Quercegrossa (Ricordi e memorie)
CAPITOLO VIII - STORIA RELIGIOSA
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Indice Storia religiosa
L’Hospitale di Quercegrossa
“Hospitale di Querciagrossa” è così denominata nei documenti del Comune di Siena l'istituzione fatta da Giacomino di Falcone di un centro per l'assistenza dei pellegrini sulla strada che da Siena, staccandosi dalla Francigena a Fontebecci, portava a Firenze. Una strada fra le più importanti annoverata, nel 1281, fra le nove principali vie e strade pubbliche dello stato senese ( via et strata de camollia qua itur Florentiam per Querciagrossa).
Nessuna meraviglia se si parla di "Ospedale di Quercegrossa", ma tutto rientra nella normalità di un contesto storico dove la presenza di strutture caritative per l'assistenza ai pellegrini, ai bisognosi e ai poveri, era diffusissima; basti pensare che nello spazio del Medioevo a Siena e contado si ritrovano fino a 80 ospedali.
Il termine "ospedale", inteso oggi come struttura sanitaria per la cura delle malattie, deriva da "hospitale", che nel XIII secolo aveva un significato più ampio: indicava, cioè, un luogo dove si praticava l'hospitalità, ossia l'assistenza sotto forme diverse, a tutti coloro che si trovavano nel bisogno. Infatti, sarebbe limitativo, come avviene spesso, considerare l'hospitale soltanto come luogo di rifugio dei pellegrini che numerosi, anche in quei tempi, si muovevano in un continuo via vai da tutte le direzioni, per Roma, la Terrasanta e altri centri di devozione. In realtà, queste istituzioni praticavano l'assistenza a tutti i bisognosi, sia residenti sia di passaggio, e non solo a malati e feriti, ma prestavano aiuto a orfani, vedove, poveri, vecchi abbandonati, girovaghi, sofferenti, oltre, naturalmente, ai citati pellegrini. Alcune di queste strutture erano come dire specializzate e riservate a fruitori appartenenti a categorie ben specificate ospitando esclusivamente pellegrini oppure religiosi, o malati, o poveri, o lebbrosi, o scrofolosi o appestati.
Da ricordare che a questi pubblici e gratuiti centri di assistenza e di accoglienza si affiancavano numerose, a pochi chilometri l'una dall'altra, locande e osterie a pagamento, frequentate da più agiati viaggiatori.
L'alto numero di "hospitali" in territorio senese si spiega con la presenza della Via Francigena, la famosa via di comunicazione fra il Nord Europa e Roma, e di altre strade locali più o meno importanti che si innestavano su questa via principale, come la nostra di Quercegrossa che collegava Firenze, Greve, Castellina a Siena e si immetteva nella Francigena a Fontebecci.
Un grandissimo numero di fondazioni ospedaliere si ebbe, dunque, su queste vie, nel medioevo, la cui dislocazione seguiva nella quasi totalità dei casi il loro andamento sorgendo su di esse o nelle loro immediate vicinanze. E in questo storico fenomeno della solidarietà umana si colloca la fondazione nell’ultimo decennio del XIII sec., da parte di Giacomino Falcone Mantellato, di un hospitale a Quercegrossa, a pochi metri dalla strada principale, e all'anno 1297 risale la prima notizia della sua esistenza. Il Merlotti, senza citare la fonte, asserisce che fu fondato il 14 settembre 1293. Di Giacomino, probabilmente un terziario domenicano, sappiamo che era stato oblato dell'ospedale della Misericordia di Siena nel 1277, e fondatore di un altro istituto ospedaliero a Lappeto in territorio di Monteriggioni. Era uno del ramo, si direbbe oggi, e la sua fondazione di Quercegrossa veniva a coprire una parte di territorio rimasta sino allora trascurata.
A questa fondazione ospedaliera, che nasce certamente su un terreno donato dalle monache di Montecellese o dal Comune di Siena, si affiancò, come era consuetudine, la costruzione della piccola chiesa oratorio, e i due fabbricati erano separati da pochi metri di terra sulla quale sorgeva un benefico ed vitale pozzo di vena come risulta dalle descrizioni posteriori e ancor oggi esistente.
