Quercegrossa (Ricordi e memorie)
CAPITOLO IV - GIROVAGHI, CERCATORI E AMBULANTI
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Introduzione
Vai a Transumanza
Vai a Zingari
Vai a Giocolanti
Vai a Vagabondi
Vai a Cercatori
Vai a Lavoranti
Vai a Treccoloni
Vai a Le uova di Spartaco
Vai a Nella: l'ultima trincagliera
Introduzione
Riconosco che è inopportuno accomunare queste categorie di..."lavoratori" nello stesso capitolo, ma nella loro diversità avevano qualcosa in comune: il girovagare, lo spostarsi incessantemente da un paese all'altro, da un podere all'altro; alcuni senza una meta, altri secondo un itinerario consueto e prestabilito, con mezzi molto diversi secondo possibilità. Non passava giorno nei paesi e poderi di campagna che si manifestasse la loro presenza, costituendo, allora, un discreto gruppo del tessuto sociale. I primi, i treccoloni o trecconi accostati ai merciai, affaccendati a vendere o comprare, si muovevano nella loro area di competenza usando un mezzo proprio che poteva essere una bicicletta, un cavallo con barroccio, un cavallo con calesse, e poi nel dopoguerra una moto, una macchina adattata, fino a quando apparvero i primi furgoni. Si potevano definire piccoli commercianti e trattavano di tutto.
I secondi, cioè i vagabondi, comprendevano, con qualche eccezione, quella parte di umanità emarginata e sofferente fatta di incapaci, mezzi mentecatti, invalidi vari, storpi e ciechi che, vestiti alla meglio e alcuni molto sporchi, si muovevano a piedi mendicando un tozzo di pane e dormendo dove capitava: capanne, stalle, fienili, pagliai e forni, tutto andava bene per proteggersi dal freddo e dalla pioggia. Alcuni erano senza fissa dimora e si spostavano secondo itinerari ciclici, non casuali, ma programmati in modo da avere sempre il vantaggio di essere conosciuti dalle popolazioni visitate. Molti di essi, invece, avevano una famiglia presso la quale si rifugiavano di tanto in tanto; erano stagionali e avevano il loro ben definito tragitto. Per alcuni l'accattonaggio rappresentava una vera e propria professione che consentiva loro di sfamarsi. Nell'Ottocento si registrarono cifre impressionanti di mendicanti, generati da un peggioramento della situazione economica generale. Il fenomeno, che assunse preoccupanti dimensioni, fu oggetto di iniziative legislative da parte del Granduca e successivamente del Regno d'Italia. Furono tentativi volti soprattutto alla tutela dei giovani e delle ragazze indigenti che potenzialmente rischiavano di entrar a far parte di questa categoria o in quella più pericolosa dei furfanti, ma nel complesso le leggi fallirono e le strade continuarono ad essere percorse da questi sfortunati cristiani.
Non era un bel girare il loro. Soli nel loro vagabondare, erano in balia della stagione e dei tanti e diversi pericoli rappresentati da cani mordaci, dal passaggio di un torrente e da violenze gratuite di cattivi e poco ospitali soggetti. Nei freddi mesi invernali trovavano ricovero e assistenza presso le numerose istituzioni caritatevoli che agivano prevalentemente nelle città. Una statistica ricavata dai registri dei morti dell'Ospedale riferita alla prima metà dell'Ottocento illustra meglio di ogni commento le condizioni fisiche in cui si trovavano questi emarginati. Del deceduto veniva annotata la professione e nel 1818 su 343 morti registrati ben 76 casi portano la dicitura "mendicante". L'anno successivo sono 79 i morti di questa categoria e così via fino alla metà del secolo, ma diminuendo progressivamente il numero delle registrazioni. Certamente non diminuirono i morti che si disperdono nei vari istituti, fra i quali l’Ospizio per i vecchi. Cessa soprattutto l'annotazione di "mendicante" che impedisce una sicura statistica.
Nei cercatori si inquadrano tutti quei religiosi che "frati o monache da cerca" in tempi ben precisi dell'anno visitavano case e poderi per la cerca del grano, dell'olio o di altri prodotti dei campi per i loro monasteri. Per la loro antica consuetudine alla cerca, erano conosciuti da tutti e accolti come si doveva, con rispetto dell'abito e tanta carità e difficilmente uscivano da una famiglia a mani vuote nonostante non regnasse l'abbondanza. C'erano poi i lavoranti, coloro che offrivano i propri, più disparati servigi. Venivano pagati (poco) e quasi sempre operavano per un modesto compenso come un pane o un pezzo di formaggio. Abitualmente si trattenevano alcuni giorni presso le famiglie che li ospitavano, dove mangiavano e dormivano (nella capanna o nella stalla) e vegliavano con gli interessati contadini attenti al racconto delle loro avventure e conoscenze. Si distinguevano in seggiolai, arrotini, spazzacamini, calzolai, braccianti per tutti i servizi e riparatori di attrezzi diversi anche se questi ultimi si potevano accostare più ai vagabondi che ai lavoranti. Questi riparatori accomodavano pentole, ombrelli, utensili, ecc. Tutte queste categorie viaggiavano con i loro strumenti a tracolla e caratteristico era il carico dei seggiolai. Spazzacamini e seggiolai viaggiavano sempre in coppia.
