per lire 40 cui da un lato è la via e di sopra i figli di Giovanni e da altri lati è detto monastero;
Seracino del fu Martinozzo ebbe 50 soldi per un pezzo di terra confinante da una parte con Guido di Larginano e dall’altra Ildebrandino Struffali e di sotto la Chiesa di S. Ambrogio a Montecellesi e di sopra la terra che il Comune comprò dalla badessa di Montecellesi;
Ranuccino e Giovannello figli del fu Scorgianello, vendono un pezzo di terra a Quercegrossa per il prezzo di soldi 50 che confina da una parte con Guido di Larginano e dall’altro la terra che tengono i figli di Malavolta e di sopra e sotto la via. In Siena, Bernardino notaro davanti ai testimoni Arlotto giudice, Lamberto de Chiezano e Guido di Larginano;
Guido di Larginano, Bene e Seracino suoi nipoti, vendono due pezzi di terra posti a Quercegrossa, per il prezzo di lire 16. Un pezzo è da un parte di quella comprata dal Comune dai figli di Scorgianello e da l’altro dei figli del fu Napoleone e di sopra e di sotto la via. Altro pezzo confina da una parte con la terra comprata dal Comune da Saracino Martinozzi e dall’altra con quella comprata dal Comune dalle monache di Montecellese e di sopra e di sotto la chiesa di S. Ambrogio a Montecellese;
Bernardino del fu Scannaromeo e Lambertino del fu Napoleone, vendono un pezzo di terra a Quercegrossa, per il prezzo di lire 4 confinante da una parte con i Canonici e Ildibrandino del fu Ginettasio e dall’altra la terra comprata dal Comune da Guido dell’Arginano e nipoti, e di sopra e di sotto la via;
Il rettore della chiesa di S. Stefano a Brusciano, prete Ardimanno, a nome anche di prete Pietro, suo socio, e col consenso dei suoi cappellani, vende un pezzo di terra nel poggio di Quercegrossa, per il prezzo di 20 soldi di denari senesi. Da due lati ha la via e di sotto la detta chiesa. In Siena, Buonsignore giudice e notaro; L’11 dicembre Ildebrandino e Risalito del fu Struffali, col consenso dei loro parenti, vendono un pezzo di terra a Quercegrossa, per il prezzo di 3 lire con una parte che confina con la terra comprata dal Comune da Saracino di Martinozzo e dall’altra il venditore, mentre di sopra confina con Ildebrandino del fu Ginettasio e con i canonici e di sotto la Mansionis Templi e l’abbazia di Montecellesi;
Filippo, Fortebraccio e Arrigo, figli di Malavolta, vendono un pezzo di terra posto a Quercegrossa per il prezzo di 8 lire. Confina da due parti con la via e dall’altra con i figli di Scorgianello come fu disegnato per mano di Ubertino Sinibaldi e Ildebrandino di Gianettasio. Per questo contratto fu necessaria la ratifica della badessa Duchessa in quanto le monache avevano dei diritti su quelle terre;
Ildobrandino del fu Genettasio, vende dopo Natale a Ildobrandino camarlingo del Comune di Siena, per il prezzo di 70 soldi, un piccolo pezzo di terra posto a Quercegrossa, accanto alle mura del castello che ha da tre parti la via e dall’altra le terre del Comune e un altro prezzo lo venderà quando sarà delimitata dal Comune e che confina con i canonici del Duomo per il prezzo di 20 soldi. In Siena, Guglielmo notaro imperiale;
Bonfilius arcidiacono e i canonici della cattedrale vendono nell’ultimo contratto conosciuto e datato 27 dicembre un pezzo di terra presso le mura di Quercegrossa (extra castrum de Querciagrossa iuxta murum dicti castri) che confina con la via pubblica da tre lati e dall’altra lo stesso Comune per il prezzo di 15 soldi.
Contemporaneamente all’acquisizione delle terre iniziarono sul poggio di Quercegrossa i lavori di costruzione della fortezza che come abbiamo visto vennero affidati a Ildebrandino di Montaperto degli Ugurgeri, e richiesero la demolizione di preesistenti edifici, probabilmente sia nel borgo che nella corte, tra i quali la chiesa di S. Giovanni. Dopo alcuni anni di lavoro, dall’alto del poggio la fortezza, con alte mura merlate fatte di bozze squadrate, e torre di guardia dominante la porta d’ingresso, circondata da ripide piagge dominava la valle dello Staggia e dava sicurezza al circondario. Si ergeva a monito dei potenziali nemici fiorentini in un sistema difensivo comprendente anche il Castellare come torre di avvistamento e segnalazione, e si inseriva come baluardo centrale in quella linea difensiva dell’intero confine di nord-ovest comprendente i castelli di Selvole, Cerreto e Monteriggioni. Il terzo decennio del Duecento vede ancora tensioni per Poggibonsi affidata a Siena dall’Imperatore, la conquista di Grosseto da parte di Siena (1224) e tre anni dopo una nuova crisi mette in allarme l’esercito fiorentino con conseguente stretta alleanza tra Siena, Pistoia, Pisa e Poggio Bonizio.
Nell’anno 1228, il 21 marzo, alla Pieve al Bozzone fu firmato un patto tra Siena e la parte ghibellina di Montepulciano con l’avallo del vicario imperiale, e ciò fu la premessa per attaccare questa città, da sempre insofferente al domino senese e resasi colpevole di razzie verso villaggi senesi portando via uomini e bestiame. L’inevitabile guerra, detta di Montepulciano, si protrasse per ben sette anni dal 1229 al 1235. La contesa fu totale e aspra e si combattè su tutti i confini e anche Quercegrossa si trovò nell’occhio del ciclone.
Si hanno di questi bellicosi anni importanti memorie che ci riguardano tratte dal libro della Biccherna e da altre fonti che delineano minuziosamente, attraverso atti amministrativi e disposizioni, l’evolversi della situazione militare e politica, e soprattutto ci informano di tutte quelle concrete misure adottate dal Comune di Siena nell’intento di consolidare le difese di Quercegrossa. Esse ci aprono pagine emozionanti di uomini in armi e artigiani affaccendati, di messi e castellani guardinghi, insieme ad altre notizie su opzioni di difesa e offesa utilizzate che dischiudono uno spiraglio di umanità nell’arido resoconto storico.

Anno 1229
Riprendendo la cronaca vediamo che l’anno successivo al patto del Bozzone, il 1229, riarse il conflitto e il 15 maggio sotto Montepulciano i senesi sbaragliarono le truppe di Orvieto suo alleato, conquistando anche Sarteano. Di seguito un corpo fiorentino fece la stessa fine e in questo stato di guerra la guarnigione di Quercegrossa deve aver vissuto momenti di grave pericolo e, come a Selvole, erano stati realizzati nei mesi di giugno e luglio lavori di muratura e fossati per aumentare le difese del castello. Il capitano Ugo Aldelli da Murlo detto Ugone, che ha sostituito Arrighetto presente nel 1226, comanda la piccola guarnigione, sempre all’erta, e Uguccione Durazzi è l’incaricato del Comune per la sorveglianza dei lavori e per pagare i maestri muratori.
In quei giorni si presenta agli uffici della Biccherna un certo Guglielmo Fratellani per riscuotere dieci soldi per conto di Guglielmo della Quercia, il quale è stato a Firenze tre giorni “pro novis inveniendis”. E’ definito con eufemismo “esploratore”, ma in parole povere si tratta di una spia pagata, la quale deve scoprire cosa c’è di nuovo nella politica a Firenze e soprattutto sapere se c’è movimento di soldati e programmi di mobilitazione. Certamente dava a intendere qualche affare e intanto osservava distrattamente i centri di potere civile e militare, e mischiato ai popolani fiorentini scambiava impressioni e ne ascoltava le voci e gli umori, riportati poi ai governanti senesi. Questa forma elementare di spionaggio si deve essere dimostrata utile ed efficace perchè si ripete spesso negli anni successivi ed era un accorgimento adottato da tutte le città in considerazione anche del fatto che a quei tempi non si usava la dichiarazione di guerra classica, ma all’improvviso ti ritrovavi il nemico alle porte o nel contado intento a devastare e rapinare, o una ribellione sobillata nei tuoi domini. Era quindi importante conoscere anzitempo le intenzioni e le mire dei vicini di casa, e non c’era soluzione migliore per Siena che mandare un abitante del vicino contado fiorentino per non destare sospetti.
Si ha in estate a Quercegrossa la visita del podestà e di altri 10 boni uomini, i quali vengono per accertarsi delle condizioni delle difese del castello e provvedere alle necessità, per poi proseguire verso Monteriggioni per la stessa missione. Essi sono condotti da Orlando de Stielle, compensato con 40 soldi e 5 denari.