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Ricostruzione della struttura originale dell’Hospitale di Quercegrossa.
L’edificio ospitaliero è ricordato nel 1318 come “claustro cum spedale”, e i resti di tre arcate a tutto sesto, delle quali due tamponate, sono ancora oggi visibili nel chiostro della canonica e date per originali come riporta una ricerca di laurea.
Le modifiche dei secoli successivi nascosero quasi del tutto la struttura originale dell'hospitale di Quercegrossa che nell’insieme andava oltre le due stanze tipiche di altri simili istituzioni e si doveva collocare fra i più dotati e funzionali, avente il corpo ospedaliero edificato su due piani. Un elemento ricorrente in molte strutture del tempo era rappresentato dal porticato d’ingresso a due o tre archi (forse il “claustro” rammentato formante un piccolo cortile) che immetteva nelle sale inferiori adibite all'assistenza e ai servizi, e a una scala per il piano superiore degli alloggi, come doveva essere in origine quello di Quercegrossa che nel Cinquecento conserva ancora i due piani.
La parte esposta a nord dell’antico cortile dello Spedale con gli archi ricostruiti, probabilmente com’erano, in un intervento successivo di restauro eseguito da don Bianciardi ai primi dell’Ottocento che eliminò la scala esterna e costruì l’attuale interna.
Tra gli interventi di restauro e rimaneggiamento necessari per i danni causati dagli uomini e dal tempo è conosciuto quello attuato dall’enfiteuta Credi, il quale rese abitabile la casa, e il successivo intervento per dare la possibilità di risiedervi al rettore della nuova parrocchia di Quercegrossa nella seconda metà del Seicento, ma i lavori che stravolsero completamente l’antica fabbrica furono quelli ottocenteschi iniziati da don Bianciardi che uni i due corpi, e quelli eseguiti da don Rigatti alla fine del secolo che rivestì di cotto il cadente edificio della canonica.
L'edificazione del primitivo oratorio dei SS. Giacomo e Niccolò deve esser stato senz’altro contemporaneo alla fondazione ospedaliera, nonostante da alcuni studiosi sia stato anticipato di qualche decennio analizzando i resti originali rimasti nella parete nord, ma le date su esposte sono significative e contestano da sole questa teoria, e probabilmente certe notizie sulla chiesa di S. Maria hanno tratto in inganno non risultando nessun legame tra la detta chiesa e l’hospitale, ed è quindi da escludere assolutamente l’edificazione, molto tempo prima, di una chiesa isolata in quel luogo dove sorgerà l’oratorio dell'ospedale.
Gli "hospitali", chiunque sia stato il loro fondatore, o laico o religioso, dipendevano dall'autorità ecclesiastica e più precisamente vescovile; facevano eccezione i lazzaretti per i lebbrosi che ricadevano sotto l'autorità comunale.
L'"Hospitale", esercitando la pietà e la vera carità verso tutti, era un mezzo di edificazione morale per i fondatori e per tutti coloro che vi prestavano soccorso, e oltre alla cura fisica era tenuta in conto la cura morale del sofferente. Per ciò, numerosi furono coloro, compreso il nostro Giacomino, che dedicarono la loro vita e i loro averi ai poveri e agli emarginati e queste istituzioni, in virtù della loro utilità, furono beneficiate largamente dall'autorità pubblica e da lasciti di privati.
L'Hospitale di Quercegrossa mantiene nel secolo seguente alla fondazione un certo prestigio e importanza prima di iniziare un lento declino, ed è in quel florido periodo che si registrano sussidi e offerte. Intanto, il Comune di Siena, nel 1297, gli assegna un sussidio annuo di cento soldi di denari senesi: “Anco, C soldi di denari, ogne anno, a lo luogo et spedale da Querciagrossa, el quale si chiama lo spedale di Iacomino Falconi mantellato, per sustentatione de' povari d'esso spedale, conciosiachè non abia dal comune alcuna elimosina”. Nel 1327, donna Margherita, figlia del fu Iacomo Incontri e vedova del fu Ranieri del Benacco, lascia alcuni soldi per l’hospitale, e successivamente nel 1337 l'ospedale riceve cinque lire come elemosina. Pochi i documenti rimasti, ma testimoni significativi della vitalità dell’istituzione.