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La Transumanza delle greggi
Un fenomeno a sé stante in questo via vai di personaggi strani e diversi si poteva considerare il passaggio dei pastori della "transumanza", che dal Casentino si portavano ai pascoli estivi della Maremma e viceversa ai monti dell'Appennino, per sfuggire ai miasmi delle paludi grossetane o ai nevosi e gelidi inverni delle montagne. Questa secolare usanza vedeva transitare centinaia di pecore che occupavano la strada in tutta la sua larghezza, guardate da tre o quattro cani abbaianti e da pastori di tutte le età e tutti col cappello, il bastone e l'ombrello d'incerato verde legato con uno spago e portato a tracolla come un fucile. In un giorno percorrevano tappe di circa 30 km. L'aria si riempiva di belati e di puzzo di "cacarelli" che le mansuete pecore spargevano generosamente sulla strada sterrata. Il loro cammino era accompagnato da nugoli di noiose mosche che invadevano il paese. Li precedeva un barroccio coperto trainato da un mulo o un vecchio ronzino che portava il necessario per il bivacco, pali e una rete di canapa per il recinto notturno. Attaccato sul retro, un nero e dondolante calderotto nero che serviva per fare il formaggio. Il loro passaggio attirava l'attenzione di tutti che, incuriositi, sospendevano le loro faccende e uscivano di casa per osservare l'inconsueta scena e non negavano un ristoro ai pastori. Diversi erano i gruppi di greggi che alla loro stagione transitavano da Quercegrossa; ricordo gli ultimi negli anni 1957/58. Un luogo di sosta era presso un podere a Castellina in Chianti e lì si concentravano tutti i pastori. Per comprendere la vastità del fenomeno basta dire che una notte si ritrovarono radunati 60 pastori intorno ai fuochi dei bivacchi. Fu in uno di questi passaggi che Berto del Mori fu protagonista indiretto e vittima di un fatto curioso. Gran cacciatore, aveva una canina alla quale voleva un gran bene e sulla quale aveva i suoi progetti; lo si poteva vedere in quei giorni portarla in braccio per proteggerla, perché era in calore. Quel giorno, verso le dodici, dato che gli era abitudine ascoltare le notizie dalla radio della bottega del Brogi, stando in piazza e tendendo l'orecchio alla grande finestra da dove si sentivano distintamente le voci della radio, Berto si avvicinò alla finestra con la canina in collo. In quel mentre inizia a passare un gregge di pecore transumanti. Lui non gli presta attenzione, anzi il chiasso gli impedisce di udire le notizie. Distrattamente mette la canina in terra ai suoi piedi e porge ancor più l'orecchio alla finestra. Ascolta, ascolta, si concentra sulla voce metallica della radio; passano alcuni minuti, forse troppi. D'improvviso è scosso dalla fune che tira. Istintivamente con lo sguardo cerca la canina, e che ti vede? Un canaccio dei pastori si stava approfittando della canina, senza alcun ritegno, a pochi metri da lui. Due berci nervosi fecero saltare alcune pecore impaurite, ma non il canaccio. Non gli dà un calcio come d'istinto vorrebbe, ma fila diritto, quasi di corsa, alla capanna del Losi a trenta metri da lì, sfila rabbiosamente la cavicchia del carro deciso a punire, e torna sul luogo del malfatto. Fa appena in tempo per vedere l'ultima pecora sparire lentamente dietro la cantonata del Castagnini e del canaccio, che aveva consumato e capito il verso, nemmeno l'ombra. C'erano rimasti soltanto la canina che saltellava e scodinzolava soddisfatta e alcuni testimoni divertiti.
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Zingari
Non di rado e non ben accolti si fermavano gli zingari. Questa particolare categoria di girovaghi era vista con sospetto e in quei giorni le chiavi venivano tolte dalle porte di casa. Si accampavano col carrozzone e una coppia di cavalli solitamente nel campo a sinistra della chiesa. Si spacciavano per lavoranti del rame e alcuni recipienti di questo materiale pendevano dal carrozzone, ma la diffidenza della popolazione era troppo grande per avere dei contatti con loro. Alcuni sostavano nei campi della Casanuova e da lì facevano il giro dei poderi vicini in cerca di alimenti.
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Giocolanti
Simili agli zingari per come giungevano in paese con i loro carri ricoperti da tendoni, li distinguevi subito per le scritte sugli stessi e dal loro abbigliamento che voleva essere da artisti da circo; da tutti venivano chiamati i giocolanti. Erano questi un'altra categoria di strani personaggi dietro ai quali spesso si nascondevano piccoli truffatori e commedianti da strapazzo. Davano il loro, di solito modestissimo, spettacolo al Dopolavoro effettuando soprattutto battute di comicità spicciola, qualche salto mortale e poco più non avendo a disposizione una grande attrezzatura. Per farvi un'idea di come conducessero la loro vita di artisti dirò che quella volta a Quercegrossa, quando posteggiarono il loro carrozzone in piazza, riempirono di pidocchi tanta gente e dormirono nel castro dei maiali del Losi, quello che dava sulla piazza. Questa sì che era arte. L'ultimo della loro specie, un giocolante di un paese vicino arrivato sulla scena di Quercia sul finire degli anni cinquanta, organizzò uno spettacolino alla Società, con buona presenza di pubblico e una volontaria partecipazione del sottoscritto. Dopo le prime barzellette per rompere il ghiaccio e l'immancabile lotteria, fu la volta di un giovanetto sdinoccolato che riusciva, come un serpente, a passare incredibilmente fra spazi ristrettissimi delle gambe di più sedie collegate tra loro. Seppi molto tempo dopo che era un ragazzo di Vagliagli. Alla richiesta del Capo circo che chiedeva due ragazzi per partecipare a un gioco in cambio di, mi sembra, venticinque lire, io e il mio cugino Giorgio si alzò la mano e si fu protagonisti di una scenetta che deve essere piaciuta, per qualche risata che si alzò dal pubblico. Si trattava di una gara e vinceva chi per primo riusciva a indossare una giacca. Niente di speciale se non che la giacca era stata rovesciata con le maniche cucite e altre false maniche e tasche. Ci impegnammo alla meglio per vincere e senza riuscirci. Ma quanta mediocrità in quello spettacolo, a ripensarci! Ma si rideva per niente.