Nel settembre l’esercito fiorentino entra nel contado senese e apporta devastazioni nella parte nord fino a Pievasciata; sullo slancio conquista il castello di Monteliscai il 19 di quel mese. Successivamente, con l’arretramento dei fiorentini datato 23 ottobre 1229, i senesi si imbaldanziscono e si impadroniscono di Tornano. Allora l’esercito del Giglio in una nuova offensiva pone l’assedio a Selvole, ma viene respinto dall'esercito senese prontamente accorso. In quel frangente i fiorentini si erano presentati anche davanti a Quercegrossa, ma devono aver desistito di fronte alla munita fortezza, anche a causa dell’esercito senese in armi e pronto a intervenire, come di fatto avvenne a Selvole, e di fronte alla stagione autunnale avanzata non più favorevole a tenere uomini in armi. Alcuni armati, in aggiunta al presidio, rimasero per alcuni mesi in Quercegrossa, probabilmente balestrieri, come Benincasa e Baroncio. Inoltre si ha la presenza di Baroncio e Johanni Guerrerio di professione guerchi, ossia operai specializzati nello scavare bottini e cunicoli, che lavorarono una ventina di giorni nel castello quando vennero i fiorentini.
Incontro di Gualtiero del popolo di S. Leonino si reca per otto giorni a Firenze per ascoltare e riportare a Siena i propositi della città, mentre gli eserciti si scontravano; per questo riscuote 16 soldi.
Il Benincasa, il Baroncio e molti altri, come vedremo, sono soldati di professione (riscuotono il soldo, assoldati) e sono armati di potenti balestre, armi micidiali in grado di sfondare qualsiasi corazza metallica. Bastano pochi balestrieri per rendere molto rischioso avvicinarsi ad una piazzaforte. Questi soldati specializzati si gestiscono ancora individualmente, ma ben presto si organizzeranno nelle famigerate compagnie di ventura mettendosi al servizio dei vari capitani. Intanto si affiancano alle milizie cittadine, armate per la maggior parte semplicemente di lancia e spada. In certi casi provenivano dalle città alleate nel momento. A Siena, divisa in tre Terzi, la mobilitazione poteva essere parziale di poche centinaia di soldati o di un Terzo soltanto, spesso secondo il luogo di intervento (a Quercegrossa ad esempio intervenivano quelli di Camollia), oppure totale con l’arruolamento generale del popolo al suono della campana. I soldati di professione, arruolati continuamente, erano inviati là dove maggiore era il pericolo di attacco nemico. Non tutti gli assoldati erano specializzati balestrieri, ma erano pagati a un prezzo minore anche dei pedoni per il servizio di guarnigione provenienti dalle file dei contadini e degli artigiani locali e armati più modestamente.

Anno 1230
Perdurando prevedibilmente lo stato di guerra, l’inverno tra il 1229 e il 1230 trascorre con i due contendenti intenti ad affilare le armi e tenendo in particolare considerazione l’efficienza dei castelli di confine. Già nel novembre 1229 il podestà di Siena, Alberto, accompagnato da alcuni eminenti personalità del Governo dei Quindici, con Guglielmo Caccianeve, Guglielmo da Vernizza e Baroncio esperti scavatori, con i maestri muratori Stefano, Ranerio e Gregorio, scortati dal sexcalco (un soldato graduato) Niccolò di Bartolomeo e altri militi, in due giorni fanno il giro dei castelli di Monteriggioni, Quercegrossa, Selvole e Cerreto per vedere quali lavori di rinforzo necessitavano le strutture murarie e mettere in atto altri accorgimenti difensivi. Nel gennaio seguente il podestà Alberto con il giudice Arnolfino, Fortarrigo Magalotti e Guido da Palazzo (capitano dei cavalieri di Camollia) si recano a Monteriggioni per parlare col podestà di Poggibonsi e rivisitano per un ulteriore controllo ai lavori dei sopraddetti castelli e per accertarsi ancora del potenziamento da apportare. Per questo viaggio il capo drappello Niccolò di Bartolomeo riceve 109 lire per sè, per otto scudieri e 14 cavalli.
Intanto urge conoscere le intenzioni dei fiorentini e Gualtiero da S. Leonino è ancora inviato a Firenze per due volte in breve tempo (riceve 5 soldi a viaggio).
Appena la stagione si fa primaverile riprendono alacremente i lavori a Quercegrossa per realizzare intorno e dentro al castello un valido sistema di difesa di fossati, cunicoli e baluardi, sotto il vigile occhio del castellano Arnolfino di Napoleone e del capitano Ugo Aldelli. Da marzo a giugno fervono i lavori dei fabbri sia per gli armamenti sia per gli accessori alla carpenteria, mentre sulla strada è tutto un via vai di carri, barrocci, uomini armati, messi del Comune e fornitori vari.
Il fabbro Bencivenni acquista carbone da inviare a Quercegrossa e poi vi si reca egli stesso per vedere di qual tipo di ferramenta occorresse. Ritorna poi in aprile col suo maestro Bonaiuto e si trattengono sette giorni lavorando sul posto. Nel maggio riceve 40 soldi per avervi lavorato mezzo mese. Mentre in Siena altri fabbri producono centinaia e centinaia di quadrelli (dardi da balestra) per rifornire i castelli e Burnaccio ne porterà diverse centinaia a Quercegrossa. Un altro fabbro di Siena, dall’originale nome di Culdiferro, fabbrica alcuni strumenti tra i quali sei picconi e tre paletti di ferro, inviati ai guerchi in azione a Quercegrossa per 25 soldi.
Anche Ferruccio forgia venti marroni (zappe) che invia a detti guerchi impegnati a scavare e Giovanni di Guido porta trenta manici di legno per 30 soldi, mentre Bonfiliuolo invia prima 20 e poi 15 sacchi di carbone per i fabbri impegnati sul posto, al prezzo totale di 73 soldi. Lottorengo arriva al castello con un viaggio di quattro asini che trasportano incudini e mantici per la fucina nonchè carbone in due sacchi, e in altra occasione una certa quantità di ruote. Un barrocciaio, certo Patricone, fa la spola tra Quercegrossa e la città col suo carro trainato da un cavallo per portare operai della città a scavare fossi ricevendo 2 soldi a viaggio giornaliero e 4 per due giorni. Ma il lavoro è tanto ed ecco altri due asinari, Paolo e Migliorato, trasportare altri picconi a Quercia.
Si provvede naturalmente al rifornimento alimentare della guarnigione e alla consegna di altri utili accessori. Il pizicaiolo (commerciante tipo ferramenta) Bernardino per 3 lire rifornisce il castello di 17 dozzine di funi tra piccole e grandi, insieme a stoffa di cotone, 200 ferri, 50 verghe d’acciaio, e con le forniture ad altri luoghi riceve in tutto la bella somma di 40 lire. L’altro pizicaiolo Ventura consegna un grosso canape della lunghezza di 55 braccia, ossia 33 metri per 10 soldi. Il Trincianti riceve 12 soldi per venti libbre di colla della quale la metà (3 chili e mezzo) mandata a Quercegrossa. Per il vettovagliamento e le scorte viveri il barlettaio Onorio (costruttore di barili) si fa pagare 5 lire per otto barili con i quali viene portato olio a Quercegrossa. A marzo arriva Bonsignore a rifornire di vino la guarnigione, poi l’asinaro Giovanni di Bernardino accompagnato dal balitore Bonatto approvvigiona di farina Selvole e Quercegrossa. Orlandino Cinghiavacche riceve lire 3, 8 soldi e 6 denari per la carne di maiale trasportata per 5 soldi da Bonincontro di S. Leonino a Quercegrossa e Monteriggioni, mentre il carnaiolo (macellaio) Aliseo invia per soldi 37 sei pezzi di carne.
I rifornimenti alimentari non appaiono sufficienti nella quantità, ma si deve tener presente che intorno al castello vi sono terre del Comune e di altri, con coloni che producono e allevano. Tra gli abitanti della corte di Quercegrossa si dà da fare anche Palmerio da Quercegrossa con due viaggi effettuati da Siena portando una fune per una balista e poi incudini, mantici e mazze alla fine di maggio.
Per la protezione delle mura si fanno arrivare degli strumenti di ferro con i denti uncinati (graffiarum) e molte pelli di bove per armare la torre e attutire così il tiro dei mangani: Ildebrandino riscuote 8 lire per venti pelli di bove e Buonaguida di Cedda lire 13 per 11 buone pelli.