Nell’anno 1360 il Comune di Siena decise di sospendere le elargizioni in denaro a tutti gli spedaletti del contado e le sostituì con un’offerta di sale: lo Spedale di Giacomino ricevette due quarti di staio di sale da cui, per analogia con altre similari istituzioni, si deduce che vi attendevano due persone ed è significativo che vent'anni dopo l'assegnazione da parte del Consiglio della Campana fu di un solo quarto di staio di sale. A queste sovvenzioni pubbliche e lasciti privati di denaro si aggiungevano donazioni di terreni che non mancarono neppure a Quercegrossa, ma che col tempo vennero fatti propri da privati e, come ci dimostra la ricerca fatta da don Panducci alla fine del Cinquecento, gli fu impossibile recuperare detti beni.
Ricordato più volte, come visto, nei documenti per le varie elargizioni, lo Spedale di Quercegrossa è definito variamente "Spedale di Iacomino Falconi mantellato", nel 1309, e poi "Spedale di frate Jacopo", nel 1338, ma solitamente è chiamato "Hospitale di Querciagrossa". E’ intitolato ai santi Giacomo e Niccolò e questo titolo sarà ereditato dalla parrocchia di Quercegrossa che tutt'oggi è ancora sotto la loro protezione.
Di fondazione religiosa e sotto l'amministrazione ecclesiastica, beneficiato da finanziamenti pubblici e privati, aveva esercitato con grande efficacia il suo compito istituzionale per il quale era sorto, in un secolo caratterizzato da grandi eventi e da grandi necessità, ma nel corso del Quattrocento, per le mutate condizioni sociali e politiche, venne meno la sua primaria funzione. Abbandonato a sé stesso, come molti altri, cadde in mano a patroni privati (Benvoglienti) e a rettori che dispersero o sfruttarono i suoi beni per le proprie tasche. In pratica venne ridotto a una dimessa attività assistenziale, praticata dai pigionali che ne abitavano i locali, a qualche raro pellegrino o al povero di passaggio. Per editto granducale gli opedaletti del circondario senese vennero soppressi il 19 novembre 1750 e le loro rendite, se ne avevano, assegnate allo Spedale Grande di Siena, ma ciò non interessò quello di Quercegrossa che aveva cessato di esistere ed era divenuto sede di parrocchia da un secolo esatto.
Rettori e patroni
La famiglia che ne detenne il patronato fu quella dei Benvoglienti come risulta dalla visita apostolica del 1575, ma già affittuaria dai primi del Quattrocento del Castello e del Palazzo di Quercegrossa e terre annesse. I Benvoglienti acquisirono probabilmente in quel tempo il patronato dell'hospitale e la proprietà dei suoi beni. Di questo lungo periodo non abbiamo più notizie e soltanto nel Cinquecento le cronache cominciano a parlare e riportano i nomi di alcuni rettori.
Tra i detentori del beneficio semplice conosciamo il canonico senese Mariano di Bernardino nominato il 18 giugno 1510, rettore anche di Bibbiano e di Collanza nel 1518. Alla di lui morte nel 1528 è nominato il 1 settembre dello stesso anno Lorenzo Bruscati che rinuncia dopo due mesi per accettare la parrocchia di Fogliano e nello stesso giorno, domenica 29 novembre 1528 il beneficio viene conferito a Marco Polidori canonico di Chiusi già parroco di Fogliano che dovrebbe essere quel Marco di Polidoro originario di Civitavecchia e parroco di Corsano che rinunciò a questo incarico il 18 marzo 1499, quando gli fu assegnata la parrocchia di Fogliano.
Titolo a margine nella pagina del bollario per la nomina di Lorenzo Bruscati a rettore dello spedale di Quercegrossa nel 1528.