Prima del '40 i vari Circhi passavano con una certa frequenza e si piazzavano nello spazio accanto alla scuola o nell'aia del Losi. Così faceva Piripicchio, uno dei più famosi che era dotato di organini che suonava per chiamare la gente. Aveva due discretocce figliole che facevano il trapezio vestite in costume da bagno e tutti i giovani correvano a puntarle. Piripicchio riparava anche orologi ed era bravo a riparare le galene. Aveva il tiro a segno, quello con lampadine e gessetti, gestito da queste due ragazze imbellettate. Arrivava il mercoledì e dava uno spettacolo il giovedì, poi il sabato e la domenica. Appena vedevano arrivare la carovana a Quercegrossa, tutti contenti spandevano la voce: "Ci so' i giocolanti". I ragazzi fremevano ma ci pensavano le mamme a smorzare l’entusiasmo: "Guarda se ci vai stasera non ci vai sabato. Capito!". Erano gli anni intorno al 1940. Altre volte il circo rizzava il suo piccolo tendone in piazza a Quercia e montavano all'interno una tribunetta con tavole e ferri. Lo spettacolo filava via tra un'esibizione al trapezio, una suonata con vari strumenti, un barboncino poco esperto e poco più. Ma c'era lui a ravvivare lo spettacolo: Fiacca il clown. Tra i tanti versi che faceva riusciva a respirare in modo strano producendo il vero nitrito del cavallo, strappando applausi tra i ragazzi presenti.
Ai tempi della fiera a Quercia si presentava un certo Piave. Non che pretendesse di metter su uno spettacolo, ma approfittava della sua arte per scroccare qualcosa che nella circostanza era un bicchiere di vino. Specializzato nel fare il verso di qualsiasi animale, a richiesta ti accontentava. Volevi il verso del cane? Un bicchiere di vino. Volevi il ruggito del leone? Un altro bicchiere di vino. E cosi via.
Tra coloro che offrivano qualche genere di spettacolo non potevano mancare i burattinai. Il mio ricordo è vago, ma in piazza a Quercia li ho visti anch'io tra il 1954-1958. Il più rinomato tra i questi fu Tonna. Era il burattinaio di prima della guerra. Preparava il suo sipario in piazza, davanti alla finestra del Brogi, e per lo spettacolo la piazza era piena come a teatro, con sedie e panche. Nascosto dietro il baldacchino faceva Arlecchino, Pulcinella e altre marionette famose. Era bravo e a ogni scena abbinava dei canti o meglio stornelli, come il seguente: "Non posso cantar più perché un ho voce; la persi ieri sera alla fornace; e torna e come se torna, ritorna lalleralla". I suoi ritornelli venivano ricordati e cantati da tutti. Fece divertire grandi e piccini.
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Vagabondi
Questa variegata umanità di accattoni e cercapane passò da Quercegrossa come un venticello di primavera, lasciando quello che avevano trovato e non influendo minimamente sulle abitudini paesane. In genere venivano ignorati perché la loro presenza non costituiva un pericolo per nessuno essendo per lo più facce conosciute. Gente innocua, ma che prudentemente veniva tenuta fuori della porta. Pochi negavano loro un bicchiere di vino o un tozzo di pane al momento del loro passaggio. Al massimo potevano trascorrere una notte in paese dormendo nel forno, poi sparivano silenziosi così come erano apparsi. Ma non sempre il loro arrivo in paese passava inosservato, alcuni venivano accompagnati dagli schiamazzi di un codazzo dei ragazzi che, anche se impauriti, si divertivano alle loro spalle. Tra questi vi fu "Sciabbione". Campava di elemosine e non lavorava. Entrava in bottega, mangiava e beveva, dormiva in forno e quando se ne andava aveva sempre qualche ragazzo dietro a indispettirlo. Lui bestemmiava e tirava i sassi. Era l'unico a cui davano noia. Aveva sempre la barba piena di sciabbia per questo lo chiamavano “Sciabbione”.
Era, il forno, un albergo di lusso per questi viandanti, specialmente se nella giornata vi era stato cotto il pane. Con le stalle era l’unico posto che col suo tepore proteggeva in maniera soddisfacente dal freddo e dall'umidità della notte. Nessuno aveva niente da ridire su questa chi sa quanto antica usanza. Colui che vi "alloggiava" si distendeva di solito su un po' di paglia e lasciava più o meno aperta la bocca del forno a seconda della stagione; nei forni piccoli poi, dovevi per forza tenerla aperta e con i piedi di fuori perché non c'era spazio sufficiente per sdraiarsi. Certo poteva rappresentare anche un rischio quella di chiudersi come un topo in trappola e poco ci mancò che Tascapane venisse arrostito. Tascapane, al secolo Annibale Razzolini, agiva da Radda a Buonconvento; beveva e si ubriacava con i ragazzi dietro a far cagnara. Era un fascista e manifestava apertamente le sue idee; fu lui a chiamare il Cappelletti "specchietti" con tono di ammonimento. Era così detto per via