Il balitore Toscanello rimane due mesi a Quercegrossa andando nei dintorni e facendo abbattere molti alberi secondo le necessità difensive di non offrire ripari al nemico.
Orlando di Giovanni invia cento vasi a Quercegrossa per accendere fuochi, ma non è chiaro se servono per illuminare o per contenere bambagia, pece greca, resina, zolfo e micce ed essere lanciati con i mangani per incendiare le macchine e gli accampamenti nemici. Naturalmente la stessa miscela incendiaria veniva tirata dagli attaccanti all’interno delle mura per dar fuoco ai tanti fabbricati nel castello costruiti per una buona parte in legno. Questo cosiddetto fuoco greco, detto a Siena fuoco pennace, era entrato in uso proprio in quegli anni e di solito la miscela incendiaria era contenuta in ampolle di vetro lanciate anche con fionde oppure erano usati gli stomboli, una specie di pintapalle a stantuffo.
Tanti altri operai rimasti senza nome, anche di città come abbiamo visto, prestarono la loro opera in questo affaccendarsi intorno al castello e ricevevano la paga giornaliera da Palmerio Rainoni che a più riprese si reca a Siena per ritirare grosse somme da consegnare gli operai di Monteriggioni e Quercegrossa e per altre spese: nel marzo riceve 200 poi 300 lire e ancora 200 lire con Ildebrandino Rubbe. Vengono pagati regolarmente anche i due comandanti del castello: il castellano Arnolfino Napoleone riceve una paga di 3 lire al mese così come il capitano militare della piazzaforte Ugo Aldelli.
Mentre si eseguivano questi importanti lavori nei castelli di frontiera, era avvenuto un insolito fatto d’arme nel gennaio di quell’anno. Insolito perchè generalmente nell’inverno gli eserciti, composti com’erano da contadini e cittadini, si scioglievano e ognuno ritornava alle proprie cose e comunque freddo, fango, pioggia e neve avrebbero ostacolato qualsiasi manovra. Avvenne che a sorpresa i senesi, mobilitate alcune compagnie, attaccarono la fortezza di Stielle vicino a Castellina in Chianti (da non confondere con quella vicino Gaiole) coll’intento di demolirla completamente. Difesa da pochi uomini fu facile la vittoria e per i maestri di pietra e gli sterratori fu un gioco raderla al suolo e non lasciare pietra su pietra. Tentarono poi anche col castello del Trebbio, ma i fiorentini si difesero e fecero morti e feriti tra i senesi, i quali ritornarono sconfitti in città. L’anno era dunque iniziato male e appena arrivò maggio i senesi riportarono l’oste (come si diceva, ossia l’esercito, la guerra) a Montepulciano e ciò fece muovere anche i fiorentini rinforzati da elementi guelfi toscani. Circolava la voce che per i danni subiti nel gennaio, i fiorentini volessero vendicarsi sul castello di Quercegrossa o di Monteriggioni (rinforzati di armati), ma il disegno era un altro. Infatti si diressero a S. Gimignano, fecero un largo giro, giunsero nei pressi di Montepulciano e dopo una puntata a Sarteano mossero decisamente e inaspettatamente verso Siena. A marce forzate passarono dalla Val d’Arbia e puntarono su Siena sguarnita di uomini. Dalla città furono inviati messaggi d’aiuto agli alleati e chiamati soccorsi dalle campagne, mentre anche i fiorentini si rinforzavano e mercoledì 12 giugno ponevano gli accampamenti a Lornano, Salteano e Montecchio, circondando Siena. A Quercegrossa la guarnigione, gli operai e i coloni rifugiati si aspettavano un attacco, che però non giunse perchè il sabato 15 tutte le milizie fiorentine attaccarono la città, mentre la cavalleria senese galoppava in soccorso. Superati gli ostacoli difensivi, la battaglia si accese furiosa specialmente alle fortificazioni dell’antiporto, ma alla sera i fiorentini riuscirono a entrare in Camollia e la lotta selvaggia dentro e fuori le mura durò fino al sorgere del sole quando furono sospesi gli attacchi per la stanchezza. La mattina, quando la città sembrava ormai rassegnata, i fiorentini, saputo dell’arrivo dell’esercito pisano, tolsero gli accampamenti e rientrarono a Firenze conducendo un migliaio di prigionieri, secondo il Villani. Qualche giorno prima, con una parte delle milizie fiorentine accampate a Lornano, era stata giocata un’altra carta contro i nemici, e questo faceva parte di un rituale assai in voga in quei tempi pieni di superstizioni, e consisteva nel fare una malia al nemico per causargli un qualche danno o sventura o mettere zizzania tra le loro fila. Tanti sono i casi dove fattucchiere, astrologi, indovini operano al soldo di Siena, fatti venire anche da altre città. Non erano estranei a queste magie i religiosi chiamati anche a togliere le malie gettate addosso dal nemico. Naturalmente era usanza di tutti, compresi i fiorentini. All’atto pratico alcune donne, ma anche uomini, manipolavano delle sostanze e si servivano anche di animali come tassi e marmotte. Le polveri malefiche composte generalmente in una notte, spesso con partecipazioni di giovanette, dovevano poi essere sparse negli accampamenti dei nemici o nella loro città perchè se gettate da lontano non avevano effetto. Non si conoscono i risultati di questi attacchi di magia nera, ma si dubita abbiano avuto effetto; certamente era più micidiale l’avvelenamento con erbe velenose di fonti e sorgenti in prossimità degli accampamenti nemici. Oltre che a questa magia spicciola si ricorreva a quella più “strategica” e ogni mossa militare o politica importante doveva avere il benestare degli indovini i quali fissavano il periodo favorevole a iniziare una campagna militare. Arrivò dunque da Siena, Accio, un messo della Balia, il quale per due volte si incontrò con Palmerio, prete della chiesa di Petroio, per commissionargli le polveri magiche da usare contro il vicino esercito nemico. Probabilmente con l’assistenza del famoso Bonincontro da Topina venne organizzata la notte della magia alla quale partecipò come fattucchiera principale la moglie di Ranieri Palliaresi aiutata da altre tre donne, che come compenso ricevettero 16 soldi in tutto. La sera tra il 12 e il 15 giugno a buio inoltrato si avvicinarono guardinghi alla pieve di Lornano e lì compirono la malia; può essere stato lo stesso Bonincontro a spargere le polveri o altro fra le tende fiorentine, e per la sua opera riscuote 10 soldi. Nel luglio seguente Cesare, Iacopo, Guerco e Ildebrandino si recano a Quercegrossa, Selvole e Monteriggioni per prendere le donne che sono inviate a Firenze con lo stesso compito. Nel dicembre seguente si ripete un rito magico, forse un esorcismo o scongiuro, perchè un certo Rainone riceve 3 soldi per aver fornito una pelle di tasso per una “medicina” fatta intorno a Quercegrossa.
Alla metà di giugno, all’approssimarsi della calura estiva, vengono sospesi i lavori di scavo e gli operai ricevono 36 soldi ciascuno per metà mese. I guerchi sono: Ildebrandino Galgani, Ammannato, Janni Valentini e Palmerio de Monterio, mentre Lietolo riscuote 60 soldi forse per la sua posizione di capo operaio. Un altro guerco, Baroncio, riscuote per quattro giorni prestati di servizio nel castello quando si temeva che i fiorentini attaccassero. E’ probabile che sia rimasto dopo il 15 giugno, pronto ad intervenire. Si riscontra poi la presenza di un altro capitano, certo Berardendo da Macereto, che senz’altro affianca l’Aldelli nella difesa del castello in quei giorni rinforzato da numerosi balestrieri e truppe a piedi che restano oltre dieci giorni. Sono circa 70 uomini, molti di professione e armati di balestre, che si schierano sulle mura del castello di Quercegrossa in attesa che il nemico attacchi. Riscuotono una paga giornaliera di 20/22 denari, quasi due soldi, e fra essi vi si trovano mercenari provenienti da tante città diverse. Per alcuni riscuote il capitano Aldelli. Trentanove di essi sono soldati a piedi e generalmente sono protetti e armati alla leggera essendo le corazze e certe armi appannaggio dei cavalieri di famiglie ricche e nobili. Il pedone è protetto da un elmo metallico, ma porta anche cappelli di spesso cuoio e indossa camicie di maglia di ferro o pettorali di cuoio, mentre per difendersi tiene sul braccio sinistro lo scudo detto pavese, di legno rinforzato da strisce di cuoio, raramente di ferro battuto. Tra le armi di offesa, oltre alle solite spade e lance di legno e metalliche, prevaleva nelle fanterie campagnole l’uso di armi meno nobili, ma forse più efficaci come scuri, accette nonchè roncole e spiedi vari. Non mancavano tra queste fila qualche arciere.