Dopo il Polidori c’è un vuoto corrispondente alla guerra di Siena e probabilmente dopo di lui non è stato più nominato nessuno. Si spiega così l'abbandono cronico della chiesa come ci testimonia l’inquilina, forse la moglie di Partino Partini, quel giorno di sabato 13 agosto del 1575, quando si senti chiamare, e affacciatasi alla finestra vide un chierico a altri preti e famigli arrivati in carrozza e muli che attendevano alla porta della chiesa. Era il visitatore don Curzio Amodeo incaricato dal cardinale Bossi, a sua volta Visitatore apostolico inviato a Siena dal Papa per controllare se erano stati applicati i canoni del Concilio di Trento e per riportare ordine nella diocesi e negli enti religiosi. Il cardinale aveva nominato dei collaboratori che per lui si recavano nelle parrocchie di campagna, e appunto, don Curzio Amodeo, un gesuita, fu convisitatore con tutte le prerogative proprie del Visitatore e fu deputato alla visita dell'ospitale di Quercegrossa.
Aperta la Chiesa vide in essa un altare completamente privo di ornamenti, vide che la struttura era appropriata. C'era una campana piccola posta su una cella campanaria retta da pilastrini sul tetto.
Interrogata la donna che aveva le chiavi, gli chiese di chi fosse la chiesa e se vi si celebrasse: "Questo è lo spedale di querciagrossa il quale è tenuto da questi Benvoglienti senesi et io non so se abbia altri beni se non questa poca di vigna qui vicino che poco frutta e qui si è talvolta detta messa che vela facciamo dir noi vicini per devozione ma da molto tempo inquà non s'è detta, e li frutti pigliano questi Benvoglienti che non sono preti o religiosi, et io sto col mio marito in questa casa dello spedale dove è un po' di saccone con una coltre per alloggiar i poveri come talvolta ven'alloggia qualcuno". Lui insiste e interroga nuovamente la donna che polemicamente dice: "che i fruti di questa vigna li spendano in più e meglio per racconciare questo spedale".
Finisce la visita e il reverendo predetto dispose di informarsi su questi Benvoglienti e comandò di dotare l'altare dei paramenti necessari agli uffizi sacri. Sono passati soltanto venti anni dalla guerra di Siena e lo stato di povertà di molte chiese è la conseguenza delle razzie e distruzioni delle truppe imperiali che non trovarono immorale depredarle, profanarle e distruggerle.
Cristoforo Semprebene (1576-1590)
Il primo frutto della visita fu di nominare un nuovo rettore che ridasse lustro alla chiesa
e il 22 agosto 1576 diveniva rettore dello spedaletto di Quercegrossa messer Cristoforo di Silvestro Semprebene.
Cristoforo Semprebene, nativo di Fabriano, era un sacerdote che godeva di più benefici essendo al momento della nomina parroco di Murlo e di S. Andrea ad Ampugnano; inoltre nel 1565 aveva rinunciato alla parrocchia di Iesa. Egli doveva farsi vedere ben poco a Quercegrossa se non il giorno di S. Giacomo, quando aveva l'obbligo di celebrarvi. Il beneficio era semplice, ossia senza parrocchia e, non contemplando decime, le entrate derivavano soltanto da una rendita annua che i patroni gli rilasciavano e dai proventi della liturgia, mentre le eventuali rendite da beni e terre venivano incamerati dai patroni.
Dopo nove anni, Ascanio Piccolomini, vicario dell’arcivescovo Francesco Bandini Piccolomini, compì una successiva visita alle chiese di campagna e nell'estate del 1584 si presentò a Quercegrossa accompagnato da ser Antonio Manenti, curato di Basciano. La chiesa ospitale di Quercegrossa era sempre sotto il patrocinio dei figli di Ferdinando Benvoglienti ed il rettore Cristoforo Semprebene riceveva da loro una rendita di quattro scudi l'anno. La chiesa possedeva la casa con una piccola vigna.
Don Antonio Manenti disse che era sotto la propria cura (ricordo che l'ospitale rientrava nel territorio della parrocchia di Basciano, ma non gli apparteneva) e ogni tanto amministrava i sacramenti al popolo; per questo il Visitatore gli impose anche di insegnare il catechismo.