del tascapane a tracolla dal quale non si separava mai. Un fisico alto, asciutto e un comportamento normale non evidenziavano nessuna invalidità, né di corpo né di testa. Si può dire che avesse scelto questa "professione" senza condizionamenti: soltanto gli piaceva girare ed essere indipendente o semplicemente non gli garbava il lavoro. Capitava spesso a Quercegrossa, diciamo a cadenza mensile, ed era uno dei più fedeli. Ottenuta la carità si sedeva alle panchine del Mori o davanti alla bottega del Brogi, sbocconcellava il pane e sorseggiava dal bicchiere il vino, posato a fianco, con calma, in attesa della notte quando decideva di trascorrerla da noi. Poi si muoveva in paese e dintorni alla ricerca di ulteriori bicchieri. Una delle sue mete preferite era Petroio, dove anche lì si "infornava" per la notte, ma non disdegnava, di solito, il forno di Quercegrossa. Quella volta la zia Sette ci manca poco che ce lo brucia vivo, mentre dormiva. Lei di buon mattino si era avviata per riscaldare il forno. Stava per accendere la fastella quando vide un'ombra nel lato oscuro del forno. Era Tascapane che rannicchiato dormiva profondamente, magari sotto l'effetto di qualche bicchiere di troppo. Forse sognava anche, ma vide un bel mondo. Capitò a Quercia un girovago di cui non si ricorda il nome e passò alla storia soltanto per il suo "gran rifiuto". Chiedeva in paese pane e un bicchier di vino. Gli diedero dell'acquarello, ma non lo volle. Voleva il vino, il signorino. C'era uno chiamato Magnifico, perché diceva sempre "Magnificat anima mea". Girava per i poderi, albergava alla meglio tre, quattro giorni e poi se n'andava. Una strana ma complementare coppia si potrebbero definire i Ciechini. Così venivano chiamati: uno secco e alto completamente cieco che camminava con una mano sopra la spalla dell'altro, molto più basso e parzialmente vedente. Venivano da Panzano, sembravano il Gatto e la Volpe di Pinocchio. Arrivavano da noi dopo aver visitato tutti i poderi sul loro tragitto. “A Viareggio gli si dava un po’ di pane e da mangiare e ci dormivano”, ricorda Marcello. Circolava anche una "coppia di donne", cosa insolita prima di tutto perché viaggiavano in coppia e poi perché i vagabondi erano tutti uomini. Una di loro aveva un occhio rovinato, strabico, ricucito con una forcella, certamente per impressionare e commuovere. Chiedevano l'elemosina e viaggiavano con due borse che poi non erano altro che due fazzoletti grandi a quadretti celesti legati agli angoli. Fra gli ultimi e famosissimo fu "Baffo". Lo ricordo come uomo moro di capelli, alto e forte. Fratello del barbiere di Via Montanini di Siena, più che vagabondare il suo era un uscire in campagna per periodi più o meno lunghi, come la sua testa gli comandava. Era specializzato nel fare il verso agli animali, dove eccelleva con quello del gallo e del ciuco. Sia a richiesta che spontaneamente emetteva il suo "Chicchirichiii" che lo udivi da lontano e che ci avvisava del suo arrivo, e da piccini: "C'è Baffo!” ... e via di corsa a nascondersi. Particolarmente elaborato era il verso del ciuco che gli richiedeva l'uso delle due mani e la disarticolazione della mascella. Un altro detto il "Pule" aveva la vocazione dell'artista e disegnava sui muri ed è ricordato a Petroio. In questa categoria si inquadra un personaggio noto a tutti nel nostro popolo, in quanto ne faceva parte a pieno titolo e si chiamava Giuseppe Losi detto "Geppino", fratello di Damino. Se uno avesse la pretesa di capire i motivi che spingevano uomini di buona famiglia a trascorre la loro vita nel vagabondaggio e nell’insicurezza dimostrerebbe ancora una volta la sua presunzione. I parametri di valutazione di come affrontare il mistero della vita sono completamente diversi da uomo a uomo e spesso inconcepibili. Complesse problematiche esistenziali determinate da particolari esperienze o da sconosciute patologie mentali portano l'elemento uomo a muoversi in maniera contraria a quelle che sono le convenzioni stabilite. Così fu per Geppino e nessuno in famiglia riuscì mai a capirlo. Fin da giovane, inspiegabilmente, iniziò a fare il girovago, staccandosi sempre più dalla famiglia. Alternava questo suo agire a saltuari lavori nei poderi; era anche stato garzone e uomo di fatica a Maciallina dai Lorenzetti. Emigrò anche, si fa per dire, a Poggibonsi dove trasferisce la residenza nel 1929, cercando forse un’occupazione fissa. Ma la chiamata era troppo forte e prese la sua polverosa strada. Portava il bastone in spalla col fagotto di tela quadrata blu e in certi momenti ne aveva fino a tre di fagotti.
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Anche se sfuocata la foto ci ricorda esattamente la sagoma familiare di Geppino col suo fardello di fagotti.