Tutti i soldati portavano una cotta con i colori della Città o anche dipinti sullo scudo. Tra questi fanti che furono impiegati a Quercegrossa si ricordano Boringherio Arnolfini, Bonaccorso Dietaiuti, Scaldabrine, Boncristiano Rustichelli, Graziano di Valdinievole, Ugolino Valiani, Aringherio da Cerreto, Bardello da Bugiano, Spennato, Francesco da Orgia, Simone da Rigomagno ecc. A questi uomini provvisoriamente in armi si affiancarono i soldati di mestiere con balestra o qualche cittadino addestrato e armato con quello strumento di morte, di varie dimensioni, che lanciava dardi metallici ad alta velocità bilanciati con penne di falco e altri volatili. Inviati dal Comune, i balestrieri rimasero tra i dieci e i diciotto giorni sugli spalti di Quercegrossa e rientrarono in Siena appena l’esercito fiorentino si allontanò. Si rammentano: Folco, Proposto da Marsiglia, Bonello da Cremona, Pietro da Ferrara, Bernardo di Provenza, Dimandato da Bologna, Diatacorri da Bologna, Albertino da Modena, Niccoletto, Bonalbergo, Raimondino, Guglielmo da Genova, Rufino da Genova, Roberto di Ruggero, Guglielmo de’ Barzaloni, Piero di Mustiero, Guntieri da Genova, Pelegrino, Raimondo di Provenza, Orlandino da Bologna, Ranerio da Bologna, Miccheli da Bologna, Ugone Raimondi, Ruggero d’Apulia, Berardo di Francia, Albertino da Reggio, Domigo della Regina. Un altro personaggio si trovava a difesa del castello, custode della torre, ed era Bencivenni.
Ritiratosi l’esercito nemico in Firenze e sospesi i lavori, si rifornì la fortezza e si restituirono alcuni attrezzi. I consoli di Dogana Guidoccio e Ugo inviarono a Quercegrossa una grossa partita di olio. Melliorato da Quercegrossa, un barrocciaio o un contadino, riportò a Siena numerosi picconi e ai primi di luglio il fabbro Bencivenni ritirò mantici e altra attrezzatura da fucina. In seguito anche Foresi, altro abitante di Quercegrossa, riportò in città numerose ferramenta. Per alcune opere di rifinitura arrivò il maestro marmoraio Jacopo che lavorò in piena estate per 28 giorni e riscosse 56 soldi.
La ritirata fiorentina non fece abbassare la guardia ai senesi che restarono all’erta e si preoccuparono di rinforzare la frontiera inviando nuovi fanti e balestrieri nei castelli e dagli ultimi giorni di giugno alla metà di luglio rimasero in servizio a Quercegrossa di rinforzo alla guarnigione circa 30 fra fanti e balestrieri. Dopodichè gli ultimi giorni di luglio furono assoldati altri 18 balestrieri e 21 fanti. I fanti furono ingaggiati tra gli artigiani e coloni dalla campagna di Quercegrossa e furono di guarnigione Ranerio calzolario, Argomento, Lisandro, Bonaccolto, Orlando dalle Gallozzole, Bonsignori da Topina, Piero delle Garle, Orlando dalla Val di Pugna, Ficarello, Guido del Caggio, Bonessere da Vignale, Giovanni fabro, Gualcherino, Cambio di Giovanni, Papa et Ventura da Lornano. Grato e Brighinzone da Poggibonsi erano tra i balestrieri.
Bene o male in quel luglio i contadini del Comune, possessore di diversi poderi tra Quercegrossa e Selvole, riuscirono a segare, battere e macinare il grano, e la farina ricavata venne venduta. L’inviato del Comune Lottorengo viaggiò più volte per organizzare il trasporto della farina alla Dogana di Siena e per questo servizio impiegò barrocciai e asinari per spedire le 27 moggia e 9 staia, pari a circa 145 quintali. Spese in tutto 7 lire e la Biccherna incassò nella vendita ai fornai 121 lire. Alcuni giorni dopo Fancello Gualterotti, definito “Comitis”, misurava una quantità di 50 some (179 staia = 40 q) di farina presso Quercegrossa, e nei due giorni successivi Lottorendo cercò in Siena fornai per venderla.
Gli asinari Paganello, Gualferotto e Pedro fecero diversi viaggi con ceste e il fornaio Guido e il barlettaio Onorio viaggiarono con bigonzi su carri. Si presentarono al magazzino del castello e un certo Guiduccio e il suo garzone, incaricati della custodia della farina, la pesarono e consegnarono, mentre il capitano Ugo Aldelli riscuoteva. Alla fine si ritrovò con 33 lire incassate e consegnate quindi alla Biccherna. Guiduccio e il suo garzone ebbero 10 soldi. Intorno al 15 giugno altra farina era stata venduta da Bonfiliolo da Topina ed erano state incassate 22 lire per 4 moggia di grano.
Intanto in Firenze regnava insoddisfazione per l’esito della spedizione contro Siena e allora nel mese di agosto venne invaso nuovamente il territorio senese con le sole milizie cittadine, e dopo razzie e danni fu attaccato il castello di Selvole che si difese per alcuni giorni, ma nonostante l’arrivo di rinforzi da Siena, la rocca danneggiata e indifendibile venne abbandonata al nemico che la demolì completamente. Appena conosciute le mosse dei fiorentini, i senesi inviarono immediatamente rinforzi a Quercegrossa temendo un attacco al castello. Certamente i fiorentini vi fecero delle scorribande, ma senza osare assediare la ben munita fortezza difesa dalla guarnigione con l’aggiunta di 20 fanti e 10 balestrieri rimasti in armi per tutto il mese di agosto. Devono essere arrivate anche nuove balestre perchè diversi fanti assoldati come peditibus riscossero poi la paga di balestrieri, ora di 2 soldi al giorno, e per loro riscosse Giovanni il fabbro della Ripa del popolo di S. Stefano. Alla distruzione di Selvole, i senesi risposero entrando nel territorio fiorentino devastando come non mai Lecchi, Vertine e Monteluco fino a Radda. Sembrava non ci fosse più tregua. A Quercegrossa molti balestrieri e pedoni rimasero a presidiare il castello fino a dicembre. Fra gli ultimi in fortezza si ricordano i balistari Guglielmo di Ugerio, Alardo, Ugone Ramandi, Rosso da Viterbo de Viterbo, Pellegrino e Raimondo e i fanti Cambio da Rufiano oltre ai locali Bonsignore da Topina, Pietro delle Garle, Orlando delle Gallozzole, Guidone del Cagio, ecc. Ma i fatti del precedente inverno indussero alla prudenza e venne mantenuta per tutto l’inverno un piccolo corpo di armati per ogni evenienza composto da 10 pedoni e 16 balestrieri, più 2 addetti alla porta e 2 alla torre. Tutti vennero pagati in anticipo fino al primo febbraio con un soldo di molto inferiore al solito ingaggio: i peditibus ricevettero 35 soldi per tutto il periodo, i balestrieri 45 soldi, un capo portone 40 soldi e l’altro 25, mentre i custodi della torre ricevettero 25 soldi ciascuno. Altri balestrieri come Orlandino da Bologna e Carnelevare da Cremona rimasero in armi a Quercegrossa fino a marzo 1231.
Alla fine di ottobre 1230 Ventura di Jacopo riceveva 4 lire di arretrati per sè, per Giusto calzolaio, per Bencivenne calzolaio di Belvedere, e per altri, la paga per il servizio in armi prestato in due giorni quando vennero i fiorentini a Quercegrossa. Un altro capitano fu presente in quei giorni ed era Bernardino di Giovanni Papa.
Col settembre ripresero le opere e i rifornimenti di materiali e alimenti al castello. Bruno da Quercegrossa, magistro muratore o falegname, riscosse 56 soldi per aver lavorato quasi tutto il mese di settembre e contemporaneamente riprese l’attività dei fabbri col ritorno di Culdiferro che portò 5 picconi e 5 picconcelli, mentre altri ne portarono ancora. Il pizicaiolo Guidalotto fece arrivare 50 verghe di acciaio, forse per ricavarne delle spade, e altre armi da Bandino, fabbro che dimorò per cinque giorni nel castello ricevendo 10 soldi.