L'interno della chiesa presentava il muro che divideva l'altare dalla sacrestia, irregolare e sbrecciato, e disse di parificarlo, come notò la mancanza del gradino davanti all'altare. C'erano delle statue di terracotta rotte che dovevano essere distrutte. Mandò anche a bruciare una sacra immagine non più adatta al culto e vide che le finestre erano tutte aperte e l'ospedale versava in condizioni miserabili. Comunque da quella visita non sentiremo più parlare dei Benvoglienti, i quali, evidentemente rinunciarono al patronato. Oltre a questa famiglia viene meno anche don Cristoforo Semprebene morto nel 1590.
Esaurito ormai da tempo il suo ufficio caritatevole, la chiesa dell'ospitale si trovava in una condizione singolare, priva com'era di un territorio su cui esercitare una giurisdizione spirituale e allo stesso tempo non godeva di nessun speciale privilegio, né poteva vantare un particolare culto devozionale più o meno miracoloso che richiamasse l'attenzione dei fedeli, e defraudata inoltre dei beni che possedeva. Molte chiese di quel tempo e in quello stato vennero progressivamente trascurate, private del culto, profanate e trasformate in poderi e abitazioni ed oggi appena si rammentano. La chiesa dell'ospitale poteva fare quella fine, ma tutto questo non accadde e per vari motivi: la posizione della chiesa lungo la via principale, il rettorato di don Adriano Panducci che bene o male ne curò gli interessi e la crisi irreversibile della parrocchia di Petroio.
Adriano Panducci (1591-1640)
Il beneficio della chiesa senza cura, passò allora al prete senese Adriano Panducci, il quale nei cinquanta anni che lo detenne si prodigò per aumentarne le rendite, far luce sulle stesse e sui possessi, dare decoro al tempio e sistemare l'ambiente dell'ospitale pur con qualche trascuratezza emersa nel 1627. Già nella visita del 1597 l'arcivescovo Tarugi gli raccomanda amichevolmente a voce, senza nessun verbale scritto, di riparare il tetto e tutto ciò che è fuori uso, compresa l'imbiancatura e riattamento dell'altare e del soffitto della chiesa: l'altare doveva essere accorciato e sistemato. Per il tetto ordinò di ripararlo quanto prima affinché non ci piovesse, perché la chiesa era assai insigne e degna d'onore e affinché detto ospedale non dovesse soffrire danni ed essere ridotto in povertà. Se l'insieme appariva ancora in pessime condizioni, nonostante i precedenti richiami del tutto disattesi, ancor peggio si presentava quel posto letto destinato ad alloggiare i pellegrini, retaggio dell'antica funzione assistenziale, e composto da un letto assai antiquato e mal fornito, da sostituirsi quanto prima. Annota inoltre che vi si celebravano cinque messe per la festa del patrono e non vi sono altre celebrazioni.
Se don Panducci cercò di mettere in rilievo il suo interessamento per i beni dell'Ospedale, forse ne dimostrò meno verso la chiesa apparsa nella visita del 1627 molto trascurata: “Il vescovo visitò la chiesa ospedale di S. Jacopo il cui rettore è Adriano Panducci; l'altare è indecente (inadatto) e andava riparata l'immagine che era assai corrosa dal tempo; il gradino superiore dell'altare era nudo senza ornamenti e presentava alcune rotture; sull'altare la tovaglia era inadatta; sull'altare era presente una notevole quantità di scialbo caduto dalla parete; il paliotto era indecente. Anche le finestra erano senza copertura. La stessa porta non chiudeva bene (vi si poteva entrare) e intimò al rettore che nel termine di un mese doveva riattare la chiesa e fornirla di tutto ciò che era opportuno. Vi si celebrava per la festa di S. Giacomo Apostolo e ordinò che vi si facesse il servizio per i defunti. Tutte le Messe devono essere annotate sulla vacchetta”. Alla data del 1640 la situazione sembra migliorata in quanto il Visitatore non fa accenno a carenze della struttura e viene citata una rendita di 30 scudi: "Lo stesso giorno visita la chiesa rurale di S. Niccolai e Jacobi, beneficio semplice. Il rettore Adriano Panducci, asserisce avere un reddito di trenta scudi che arrivano dal contiguo antico spedale per i poveri pellegrini. Era consuetudine celebrarvi una volta al mese e solennizzare la festa dei Santi Titolari. Il visitatore constata che da due anni a questa parte gli obblighi non erano stati soddisfatti per cui impose al cappellano di provvedere alle celebrazioni arretrate sotto pena di 100 scudi da applicarsi ai luoghi pii. Ordina che si provvedesse di una pianeta di colore nero e violaceo; la coppa del calice deve essere aggiustata e deve inoltre essere provvisto il velo per pulire il calice di colore rosso nero e violaceo e impose al detto Adriano di impiegare i frutti (delle rendite) per mettere in atto i lavori”.