A casa, quando si fermava dal suo girovagare, era guardingo con Damino, poiché fin da piccino era vissuto in contrasto con gli uomini di famiglia, che lo brontolavano per la sua vita da cane randagio e da quel momento incominciò ad allontanarsi sempre di più. "Un giorno con la falce minacciò Maria, ma non era cattivo, anzi a noi ragazzi nel canto del fuoco ci raccontava storie e novelle, ma quando gli prendevano cinque minuti!". L'avere della gente intorno, specialmente gli uomini, lo innervosiva, per questo scelse la pace dei campi, il silenzio dei boschi o del camminare senza meta con l’animo sgombro da ogni timore. Per questo a casa non ci stava mai; non ci voleva lavorare, perché lavorare significava rapportarsi in qualche modo col mondo. Un esempio tra i tanti: in tempo di guerra apparve a Viareggio, fece due o tre giornate di lavoro nei campi e poi svanì all'improvviso come era venuto. E così fece altre volte. Quando ogni tanto tornava a Quercia dai Losi, raramente apriva il fazzoletto dove teneva i soldi accattati e se ciò avveniva chiamava Duilia per contarglieli. Altre volte la chiamava fuori e gli dava appuntamento alle fonti pur di non aver niente a che fare con gli altri. Per anni portò i suoi risparmi dentro il fazzoletto annodato, ma capitava che lo derubassero proprio in quelle stesse famiglie che gli davano un piatto di minestra e dove lui chiedeva di contare i soldi come se fosse in casa sua. Non fu difficile capirlo in casa Losi. Quando passava, un saluto non lo negava a nessuno e verso i bambini si dimostrava particolarmente affabile, a modo suo: "Picchirullino" li chiamava e li vezzeggiava con la sua vocina fina, quasi fioca: amava i bambini, tanto quanto non sopportava gli adulti. Intorno al 1975, la mi' mamma si dirigeva verso la piazza e si trovava all'altezza della bottega di Spartaco con alla mano Luigi che però era dalla parte della strada. Incontra Geppino che saluta come sempre: "Oh Geppino come va, come state?". Di ritorno se lo ritrova alla porta di casa. Geppino fa le solite moine a Gigi e parla con lei. Le racconta di una disgraziata, una donna senza cervello che teneva il bambino dalla parte della strada, col rischio di farlo arrotare. Alla mi' mamma non gli restò altro da fare che annuire. In altre occasioni sembrava mostrare un minimo di interesse per qualcosa o qualcuno, e lo commentava apertamente come in quella circostanza con la mi’ mamma: "Ora i Mori hanno costruito quella casa, voglio vedè chi gliela paga". Intercalava nel suo parlare espressioni come "io cane", "io boia". Dormendo nei fienili e nei pagliai si corrono dei pericoli e anche Geppino, una notte, fu morso da una cane lupo e ricoverato all'ospedale di Siena. L'aveva azzannato a una gamba e al gluteo e rimase ricoverato per un paio di settimane. In quei giorni capitai all'ospedale nell'ora del passo ed ebbi occasione di vederlo. Era circondato da diverse persone, attratte e richiamate dalle sue sconclusionate opinioni politiche che manifestava apertamente a voce alta. C'e l'aveva (come al solito) con i comunisti, che trattava con parole pesanti. Il gruppetto dei curiosi che lo circondava sembrava perplesso non riuscendo a inquadrare bene il personaggio e il suo dire. Io, per quella volta feci a meno di salutarlo. Morì a Siena alla fine degli anni Settanta e fu sepolto a Radda. Con lui ha fine la millenaria storia dei veri vagabondi, quelli che portavano il bastone in spalla col fagotto di tela quadrata blu.
Non termino senza aver prima ricordato un fatto di sangue avvenuto nel podere della Casanuova di Quercegrossa e del quale fu vittima uno di questi "viandanti" nel lontano 1756. Descritto minuziosamente dal parroco di allora, ci conferma, come se ce ne fosse stato ancora bisogno, di quanto fosse rischioso girare da soli:
"A di 18 gennaro 1756 - Fu trovato morto accanto alla capanna della Casa nuova dell'Ill.mo Sig. Cav. Girolamo Vecchi un povero viandante dell'età sua di circa 26 anni e perché era sanguinoso ne fu dato parte alla Giustizia da cui fu visitato e portato via alcuni tecaglili che gli trovarono in saccoccia, con una medaglia legata al collo, e nel cappello si aveva la Madonna SSma delli Loreto in piombo e fu asserito che il suo nome era Giovanni del Monte comforme appariva in una carta che aveva tra gli altri tecaglili, però secondo l'ordine dell'Ill.mo e R. Monsig. Orazio Bandinelli Provicario Gen. gli furono fatte il giorno seguente tutte le cerimonie Ecclesiastiche e fu sotterrato nel Cimitero della Chiesa di S. Michele Arcangelo di Petroio annesso di questa Chiesa di S. Giacomo a Quercia grossa.
Io Silvestro Picconi Curato"
Un'aggressione o una bestia avevano posto fine all'avventura di questo religiosissimo viandante che probabilmente usava le immagini sacre per muovere a compassione la gente stimolando la loro carità di cristiani. Molte le disgrazie ricordate nei registri parrocchiali della diocesi che riguardano i viandanti. Le più si riferiscono ad annegati nei vari corsi, ma ci sono anche aggressioni e decessi naturali come in questa nota del parroco di Basciano per la morte di un povero nel podere di Gaggiola dove aveva trovato ospitalità: "Si fa memoria come il di 15 dicembre 1792 essendo stato alloggiato un povero nella casa del podere detto Gaggiuola delle RR.MM della Madonna da Giuseppe Cinuzzi lavoratore di detto podere, nella notte si prese al detto povero una convulsione si fiera, che restò morto, e doppo aver fatto il consueto rapporto al Tribunale Fiscale a me curato presente, che dasse sepoltura al cadavere, come fece facendolo seppellire nel cimitero di S. Stefano, e siccome non si sapeva chi fosse avendone poi usate diligense, venne un suo cognato e disse chiamassi il detto povero Lorenzo figlio del fu Francesco Brogi e della già Maddalena Fabbri, e abitante a S. Maria alla Campiglia".