I pericoli sempre imminenti, la paura e tanti rischi corsi, oltre alla distruzione materiale delle case e dei poderi nelle campagne al confine nord, causati dalle ultime e ormai frequenti scorrerie dell’esercito fiorentino che avevano ridotto i coloni all’indigenza totale con la perdita di attrezzature, paglie, animali e raccolti, fecero crescere il proposito nei contadini di abbandonare la terra senese e recarsi lontano in più sicuri luoghi del contado fiorentino. Di conseguenza nel settembre le autorità di Siena dovettero risolvere il grave problema e inviarono d’urgenza nei quattro maggiori castelli Piero di Bulicone col balitore Giovanni a convincere le famiglie colone a restare nei loro poderi, vincolandoli con giuramento.
Ripresi i lavori con l’impiego di Lietolo e altri guerchi e del magistro Raimondo, in questo autunno si lavora soprattutto intorno al castello per scavarvi un largo e profondo fossato, a pochi metri dalla cinta muraria, chiamato carbonaia, opera che aumenta notevolmente la capacità di difesa. Infatti, dove non era possibile sfruttare un corso d’acqua per allagare i fossati a protezione della costruzione, si utilizzavano le rammentate carbonaie, tipo trincea, riempiendole di fastella e grossi tronchi e incendiandoli con pece e zolfo in modo che le fiamme, ben alimentate anche da altre fascine gettate dagli spalti, bruciassero e, mantenendo un alto calore, impedissero di fatto all’aggressore di avvicinarsi alle mura oppure arrecargli comunque delle difficoltà incendiandole improvvisamente per impedire di allontanarsi e massacrarlo sotto le mura. Si registra anche l’apporto di Ormannino, un architetto che costruisce degli ambienti nel castello e forse la grande trave lavorata sul posto da Raniero di Gualtiero in agosto serviva proprio per lui. Il lavoro del falegname venne stimato 12 soldi da Ugo Aldelli. Un altro piccolo inconveniente fu risolto con la spesa di 4 soldi e fu il rifacimento delle chiavi della porta del castello, probabilmente danneggiata dal nemico. Ci sono anche dei problemi con la farina che risulta avariata per alcune staia e oltre alla sua sostituzione si rifornisce il castello facendone venire 13 some dal mulino di Poggibonsi trasportate da 13 asini. Si acquistano ancora pelli di bove per le difese della torre e delle mura. I fatti militari dell’anno in corso avevano chiaramente dimostrato quanto importante fosse la posizione strategica di Quercegrossa per la difesa di Siena, che più volte aveva distolto i nemici dall’intraprendere la strada per Fontebecci con il rischio di essere presi alle spalle dalla guarnigione senese. Aumentò di conseguenza l’azione di fortificazione del castello e si lavorò incessantemente per tutto novembre, fino a quando la stagione lo permise. Il maestro Accherisio agì secondo le disposizioni dei Quindici e fu ampiamente finanziato ricevendo in più volte la somma di 750 lire, parzialmente impiegata anche a Cerreto e Monteriggioni. Dal marzo all’ottobre 1231 si fece ancor più intensa l’opera di muratura, scavo e mantenimento dei fossati che richiese un eccezionale investimento in denaro pubblico pari a lire 1620 per la sola Quercegrossa, che il magistro Accherisio di Ranuccio e altri spesero per gli operai e il materiale necessario. Più specifici interventi sono pagati a Ranerio Folcalcherio e Scotto di Domenico per l’opera di ripulitura dei fossi già esistenti e la sistemazione di sentieri e strade. Per tutto il 1231 sono registrati numerosi viaggi dei balitori a Quercegrossa come messaggeri e accompagnatori di personalità politiche, poi la mancanza di documenti ci impedisce di conoscere gli avvenimenti successivi. Le ultime note importanti si riferiscono a Sbrigato da Bologna, il quale per lire 15.17.8 vende al Comune 31 libbre di canapa per le corde delle balestre, e il viaggio dei fornai Pietro e Lietole giunti a Quercegrossa nell’ottobre con il compito di valutare se la farina della guarnigione era da conservare oppure gettar via essendo probabilmente avariata.

1232 - Prima distruzione
Per tutto il 1231 e il 1232 alle vicende militari tra Orvieto, Siena, Firenze e Pisa per il controllo di Montepulciano, si susseguirono tentativi di pace che videro mediatori l’impero e il papato, ma senza sortire risultati, e così nel 1232 i fiorentini e gli alleati tornarono nuovamente a invadere il contado senese con incursioni nel Chianti, nella valle dell’Ombrone e in Val di Chiana finendo di distruggere quanto di poco ormai esisteva. I senesi, dal canto loro, riportarono parte dell’esercito a Montepulciano per un assedio che si rivelava difficoltoso, ma intrapreso con l’avallo del Papa e dell’Imperatore che riconobbero giuste le pretese di Siena sulla cittadina e ammonirono i fiorentini di non molestare Siena sotto la pena di 100 marche d’argento. Ma l’alterigia di Firenze passò sopra ogni monito e, incuranti delle ingiunzioni ricevute, prepararono l’oste e nel giugno 1232 alcune migliaia di soldati si diressero sul confine nord di Siena devastando ancora Selvole e dintorni per presentarsi poi all’improvviso davanti alla munitissima fortezza di Quercegrossa. Non conosciamo quale strada percorsero, ma probabilmente giunsero da Pievasciata e, scendendo dai poggi di Vagliagli, si presentarono di fronte al castello da est, ossia dal borgo di Quercegrossa, e posero subito in atto uno stretto assedio montando le baliste, i trabucchi e i mangani dalla parte del paese, l’unica che presentava tratti di piano e fronteggiava la porta del castello. Si accamparono nei punti strategici sbarrando ogni via di fuga, mentre la cavalleria e la truppa sciamavano nei dintorni per rifornirsi e rovinare, razziando animali, fieni, grani, a Petroio, Casalino, Sornano, Larginano, Gaggiola, il Casino, Macialla ecc., e incendiando quello che non potevano portar via comprese le messi giunte alla maturazione. I fuochi degli accampamenti e le fiamme degli incendi resero minacciosa e inquietante la notte alle vigili sentinelle senesi. Il castello, o fortezza come viene indicato nei documenti, si presentava come baluardo imprendibile con tutti gli accorgimenti difensivi del tempo, eseguiti nei due anni precedenti. Una numerosa guarnigione composta forse da 200 uomini, con decine di balestrieri e macchine, difendeva le mura e la popolazione dei luoghi e poderi d’intorno, lì rifugiata frettolosamente con alcuni armenti. Le scoscese piagge che lo circondavano e il profondo vallo creato tra il castello e il borgo (non come lo vediamo oggi) davano sicurezza e forza agli uomini che attendevano impavidi gli assalti imminenti dei fiorentini. Una grande quantità di pietre, macigni e munizioni incendiarie era pronta per essere scaraventata addosso agli assalitori. La grossa balista e la catapulta posizionate nella piazza erano pronte a scagliare i loro mortali carichi. Inoltre non mancavano nè acqua nè cibo anche per sostenere un lungo assedio e il valoroso capitano Ugo Aldelli, detto anche Ugone, con la sua lucente corazza comandava la difesa. In realtà non conosciamo il nome del comandante in quel momento, ma si presume sia stato l’Aldelli, presente nel 1230, oppure Bernardino di Giovanni Papa della famiglia Bandinelli, ricordato castellano nel maggio 1231, e come capitano negli anni passati. Chiunque sia stato, egli osservava preoccupato e pensieroso, dalla torre di guardia, la numerosa masnada fiorentina affaccendata a preparare l’attacco. Un momento previsto e atteso, perchè tutti sapevano che prima o poi sarebbe arrivato, ed ora nell’imminenza della battaglia era suo compito e dovere incoraggiare e spronare i suoi soldati all’ultima difesa; ma la speranza era di ricevere rinforzi dalla città al più presto.
Certamente si trovavano fra i difensori, come ausiliari, ingaggiati o riparati con le famiglie, tutti quegli uomini di Quercegrossa e dintorni avvezzi all’uso delle armi anche se artigiani e contadini, e più volte assoldati come Melliorato, Foresi, Bruno, Palmerio tutti di Quercegrossa e poi Orlando dalle Gallozzole, e chissà se c’erano quelli provenienti dal territorio fiorentino di confine e già in affari con i senesi come il noto esploratore Bonincontro da Topina, Bonfigliolo e Bonsignore da Topina, Guido del Caggio, Piero delle Garle e Mannuccio da Frassi. Tra gli scelti balestrieri di professione troviamo tutti nomi nuovi rispetto agli anni precedenti; alcuni sono di Poggibonsi e del territorio senese, poi vi è un bel gruppo proveniente da Monte San Savino, molti da Massa Marittima, altri da Pisa e dalle città del settentrione.