Di don Adriano sappiamo che appena ordinato sacerdote iniziò a svolgere incarichi per la cancelleria della Curia divenendone uno dei cancellieri con vari incarichi e missioni come quella svolta a San Fedele nel 1594 per probabili contenziosi nati dal passaggio di quella cura alla nuova diocesi di Colle istituita due anni prima.
Il 18 luglio 1590 gli fu assegnato il beneficio semplice, senza cura, dello Spedale di Quercegrossa per la morte di Cristoforo Semprebene, e secondo le formule di rito fece il giuramento di fedeltà e obbedienza all’Arcivescovo e si impegnò a non alienare alcuna cosa spettante allo Spedale e mantenere integra tutta la proprietà. Il 12 maggio 1594 ottenne anche la rendita del beneficio della cappella di S. Sebastiano nella cattedrale di Siena, e soprattutto nel 1601 divenne parroco della parrocchia di S. Antonio in Fontebranda, incarico che gli consentì di incrementare notevolmente le sue rendite, le quali, unite al patrimonio personale di famiglia, gli permisero una vita agiata e senza preoccupazioni: fin nel 1597 infatti, risultava che "vive di proprie rendite".
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Registrazione del decesso di don Adriano Panducci sul libro dei morti della parrocchia di S. Antonio in Fontebranda: “Il M.to M.re et Reverendo Adriano Panducci morse li 27 settembre 1640 a hore tre d’anni 80 in circa avendo riceuti i santissimi Sacramenti nella Cura di Santo Stefano in camullia”. Fu sepolto nella sua parrocchiale di Sant’Antonio”.
Deve esser stato un prete solerte e risoluto se nei pochi documenti che ne parlano appare un personaggio che non si tira indietro davanti a nessuno per come affrontò la causa con la famiglia Salvani per regolarizzare il censo delle terre da loro godute, e infine per il fatto minore, ma significativo, dell’aperta denuncia fatta da lui contro i frati carmelitani di Siena in occasione di una discussa celebrazione della settimana santa fatta nella chiesa del Carmine. In una chiesa oscurata e al lume di poche torce, una tenda è alzata fra il popolo e l’altar maggiore, si che si vedono solo ombre muoversi di là da quella “si vedevano trapassare figure di legno o di carta” come spettacolo della sacra rappresentazione. Ma “Nella medesima chiesa così allo scuro era grande moltitudine di donne e di huomini mescolatamente con molto pericolo di commettere de i peccati, o con le mani, o con la lingua, e Dio voglia che non se ne commettessero, la qual cosa per quanto intesi in detto ragionamento (si trovava insieme ad altri sacerdoti) era passata et molto romore, e scandolo delle persone da bene che vi erano andate solo per vedere quei Santi Misteri, li quali erano restati molto scandilizzati di tanta oscurità dell'luogo e di tanta mala commodità, et occasione di peccare per la mescolanza di tanti huomini e donne indifferentemente”. Alcuni testimoniano al processo che certe persone si tenevano abbracciate e si toccavano.