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Cercatori
Indirizzata al Vescovo di Siena:
"Sono a supplicare Vs. a volersi degnare di raccomandare a suoi popoli, in tempo che le parrà più proprio, la carità, che sogliono fare anche gl'altranni del carbone, brace e legna per noi poveri Cappuccini di Siena, assicurandoli che non mancheremo di pregare loro da Dio la ricompenza, il simile faremo ancora per Vs alla quale facendo umilissima riverenza mi dico - Di Vs Ml.to Rev.da - Da Cappuccini di Siena 3 dicembre 1734"
Con la stagione dei raccolti del grano, dell'olio, del vino oppure, come abbiamo visto, di legna e carbone, puntualmente si facevano vivi i cosiddetti "frati da cerca". Tutti i conventi avevano dei confratelli con questo specifico incarico che di solito era riservato a chi aveva una particolare capacità nel rifornire la loro dispensa. Frati che dovevano possedere umane doti di comunicabilità e affabilità per assolvere al vitale quanto faticoso compito della questua che ognuno di loro esercitava la cerca nel territorio assegnatogli. Il fratino dell'Osservanza, il cui nome era Francesco, arrivava a tribbiatura e bussava a tutte le porte per la "cerca del grano". Aveva stabilito un magnifico rapporto di amicizia con le famiglie di Quercegrossa; era popolarissimo e per questo non gli era difficile riempire più sacca di grano. Una manciata dal povero pigionale o un mezzo sacco dal possidente, nessuno rifiutava. Questo pesante o leggero fardello lo portava sulla spalla sinistra, con poca fatica, ormai allenato al peso. Doveva, come tutti gli altri frati o monache, avere una base in zona come deposito, in attesa che il convento provvedesse al ritiro col barroccio: poteva essere la parrocchia o una fidata famiglia. Consegnava a noi ragazzi piccole medagline mariane e qualche santino di San Francesco. In una occasione ci fece dono di un bel librettino sul suo pellegrinaggio in Terrasanta (Viaggio in Terrasanta di padre Francesco Niccolai con dedica famiglie Mori e Tacconi. Ed. Cantagalli 1954) che conservo tuttoggi. Era ospitato a pranzo da diverse famiglie, ma più spesso dai Mori dove giungeva a fine mattinata. Ma prima di accomodarsi a tavola doveva assolvere un suo rituale. “Aspettate un momento”, diceva alla massaia, e andava dal Tacconi, da Meri, a lavarsi i piedi impolverati. Portava come tutti i francescani, fosse estate o inverno, i sandali con i quali percorreva centinaia di chilometri essendo le gambe il suo mezzo di locomozione. Quel giorno entrò nel nostro giardino accolto dalla mi’ mamma e dalle zie. Fu portata una sedia, lì fuori al fresco, sotto al tettino dell'ingresso, al riparo dal sole di mezzogiorno. Con un lento movimento, il frate posò il sacco quasi pieno e si lasciò cadere sulla seggiola. Il viso rasserenato e soddisfatto dalla buona cerca faceva trasparire tutta la sua fatica e si presentava arrossato, con minuscole goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte. Aveva i capelli struffati e il cordone cinto alla vita, con la parte terminale con più nodi che attirava il nostro sguardo curioso. Con un bicchiere di acqua fresca ricevette il primo ristoro. Il tutto sempre con un bel sorriso sulle labbra. Questo è il mio ricordo del fratino dell'Osservanza che tutti consideravano un santo, ma c'è chi lo rammenta con notizie più ampie, in casa Tacconi: "Frate Francesco, frate da cerca come ce ne erano una volta, faceva la spola tra il convento dell'Osservanza di Siena e Firenze. Tutto a piedi naturalmente, piedi che aveva sempre rovinati dal gran camminare. Nel tragitto si fermava dove lo ospitavano per mangiare, dormire, riposarsi e per raccogliere quello che gli offrivano. La mattina si alzava prestissimo per andare alla chiesa più vicina, per la Messa, quando a Quercegrossa quando a San Leonino. Mia mamma lo ricorda da quando era piccola che si fermava a Villa Pomona - Ricceri, poi fino a quando non si è sposata e anche dopo a Quercegrossa. Era originario di Firenze sembra che facesse il commerciante di vino e che poi abbia deciso di farsi frate da cerca. Sembra anche che con le offerte ricevute sia riuscito a realizzare un "istituto" o "convento" (forse per signorine) a Marcialla di Firenze. Appena arrivava si sedeva vicino al focolare e mamma e la zia Albana gli frucavano nella sacca per trovare le medagline e immaginette che lui lasciava ai benefattori”. Era talmente in amicizia con la famiglia Tacconi che un giorno invitò l'intera famiglia a pranzo all'Osservanza. Partirono tutti insieme con il calesse e a Montarioso invece di scendere verso Fontebecci girarono per la strada a sinistra che li portò direttamente all'Osservanza e trascorsero la giornata con lui. Un altro interessante e divertente ricordo sui frati da cerca è quello legato al nome del Giuseppe Merlotti del Catruppolo che era stato in gioventù garzone dei frati dell'Osservanza ed era solito accompagnare padre Valeriano, il futuro "Pace e bene", col barroccio alla cerca dell'olio. Un giorno padre Valeriano, per un brusco scossone cascò in avanti tra le gambe del cavallo ma, non si sa come, riuscì abilmente ad aggrapparsi alle spranghe del barroccio e da quelle penzolava e saltava goffamente nel tentativo di sollevarsi da quella incomoda quanto pericolosa situazione. Il Merlotti invece di prestarle soccorso si mise a ridere, e rideva a crepapelle vedendolo saltare a quel modo. Finì bene, ma anche la cerca aveva i suoi rischi. A Petroio, al podere Paradiso, vi passavano delle monache di un convento di Siena. Prendevano olio e formaggio e restavano a pranzo con tutta la famiglia. E gli uomini scherzavano con loro. Un altro frate prendeva formaggio e anche la lana. L'altro, sempre a Petroio, faceva salire Dino del Carli sul calesse e insieme giravano i poderi della parrocchia e a sera lo riportava a casa, e come erano contenti. Tutti questi religiosi quasi sempre rientravano ai rispettivi conventi ma quando la distanza lo impediva ricevevano ricovero nelle parrocchie. Col progresso finirono anche le cerche dei frati e tante altre cose.