L’improvvisa comparsa dei fiorentini a Quercegrossa, venne segnalata subito con messaggeri alla città e con fuochi notturni dal Castellare indicanti la resistenza della fortezza. Questa presenza nemica deve aver in qualche modo allertato Siena, ma essendo una parte dell’esercito impegnata a Montepulciano e forse confidando nella imprendibilità di Quercegrossa unita alla lentezza della mobilitazione e al timore di indebolire la difesa della città allontanandone le milizie, a quanto sembra nessun ulteriore soccorso venne inviato in tempo a Quercegrossa. In ogni modo i fiorentini per anticipare ogni aiuto si scagliarono in fretta contro la cinta delle mura circondate da ogni lato. A giorno fatto iniziò l’attacco e la prima azione la scatenarono i mangani e i bolgioni che con i loro lunghi bracci cominciarono a scagliare grossi macigni e fuoco pennace contro le mura, la torre e all’interno del castello. Risposero i difensori allo stesso modo con vasi e pignatte incendiarie per colpire, bruciare e uccidere più uomini possibili. Le compagnie fiorentine al grido di “Sangiovanni”, munite di lunghe scale, tentarono il primo assalto proteggendosi con gli scudi, ma subendo perdite per il fulmineo divampare del fuoco della carbonaia intorno al fosso del castello e per i numerosi dardi, quadrelli e frecce che piovevano loro addosso, oltre a grossi sassi lanciati a mano da tutti i difensori, che rotolavano ferendo e rompendo ossa. Gli arcieri fiorentini proteggevano il rozzo ariete ricavato da un grande tronco d’albero che, tenuto da decine di uomini protetti dai grossi polvesi e da pelli di bove fradicie d’acqua contro il fuoco, cominciava a battere con forza contro la grande porta per saggiarne la resistenza. Tra il fumo che avvolgeva il castello, il puzzo dello zolfo incendiato, le grida di paura e d’incoraggiamento mischiate alle urla di dolore dei primi feriti, il rumore delle macchine intente a lanciare a intervalli regolari i loro mortali proietti che si infrangevano con paurosi tonfi sulle costruzioni interne ed esterne del castello, il luogo divenne un inferno dove dominava la paura e ci si batteva coraggiosamente per salvare la pelle e uccidere l’odiato nemico. I fiorentini riuscirono in alcuni punti ad appoggiare le scale alle mura, ma le pertiche, le funi con ramponi e le leve usate dai difensori ribaltarono le scale e molti fiorentini stramazzarono a terra. Visti inutili i tentativi fatti, venne sospeso l’attacco per dare riposo e riordinare le fila. Già si contavano tra i difensori diverse decine di feriti e morti per il gran numero di assedianti che tiravano da tutte le parti. Qualche inizio d’incendio era stato soffocato e le mura pur sbrecciate reggevano, ma tutti avevano compreso che senza aiuto la resistenza non sarebbe durata a lungo. Troppe le macchine da guerra nemiche, troppi i fiorentini che assaltavano da ogni parte, e insufficienti i difensori per far fronte ai circa 400 metri di perimetro del castello. All’ultimo assalto, con il sole al tramonto, con i danni ormai visibili alle torri e alla porta, con i magazzini e le stalle in fiamme che illuminavano sinistramente la sera, la preponderanza degli assalitori ebbe la meglio e già erano entrati nella piazzaforte dalla porta e dagli spalti, spaccando teste e infilzando chi capitava, quando il comandante ordinò la resa per evitare una strage. Alcuni col favore del buio senz’altro riuscirono a fuggire o nascondersi, le donne e i ragazzi e i feriti gravi furono rilasciati, ma i combattenti vennero disarmati, legati e condotti all’accampamento. I fiorentini fecero preda di tutto e nel castello rimasero solo le muraglie. Mentre finivano di bruciare e crollavano gli edifici, compresa la chiesa di S. Maria, iniziarono l’opera di demolizione delle mura e della torre togliendo per l’intera notte pietra su pietra e quando ebbero finito il castello di Quercegrossa era ridotto ad una grande macia fumante. I morti rimasero insepolti, mentre i vincitori baldanzosi e fieri con i vessilli al vento, con i 110 prigionieri avviliti e una lunga fila di carri e some cariche di bottino, ripresero frettolosamente la via per Firenze passando forse da Fonterutoli e Castellina. Ma correvano inutilmente perchè dell’esercito senese non si vide nemmeno l’ombra. Anni di lavori e di grosse spese vanificati in due giorni o a parere di uno studioso senese tutto avvenne in una sola notte di settembre, quando sorpresa dall’attacco fiorentino la guarnigione si arrese senza combattere. Ma questa teoria è inaccettabile e molto più veritieri sono certamente gli scritti di due storici fiorentini, Ricordano Malaspini e Giovanni Villani, che riportano qualche decennio dopo e con identico testo: “Negli anni di Cristo 1232 i sanesi presono Montepulciano, e disfeciono le mura, e tutte le fortezze della terra, imperciocchè quelli da Montepulciano per mantenersi in loro libertà si erano in lega co' fiorentini, per la qual cosa i Fiorentini andarono a oste sopr'a Senesi, essendo podestà di Fiorenza messer Jacopo da Perugia, e guastarono molto del loro contado, e puosono l'oste al castello di Quercia grossa presso a Siena, a quattro miglia, il qual'era molto forte, e per forza di dificio s'arrenderono, e autolo lo feciono disfare, e gli uomini menarono presi in Fiorenza”. L’informazione importante “per forza di dificio”, ci dice senza alcun dubbio che i fiorentini usarono nell’assedio le macchine da guerra e inoltre, essendo l’esercito fiorentino già da diversi giorni sul territorio nemico, sembra impossibile che a Quercegrossa si siano fatti cogliere di sorpresa. Semmai un errore commesso dagli storici fiorentini riguarda l’anticipo dei tempi della presa di Montepulciano, avvenuta sì in quell’anno, ma il 28 ottobre. Seguiamo ora le vicende degli uomini condotti prigionieri a Firenze e rinchiusi nelle carceri pubbliche e in torri private. Da dire subito che in quei tempi la liberazione aveva un prezzo determinato dall’importanza del personaggio e solo i nobili cavalieri e i ricchi borghesi avevano le risorse finanziare e creditizie per pagarsi un riscatto. Forse per questo alcuni rimasero poco tempo nella prigione fiorentina, ma la maggioranza stava per trascorrervi almeno due anni e qualcuno ci lasciò la vita per le ferite riportate. Non erano salutari le carceri in quei tempi, ma qualche occasione di comunicare veniva concessa ai prigionieri di guerra. Ad esempio, tra ottobre e dicembre 1232, a tre senesi rinchiusi nelle torri fu data la possibilità di richiedere al Comune di Siena, attraverso un procuratore, i danni subiti per la perdita di armi a Quercegrossa. Fu questa una prassi seguita da molti altri soldati prigionieri, ma la documentazione che inizia dall’agosto 1234 è a conferma che la prigionia ebbe una lunga durata. Meraviglia soprattutto che in quei tempi si usasse risarcire un soldato per la perdita delle armi considerando anche il fatto che i soldati si erano arresi, ma probabilmente è un fenomeno circoscritto a quell’evento perchè il Comune di Siena ritenne giusto rimborsare coloro che avevano sofferto le privazioni e i danni di una lunga prigionia. Sembra che una certa misericordia venisse usata ai prigionieri senesi, ma in questo c’è anche l’intento dei fiorentini di alleviare le sofferenze dei concittadini rinchiusi nelle carceri di Siena; infatti, nel gennaio seguente alla cattura, essi scrivono una lettera al podestà di Siena Guglielmo Amati per informarlo che venerdì dopo il vespro i soprastanti alle prigioni avevano aperto loro le porte delle celle e consentito di accedere a loro piacere allo sportello per avere le cose necessarie; perciò pregano il podestà di usare nelle prigioni di Siena il medesimo trattamento ai prigionieri fiorentini. Qualche mese più tardi papa Gregorio X con bolla diretta al podestà e al popolo di Siena sembra ordinare la liberazione dei numerosi prigionieri “che gemevano” nelle carceri della città e si pensa che ugual richiesta sia stata inviata ai governanti fiorentini; non si sbaglia a credere che la lettera non abbia avuto nessun effetto immediato.