Questo suo deciso e concreto atteggiamento di fronte alle necessità portò dei benefici alla chiesa di Quercegrossa, alla quale, grazie alla sua costanza, assicurò delle rendite fisse. Alcuni decenni dopo la sua nomina, vista l’impossibilità di continuare a mantenere integro lo stabile della canonica, propose la concessione in enfiteusi della casa e dell’annessa vigna ad Asdrubale Credi padrone di Petroio con la clausola che il contratto avesse valore fino alla quarta generazione maschile o femminile del Credi a partire dai suoi figli. La sua proposta del 2 aprile 1622, esaminata ed avallata dal protonotario apostolico Fabio Sergardi e dall’arciprete della Curia senese Pietro Martini, venne approvata dalla Sede apostolica e naturalmente dall’Arcivescovo di Siena il 6 maggio 1624, dopo aver sentito le ragioni e varie testimonianze degli uomini di Quercegrossa e Petroio. Un interessante carteggio, con testimonianze, dichiarazioni e atto rogato dal notaio Orazio Crespini il 22 aprile 1621, mette in evidenza lo stato di totale abbandono del bene con grave minaccia di rovina e, mentre si riafferma con vigore che la vigna con alberi (di circa 2 staia) e la casa appartiene allo Spedale di Quercegrossa, si suggerisce la detta enfiteusi: “pone come la detta Chiesa, e così la Casa, e sue muraglie sono in malo stato, et pericolo di rovina, et già in qualche parte hanno cominciato à rovinare per il che fa bisogno di presta reparazione, e restaurazione ... pone come la detta Chiesa ed la sua casa, sono di comune stima, e valore di scudi dugento in circa; e pertanto prezzo si potrebbe comprare, e vendere. E rende di frutto per la parte del Padrone, à ragione di piastre sei l'anno ... pone come stanti il poco frutto, e rendita di detta chiusa e casa, ed il suo malo stato per il pericolo della ruina come sopra il dare la medesima chiusa e casa in enfiteusi ...“. Chiamò come testimoni, e tutti confermarono la proprietà della chiesa e l’urgenza dei lavori da farsi, il Molto Rev.do Fortunio Barbucci (cappellano a Petroio), Armenio e Francesco Barbucci (fratelli di Fortunio), Fabio Fondi (notaio senese), Bastiano di Pietro Granai (della Ripa), Giovanni Granai (di Larginano), Giovanni Battista (oste di Quercegrossa), Santi e suo figlio Giovanni (mezzaioli dei Tegliacci a Monistero), Maso Bruschi e Ottaviano suo figlio, Gosto del Castello.
Bastiano Granai racconta che le muraglie da qualche parte sono già franate e di aver appuntellato una trave e ha visto che la scala è franata e il pozzo guasto e tutti i muri indeboliti.
Giovanni Granai dichiara di esser stato nel passato mezzaiolo del campo della chiesa e ha sempre saputo che quella terra apparteneva allo spedale.
Il sig. Credi, che fra l’altro si fa carico di tutte le spese occorrenti per ottenere dalla S. Sede l’autorizzazione al contratto, si impegna per sè e per i propri discendenti a pagare la somma anno di dieci scudi e inoltre "siano obbligati à spese loro ogn'anno far celebrare la festa in detta chiesa il giorno di Santo Iacomo, facendosi dire quelle messe, che loro piacerà in numero non meno di tre ... che debbino ancora il Sig.re Asdrubale e suoi discendenti come sopra far celebrare nell'istessa chiesa ogni mese una messa, et in quel giorno che piacerà, e sarà gusto loro come applicare il sacrifitio e per l'anime de fondatori, et benefattori della Chiesa e spedale ... che detti conduttori siano obbligati per il tempo della locazione mantenere la detta chiesa di tutte quelle cose che saranno qui necessarie per il culto Divino, et ancora l'istessa chiesa in piedi, et in buono stato di tutti, muraglie, et ogni altra spesa, che vi occorresse per la sua conservazione senza poter mai repetere detto Ms. Asdrubale, ò suoi successori, cosa alcuna”.
I Credi presero dunque possesso della casa e vigna dello Spedale e li devono aver tenuti per un paio di decenni non risultando più affittuari trent’anni dopo al tempo dell’erezione della parrocchia di Quercegrossa.
E' per un inventario da lui fatto nel 1635 che siamo a conoscenza dell’operato del Panducci e del suo impegno per la chiesa e di quanto tentato per recuperarne i beni: "Inventario delli beni stabili at d'altre rendite di denari della Chiesa di S. Iacomo apostolo e S. Niccolo Vescovo, benefizio semplice, chiamato lo spedale di Quercia Grossa Diocesi di Siena, fatto da me Adriano Panduci Prete senese.