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Lavoranti
Nell'economia anteguerra e negli anni immediatamente successivi molti dei bisogni che interessavano le famiglie, specialmente quelle contadine, per quanto riguardava la riparazione dei modesti accessori della loro vita quotidiana venivano risolti in modo autarchico. Un’essenziale attrezzatura era posseduta da alcune famiglie che le rendeva autosufficienti, ad esempio nella lavorazione del legno e manutenzione degli arnesi. In questo contesto era però molto diffuso ricorrere a fabbri e falegnami del posto, o di rinomati paesi specializzati per opere difficili o di consistenza, e questi riuscivano a soddisfare in pieno alle necessita della popolazione sia per quanto riguardava l’arredamento casalingo che per la riparazione e costruzione di attrezzi agricoli. Ciò nonostante, il ricorso a quella massa di lavoranti che attraversavano incessantemente il paese era spesso non di solo intento caritatevole ma anche utile per certi specifici lavoretti e riparazioni che questi lavoranti, pur dotati di limitati strumenti, sapevano fare e che per tradizione venivano a loro lasciati nelle visite a domicilio. A questo proposito si possono ricordare i cosiddetti “magnani”, per i minuti lavori di saldatura e riparazione di utensili per casa come ferri vari, chiavi, serrature, gangheri, posateria, tegami, ecc., Poi c'erano gli arrotini, i calzolai, i seggiolai, i falegnami, gli spazzacamini, i materassai e tanti altri che senz'arte si limitavano ad aggeggiare qualche arnese pur di ottenere vitto e alloggio per la notte. Alcune categorie sono rimaste nella memoria collettiva e conosciute attraverso avventure descritte in famose opere letterarie o ricordate da canti epici altrettanto diffusi, come gli spazzacamini, compatiti da tutti anche perché tra di loro vi era sempre un bambino che ispirava pietà e compassione per le condizioni in cui si presentava: stracciato, sporco e nero con i capelli impastati dalla fuliggine. Il suo lavoro era richiesto per essere adatto a entrare e scivolare lungo la cappe dei camini, anche le più strette, precluse a un uomo adulto. Così lo vidi in quel lontano 1957; avrà avuto la mia stessa età, circa dieci anni e accompagnava il babbo in questo schifoso lavoro che gli garantiva però la sopravvivenza. Portava un cappello a larga falda, nero come la pece, e a tracolla una fune dello stesso colore. Il babbo aveva sulle spalle altri strumenti del mestiere come una pertica, spazzoloni di scopa e granatini. Una fastella legata alla lunga fune servì come attrezzo per raschiare la cappa del camino. L'uomo salito sul tetto la sollevò e ricalò più volte nel camino provocando una nuvola di polvere nera che invase la casa, lasciata da tutti noi che aspettavamo in giardino la fine delle operazioni. Il piccolo spazzacamino quella volta si limitò a berciare dal basso del canto del foco qualche frase che doveva essere un'indicazione per il babbo, parole udite ma incomprese per l'oscuro dialetto da loro parlato. In sostanza fu un lavoro veloce e di poco effetto. Ricevute le poche lire dalla zi' Anna, furono fatti accomodare alla lunga tavola di marmo e da soli e in silenzio mangiarono. Solo qualche curiosa occhiata degli occhi lustri e neri del bambino, che brillavano come due stelle notturne, si alzò dai piatti di quei due affamati, mentre noi cugini si osservava ammirati e incantati da questo essere che girava il mondo e lavorava come un grande. Occorsero alcuni anni prima che ne comprendessi in pieno la tragedia. Viareggio era una tappa obbligatoria per il Magnano. Conosciuto e ormai quasi di famiglia, i Landi trovavano sempre qualche lavoretto da dargli e lui ricambiava con consigli utili per realizzare utensili e altri ammennicoli. "Era considerato "magnano" perché grande nella sua arte e non come colui che mangia a sbafo". Quella mattina la nonna di Marcello uscì all'aperto di buon ora con l'orinale di smalto bianco in mano e si avviò alla buca per il solito svuotamento, che si ripeteva solitamente al momento di rifare i letti e riassettare le camere. Versava il contenuto nella buca, attenta a non battere il cantero sul piano di marmo per non rovinarlo ulteriormente giacché presentava delle ammaccature lungo i bordi e nel piano d'appoggio, frutto dell'uso e di qualche caduta, e anche la ruggine stava causando dei guai. Mentre rientrava in casa vide sbucare il Magnano, che da lontano e come suo solito si fece sentire: "Giulia, c'è niente per me?". La nonna pensò subito al vaso da smaltare prima che si sfondasse completamente e lo mostrò all'uomo. Il Magnano senza farselo ripetere, lì nella loggia, davanti alla porta di casa, si accomodò sul suo portatile e pieghevole sgabello a X e si apprestò, con ottimo umore, alla riparazione. Dalla sua gran cassetta di legno a tre scomparti, che poi era la sua bottega mobile, tirò fuori alcuni arnesi e comandò a Giulia di scaldare il fornello per il saldatore a stagno. Poi prese il vaso e, pensoso, lo girò e rigirò fra le mani, vi passò le quattro dita all'esterno e all'interno sulle ammaccature per saggiarne la superficie e per capire il tipo di intervento che richiedeva. Intanto la nonna era rientrata in casa e alle altre donne disse: "Ho dato il vaso da notte al Magnano per saldarlo, mah, non l'avevo nemmeno lavato!". Ma il Magnano preso dalla sua arte non ci aveva fatto caso. Così andava il mondo. I nomi della maggior parte dei lavoranti sono caduti nel dimenticatoio, ma alcuni vivono ancora, Vestro su tutti. Tipo strano, Vestro era ciabattino, barbiere e tosatore. Usava la stessa macchinetta sia per i cristiani che per le pecore. Cicalino, anche lui andava a piedi, specializzato nell’accomodare ombrelli. Poi il Pelosi che faceva un po' il calzolaio. C’era il Materassaio con la moglie, il cui nome ci ricorda la sua professione. Dato che richiedeva un minimo di capacità fare una sedia o ripararla, ci si serviva al bisogno dei seggiolai, che altro non erano che artigiani del Nord Italia che alla loro stagione passavano da Quercegrossa riuscendo sempre a guadagnarsi qualche soldo. Viaggiavano a coppia e portavano la loro caratteristica attrezzatura a spalla insieme al materiale per fare sedili di schiancia e pezzi di ricambio alle seggiole. Li vidi all'opera, e rimasi preso dalla loro bravura nel sostituire pezzi rotti come spalliere a vecchie sedie e rifare il sedile alle stesse. L'arrotino passava e si sgolava per annunciare la sua presenza. Era in bicicletta, una strana bicicletta dotata di un cavalletto e una mola, alla quale il pedalare trasmetteva il movimento rotatorio per affilare lame di ogni misura. Seduto sul sellino, era un quadretto comico vederlo pedalare e restare fermo sul posto mentre fischiettava. La mola, lubrificata dall'acqua rugginosa del contenitore sottostante, faceva sprizzare scintille dalle usate coltelle, maneggiate con abilità dalle sue esperte mani. Nell’insieme questa categoria di personaggi pur nella loro miseria ebbe il merito di guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro come chiunque abbia un'occupazione. Mestieri diversi, praticati con l'unico vantaggio di lavorare a domicilio, con strumenti spesso arrangiati e insoliti che davano risultati pari alla loro qualità, ma ai quali in genere sopperiva l'estro e l'abilità, diciamo professionale, di questi artigiani girovaghi con la mente aguzzata anche dalla necessità. Il grande Magnano "a me (Marcello) insegnò a fare un imbuto che lui stesso realizzò per la mia nonna con un bossolo d'acciughe o di sgombri, quelli grandi che provenivano dalla bottega del Brogi. A scuola quando lo realizzai alla lezione di meccanica suscitai stupore e meraviglia nel professore che si lamentò a quarant'anni di non saper fare un imbuto".