Il contenuto delle richieste di rimborso danni presentato da una trentina di prigionieri a Trasmuzzo di Cancelliere, incaricato dal podestà di risolvere la questione, riguarda essenzialmente la perdita di ogni tipo di arma specialmente balestre, scudi ed elmi, ma viene anche riportata genericamente la perdita di cose e oggetti oltre alla richiesta della paga promessa e mai ricevuta, e persino un indennizzo per la prigionia sofferta. Guerruzzo riceve la nota dei danni e stabilisce il rimborso. Tutti agiscono per mezzo di un procuratore, il quale può essere chiunque, anche la stessa mamma del richiedente, e le richieste sono rogate da un notaio. Alcuni, pur di avere subito i soldi in tasca e far ritorno a casa, cedono ad altri il diritto alla somma da avere in cambio di un immediato saldo in denaro, anche se inferiore. Le somme concesse sono abbastanza rilevanti e vanno dalle 2 alle 13 lire a testa, mentre i balestrieri di S. Savino, Arrighetto, Nuvilone e Bonagiunta ottengono per loro e per gli altri balestrieri 50 lire. Tra queste interessanti notizie prevale senz’altro quella di conoscere, con una certa emozione, i nomi dei soldati che combatterono nella vana difesa del castello di Quercegrossa. Alcuni vi furono uccisi come Lotterengo, Orlando e Tedesco, probabilmente di Poggibonsi, e per loro richiesero la paga mai riscossa i rispettivi genitori, e come Piero da Trequanda il cui padre Garardo di Rozzo nomina Ridolfino di Villano suo procuratore per richiedere al Comune di Siena la somma di soldi 47 in risarcimento di armi perdute da suo figlio; altri furono feriti e morirono in carcere come Alberto da Massa per il quale e anche in nome dei suoi figli si fa avanti la vedova Suffia. Alberto faceva parte del nutrito gruppo di balestri massetani (Massa Marittima) insieme a Melone di Giovanni, Lambardo Righi, Braccio di Ugolino Rovai, Bonagiunta di Burcio, Ranuccio di Uliviero, Bonaiuto Donnisi, Bartolomeo di Riccio, Buzzavacca Carpenventri, Tinacciuo di Pezzamello e Vaccario Fedi. Sappiamo che uno dei torrigiani del cassero era il senese Benvenuto di Vita della Valle di S. Martino, il quale richiede un rimborso per soldi 24, valutazione di un tavolaccio (scudo), di un cappello e di una balestra. Compagno del fu Cocco fu il primo a richiedere i danni il 28 ottobre 1232, mentre Cristoforo di Guido da Montagutolo Iuseppi fu prigioniero nella torre dei figli di Cavalcante in Firenze. Bonincontro del fu Piero nominò Dicina sua madre come procuratore, mentre l’altro Bonincontro del fu Altavilla ebbe la madre Cece come procuratore e cedette all’ebreo Farrabue il credito verso il Comune. Anche Pepo d’Ugolino passò ad Arnolfino d’Orlando il suo credito per la somma di lire 9.7. I due pisani Ponzo di Pietro e Legerio di Ugolino, avevano un credito di 26 lire verso il Comune per le cose perdute, ma ansiosi di rientrare in patria, nel rione San Luca, lo cedettero a Tornainpuglia di Salsedonio console de’ mercanti e banchieri di Siena e a Viviano di Guglielmo console de pizzicaiuoli in cambio di 17 lire sonanti. Gli ultimi nominativi da ricordare sono di Bernardo de Bagni, Beltraimo da Trascona, Martino di Boccaccio da Selvole, Lorenzo di Giovanni, e per ultimi, che riscossero soltanto nel 1236, Bentipreso d’Arezzo si vide liquidare 4 lire per la perdita delle armi, Scalfino ricevette il saldo e Orgese Tancredi 3 lire. In questo anno furono liquidati anche alcuni operai, anch’essi catturati a Quercegrossa. Siamo certi che i castellani o capitani Ugone Aldelli e Bernardino di Giovanni Papa non perirono nell’assedio nè in prigionia perchè li ritroviamo anni dopo al servizio del Comune.
Il proditorio attacco fiorentino al contado senese, nonostante il divieto loro imposto dall’Imperatore, aveva causato enormi danni economici e materiali con la distruzione dei castelli di Selvole e Quercegrossa e il saccheggio con furti e uccisioni di una vasta regione così che il Comune di Siena si rivolse nuovamente al naturale alleato e protettore, ossia all’autorità imperiale, per ottenere giustizia e condannare i fiorentini a risarcire i danni arrecati. Cercando di dare una logica cronologica ai diversi documenti che richiamano le decisioni imperiali e anche papali contro i fiorentini, vediamo che già sul finire del giugno 1232, cioè lo stesso mese della distruzione del castello, i senesi si appellano all’Imperatore presentando, come dire, una nota dei danni subiti che ebbe come esito l’intimazione ai fiorentini di presentarsi a giudizio davanti al tribunale imperiale prima del giorno di Ognissanti (1 novembre) a render conto del loro operato sotto la pena di 110.000 marche d’argento al fisco imperiale e 600.000 lire come risarcimento danni al Comune di Siena. Questi fecero orecchi da mercante e continuarono le loro scorrerie nel contado senese. Un passo pacificatore venne compiuto dal Papa, il quale, prendendo atto delle miserevoli condizioni in cui si trovava lo stato senese grandemente danneggiato da questa guerra, mandò a Firenze fra Giovanni da Vicenza, un domenicano di grande prestigio, ma che fallì nella sua mediazione di convincere i fiorentini a cessare ogni atto di guerra e violenza contro i senesi. Ostinati nel loro proposito i fiorentini si inimicarono il Papa, il quale mise l’interdetto alla città e il 21 novembre 1232 scomunicò i reggitori dei Comuni di Firenze e Orvieto per mezzo del suddiacono Goffredo, suo cappellano. Egli lesse la sentenza dopo il vangelo della messa solenne nella cattedrale di Arezzo davanti ai testimoni qualificati.
Nel frattempo, il 2 ottobre 1232 nel consiglio di Pistoia, Pellegrino da Caserta avvocato della Gran Camera Imperiale in nome dell’imperatore Federigo II chiamava in giudizio i pistoiesi per essersi alleati ai fiorentini contro Siena e aver distrutto Quercegrossa e da questo testo veniamo a conoscenza che dell’esercito distruttore facevano parte anche milizie pistoiesi. Non sortendo nessun effetto l’intimazione ai boriosi fiorentini, scaduto il termine i senesi inviarono nel dicembre Guidotto di Lucchese alla corte imperiale protestando per i danni subiti senza ragione dai fiorentini che ammontavano alla notevole somma di 200.000 lire per la distruzione dei castelli di Quercegrossa e Selvole e per altre 400.000 lire di guasti riscontrati nel contado per incendi, ruberie e danni vari. L’appello senese ad ottenere giustizia, caldeggiato col cuore in mano dal sindaco Guidotto davanti a Gaybardo de Arnestein, legato imperiale in Italia, Tommaso d’Aquino, conte d’Acerra, Simone, conte di Tebarm, Manfredo, marchese Lancia, e ai giudici della grande corte imperiale all’Isola di Procida, venne accolto con la condanna a Firenze di pagare 10.000 piastre d’argento. La sentenza emanata fu firmata dal giudice e consigliere Pier delle Vigne, noto personaggio storico. Ma ancora una volta i fiorentini ignorarono il dettato imperiale, anzi si fecero più insolenti e temerari e nella primavera successiva, fatta nuova e fortissima oste, saccheggiarono Asciano, presero Montalcino, distrussero altre 43 tra luoghi e ville, e non più minacciati dai castelli di confine ridotti a cumuli di pietre, alla metà di luglio raggiunsero facilmente le mura di Siena che circondarono da tre parti, e quella volta si limitarono a catapultare dentro la città carogne di asini e altre zozzure. L’anno 1235 trova Siena in condizioni disperate con la compagna desolata, senza raccolti e parte del territorio in mano a Firenze che si appresta a conquistare anche Poggibonsi. Una manifesta difficoltà che obbligò i senesi a chiedere tregua, ottenuta con l’intervento decisivo del papa Gregorio IX. Infatti, il 30 giugno, il suo inviato cardinale di Palestrina fece firmare a Siena una pace a caro prezzo, costringendola a cedere Montalcino, Montepulciano e Poggibonsi a Firenze, respingendo però, tra le altre, la pretesa fiorentina di proibire ai senesi la ricostruzione del castello di Quercegrossa.
Si concluse con questa pace una tragica guerra il cui esito fu favorevole a Firenze, e purtroppo tra le vittime illustri si annoverò il nostro castello che, seppur ricostruito una seconda volta, perse probabilmente la caratteristica cinta difensiva medievale con mura e torrione che oggi possiamo soltanto immaginare.