Rettore della medesima dall'anno 1591 in qua per grazia di Dio.
“La casa contigua alla chiesa, con la vigna e chiusa nel medesimo luogo dentro alli suoi muri e confini". Poi, nelle righe successive, parla della quarta parte d'un podere posto in val di Strove donato all'ospedale di Quercegrossa, con atto rogato dal notaio Losi il 30 marzo 1527, da Lorenzo Salvani al tempo del rettore Mariano di Bernardino.
“Del detto podere chiamato Senzano appare pure un processo per la compra e i frutti tra il rettore Semprebene e gli eredi del Salvani del 1563 conservato nella curia arcivescovile insieme all'altro avuto da me con quella casa”. “Oggi”, continua il Panducci, ”i Salvani ogni anno pagano lire cinquantadue in denari senesi ma non sempre e non la cifra detta. Li pagano a titolo di perpetua e non di affitto come lui vorrebbe e li riceve per la chiesa di Quercegrossa e per i miei successori”.
Per questo e altri beni passati in seconda, terza e anche quarta generazione ci vorranno altre scritture per recuperarli. Dice anche di aver dato in enfiteusi ai Credi la casa e la chiusa della chiesa con un canone annuo di dieci piastre e "detta chiesa e spedale chiamato anticamente lo Spedale di Quercia Grossa sotto il titolo di S. Nicolò, poi che non puol'essercitare l'ospitalità per la tenuità della sua rendita; la quale per tradizione dalli antichi di quel paese si diceva cosa certa che fusse (la rendita) in un podere posto accanto o vicino al Castello di Quercia Grossa che era dove al presente si chiama solamente Quercia Grossa". Già dal primo anno del suo mandato si mosse per recuperare i beni della chiesa e ottenne un monitorio che fece pubblicare anche a Basciano e Lornano "ma per qualche timore umano alcuni vecchi all'ora di casa Barbucci e d'altre casate antiche di quei paesi non volsero rivelare e io per non farli incorrere nella scomunica non passai più oltre che alle monizioni". “Al presente”, aggiunge, “sono morti gli antichi possessori e anche le persone che ne erano informate dei beni di detto ospedale e ora sono passati in mano di persone inconsapevoli di tali antichi diritti e non trova quindi provanze e certezze. Finisce che alcuno "se havesser notizia di tenere e possedere i beni di detto ospedale ... attende a tenere senza rimorso o scrupolo".
Comunque, grazie al suo daffare, dal 31 marzo 1635 riceve le prime trentanove lire da Francesco Salvani e tredici dai Bichi per la perpetua dell'enfiteusi dei beni di Strove del quale riporto il testo di una ricevuta:
Adi 30 marzo 1637
Mi Adriano Panducci curato di S. Antonio in Fontebranda, e rettore della Chiesa di S.ti Iacomo e Niccolò chiamato lo spedale di Quercia grossa ha ricevuto dal sig. Francesco Salvani, e per esso dal sig. Giovan Battista Nini lire trenta nove; sono per la perpetua quale detto spedale; e chiesa ha sopra il podere di Senzano comprato dalla signora Girolama Salvani e decorsa per tutto il 15 marzo 1636 e per fede si sottoscriverà di propria mano Lire 39
Io Adriano Panducci detto affermo et ho ricevuto.
Censo che continueranno a riscuotere i suoi successori certamente fino al 1684, data dell'ultima ricevuta rimastaci, firmata da don Giuseppe Berteschi, ma probabilmente incassato anche nei primi decenni del Settecento.
Il 27 settembre 1640, di 80 anni in circa, don Panducci passò all'altra vita e per i tredici anni successivi, fino alla nomina del primo parroco, furono dati incarichi a più preti in attesa di erigere la nuova parrocchia di Quercegrossa e l’ultimo “economo” dello Spedale di Quercegrossa fu Giovanni Cerchi parroco a Basciano.
Siamo così arrivati all'ultimo atto dell'antico Spedale di Quercegrossa meta di bisognosi e sofferenti per trecentocinquanta anni circa. Ora, esaurito il suo compito, si appresta a diventare centro parrocchiale.
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