Quercegrossa distrutta e devastata rimase spopolata e le terre inselvatichite. Dopo la pace si tentò di ripopolare i suoi poderi invitando a rientrare con incentivi ed esenzioni i coloni fuggiti nel territorio fiorentino e nel 1236 Lambertino di Napoleone ebbe 8 soldi per il viaggio fatto nel ricondurre sette contadini (e le loro famiglie) al castello di Quercegrossa. La stessa storia si ripete quattordici anni dopo, nel 1251, quando Arnolfino di Napoleone riconduce sempre dal contado fiorentino sette contadini ricevendo 8 soldi, e ancora nel 1258, quando lo stesso Arnolfino e Ildebrandino di Lambertino conducono altri sette contadini dal contado fiorentino a Quercegrossa per abitarvi secondo le disposizioni del Consiglio. Gli anni che seguirono il 1235 videro da parte senese intraprendere numerosi interventi di restauro e ripristino delle antiche difese. Non sappiamo quando avvenne, ma certamente non trascorsero molti anni, forse dieci o quindici, e a Quercegrossa si ricostruì il castello. Probabilmente una struttura ridotta rispetto al precedente, ma fortificata quel tanto che bastava per proteggere una piccola guarnigione.
Se può essere indicativo risulta che nel 1248 domino Bandinello ricevette la bella somma di 27.5.3 lire per aver ospitato il podestà nel suo palazzo, compresi 3 soldi dati a Matteo di Quercegrossa, artigiano, per la riparazione di alcuni danni subiti dallo stesso palazzo. Purtroppo non c’è indicazione del luogo dove sorgeva il palazzo, ma potrebbe trattarsi di Quercegrossa. Lo stesso anno 1248 la biccherna riceve lire 8.6.8 da Bernardino di Piero da Quercegrossa (il sindico) che paga il censo annuo dovuto per una parte delle spese relative al contingente militare della piazzaforte di Quercegrossa. Entrata registrata anche nel 1251 con la stessa procedura. Si ebbero in più occasioni conflitti armati e Siena affrontò gli Aldobrandeschi verso il 1237, e soprattutto, nel 1251, entrò a far parte dell’alleanza ghibellina con Pisa e Pistoia contro la guelfa Firenze; come conseguenza ripresero con lena le invasioni territoriali da entrambe le parti e nel novembre 1251 l’esercito senese mosse verso Quercegrossa minacciata dai guelfi. Era arruolato in quell’anno il già ricordato Matteo da Quercegrossa, come fante, che nel luglio per il servizio prestato ricevette 49 soldi. Matteo aveva certamente fatto parte di quel drappello di cavalieri e fanti che nel mese di giugno, mentre l’esercito senese guerreggiava nel territorio di Arezzo a sostegno dei Guidi e degli Ubaldini contro Firenze, sorvegliò tutto il confine da Monteriggioni a Quercegrossa fino a Cerreto cavalcando e appostandosi per anticipare eventuali mosse nemiche. Per 54 giorni custodirono il confine e Ponzo de’ Caponsacchi, per sè e per due pedoni, guadagnò 24.6 lire e i cavalieri Raniero di Cittadino e Cristofaro Mancino con una quindicina di “peditibus” incassarono 143.14 lire.
La presa di potere da parte dei guelfi in Firenze nel 1251 segnerà il decennio e condurrà, attraverso numerosi scontri, assedi e devastazioni, alla famosa battaglia di Montaperti nel 1260, ma di questo periodo poche sono le menzioni di Quercegrossa. Ricordo soltanto il saccheggio fiorentino di tutta la zona di Monteriggioni e certamente anche della nostra, e l’assedio che ne seguì di quel castello nell’anno 1254.
Una nota importante ci richiama alla pericolosità di quegli anni e alla necessità di difendersi: risale al 1253/54 e rammenta il pagamento di 100 soldi ordinato dal Consiglio della Campana a favore di Dietisalvi di Martino per spese sostenute nella fortificazione della sua casa posta a S. Stefano di Basciano.
Un importante documento dell’archivio senese ci parla dell’attenzione e controllo che i senesi avevano delle singole comunità, anche le più piccole, chiamate continuamente a dar segni di fedeltà e partecipazione. Per esempio nel 1256 gli abitanti di Gardina, in territorio senese, inviano il loro sindico a prestare fedeltà a Siena e si impegnano pagare le tasse. Tale richiesta poteva derivare dall’incerto dominio politico e militare sui confini in quegli anni di scontri che poteva portare le comunità rurali alternativamente sotto l’influenza di una o dell’altra città.

Il sindico
Il Sindico, o Sindaco, è un termine di origine medievale e indicava un componente eletto della comunità locale che la rappresentava di fronte al signore feudale e più tardi al Comune di Siena. Numerose le sue mansioni che andavano dalla rappresentanza a riscossioni di tributi quando occorreva, all’accompagnamento di messi e delegati del Comune, ecc. Nel Costituto senese del 1309, che riporta una legge del 1295, si obbligano tutte le comunità delle Masse a eleggere un loro sindico.

In questo continuo guerreggiare, interrotto ogni tanto da effimeri accordi di pace come quello di Stomennano dell’11 giugno 1254 e di S. Donato in Poggio dell’11 luglio 1255, nel 1257 i fiorentini si impossessano nuovamente del castello di Poggibonsi dopo averne devastato e “immiserito i dintorni”, come dice l’abate del monastero di Poggio Marturi. Questa presa provocò lo sbandamento di un paio di migliaia di soldati ghibellini fiorentini, alleati di Siena, che si accamparono a due miglia dalla città. Per sopravvivere ricorsero alla rapina e al furto nel contado, creando grossi guai e insicurezza dappertutto, certamente anche da noi, prima che Siena intervenisse.
Nel 1257 Buonamico da Quercegrossa è ingaggiato, insieme a tanti, dal Terzo di Camollia come custode e sentinella delle porte e delle mura di Siena e riceve un piccolo stipendio. Nel 1258 si registra ancora una tassa pagata dal Comune di Quercegrossa per mezzo del sindico Querciolo di Fuccio che consegna 38.3.1 lire come censo per spese militari. Nella guerra totale dell’anno 1260 fra Firenze e Siena, a metà maggio l’esercito nemico raggiunse Vico, S. Petronilla e porta Camollia dove si svolse una breve battaglia, e senz’altro anche Quercegrossa rivide all’opera le soldataglie fiorentine a patì ancora nella campagna. A fine agosto l’esercito fiorentino muove ancora contro Siena, ma per altra via si ritrova a Montaperti dove viene sonoramente sconfitto dai senesi rinforzati dai fuoriusciti ghibellini e dai cavalieri di Manfredi. La prestigiosa vittoria di Montaperti diede momentaneamente il predominio a Siena e alle altre città ghibelline, ma ben presto con la venuta di Carlo d’Angiò e la morte di Manfredi nel 1266, con la sconfitta dell’imperatore Corradino a Tagliacozzo nel 1268, cui fece seguito in ambito toscano la vittoria di Colle del 1269, i guelfi rialzarono la cresta e ripresero il sopravvento. All’inizio del decennio trattato, Siena compì un importante passo sul piano legislativo dandosi un nuovo codice di leggi (Constituto) raccolte dai precedenti statuti, dai nuovi bandi, e redatte tra il 1262 e il 1264. In alcune di queste pagine si parla ampiamente di Quercegrossa e veniamo a conoscenza della sistemazione della strada, della piazza comune del paese, del giuramento dei consoli e signori, del suo ripopolamento con coloni provenienti dall’altra parte del confine, fissando gli aiuti e incentivi da dare a coloro che vogliono venire ad abitare in Quercegrossa. Dopo l’approvazione del Constituto diventa frequente la nomina del castellano di Quercegrossa da parte del Consiglio Generale che si ha il 3 dicembre 1266 e si ripete il 19 agosto del 1270.
Non potevano i continui guasti arrecati alle campagne dalle ultime scorrerie restare senza conseguenza ed ecco che si registrano due catastrofiche annate di carestia nel 1269 e 1271. Sono anni di forte contrasto politico militare che si risolse con la sconfitta definitiva dei ghibellini senesi e la loro cacciata dalla città il 15 agosto 1271.
Gli ultimi trent’anni del Duecento, oltre alle immancabili contese con i ghibellini e le altre città, sono caratterizzati dalla guerra con Massa Marittima che cade sotto il dominio senese, ma fondamentale è la presa di potere in Siena da parte dei Nove nel febbraio 1286 che metterà fine alle guerre con Firenze, ora alleata, con conseguenze benefiche per l’economia, per il popolo di Quercegrossa e per tutta la tribolata frontiera con Firenze. E’ certamente in questi anni che viene fondato lo Spedale di Quercegrossa di cui abbiamo la prima notizia nel 1297.



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