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Treccoloni e ambulanti
L'attività secolare del treccolone che svolgeva nelle campagne il suo limitato commercio aveva una sua utilità sociale in quanto consentiva la compravendita o lo scambio a domicilio di animali da cortile, di uova e pulcini, di coniglioli e pelli di vari animali come faine, volpi, scoiattoli. Il loro commercio era basato per lo più sul baratto e sull'esborso di modeste cifre per l'acquisto degli animali che poi venivano piazzati nei mercati paesani o in città. Si sentiva spesso la voce della massaia che chiedeva: "Quanto le pagate l'ova oggi?". Oppure "Mi manca una conigliola". "Ci penso io”, rispondeva il treccolone". I loro calessi erano pieni di gabbie con numerose varietà di piccole bestie. Per molte ragazze questa compravendita si rivelava fondamentale per le loro necessità di donne: "Si teneva una conigliola per noi e si vendevano i conigliolini al treccolone e con i soldi presi, quando passava il Salvietti, si compravano un paio di lenzuola, federe, ecc.”. Passava negli anni cinquanta da Quercegrossa un anziano treccolone dai capelli bianchi di nome Egisto Fusai, ma conosciuto da tutti come Billamassaie. Spingeva la sua bicicletta, adattata per il bisogno, provvista di due alte cassette poste sulle ruote, che emanavano un puzzo di lezzo che non ti potevi avvicinare. Il suoi affari erano limitati alle pelli di conigliolo e qualche uovo. Quando veniva spellato il conigliolo, la pelle fresca era lanciata verso un muro esterno e vi rimaneva appiccicata per qualche giorno. Dato che la qualità faceva prezzo, alcune venivano impagliate e mantenevano una forma rotonda che preservava la pelle: queste costavano un po' di più di quelle schiacciate. Il prezzo ai miei tempi variava dalle 5 alle 20 lire a pezzo. Tra i più famosi di questa categoria figurava il Consumi di Staggia. Oltre ai soliti prodotti, acquistava anche la coccola che pagava 70 lire al chilo. Dopo guerra, in attesa di una sistemazione, iniziò a trafficare anche un personaggio conosciutissimo del nostro popolo: Giovanni Barucci detto "il Barucci". Con cavallo e calesse trattava le solite mercanzie dei treccoloni, ma allargò il giro cominciando a vendere prodotti alimentari sotto la forma barattoli di acciughe, di tonno, ecc. Negli anni prima e dopo la Seconda guerra passava il Viti di Fonterutoli con cavallo e barroccio lungo, pieno di prodotti alimentari: "Portava anche burro e acciughe per la merenda". Aveva il negozio a Fonterutoli ma vendeva anche nelle campagne prima della guerra; praticava il baratto.
Tra i minori della categoria si ricordano Peo, un treccolone con la bicicletta, un certo Bista e Geppolino con cavallo e barroccio che comprava solamente. Ai treccoloni venivano dati anche vinchi e giunchi. I vinchi si coglievano e si mondavano: servivano per fare ceste e panieri. I giunchi “di color verde, e giallo da secchi, ce li comprava Geppolino a 20 lire il mazzetto, nel dopoguerra”. Per cercare i vinchi si andava per il borro della Staggia su fino a Cavasonno. Oltre ai treccoloni, ma ben distinti da loro, passavano i venditori ambulanti che sotto il generico titolo di "merciai" commerciavano e vendevano qualsiasi articolo. Si andava dalle stoffe, alle confezioni, ai cosmetici e saponette, lame da barba, stringhe, pelletterie e tante altre minuterie. Questa categoria di venditori, nei frequenti giri, spesso settimanali, e la concorrenza non mancava, aveva il merito di rifornire le famiglie di una società non molto dinamica. Anche tra i merciai si ebbero figure indimenticabili che per decenni si affacciarono a Quercegrossa e dintorni pronti a proporre la loro merce. Un certo "Sera", prima degli anni Trenta, veniva al Mulino col calesse e ci chiamava: "Ovvia donne volete niente, ciò da andar via". "Noo, non si vole niente" e traccheggiava. Dopo poco "Allora volete niente ...", "Noo, non si vole niente". Per diverse volte mentre parlavano del più e del meno ripeteva l'invito ad acquistare; quasi sempre senza esito. Alla fine si fermava a dormire, “Non in casa nostra o del mugnaio, ma in forno”. C'era il "merciaino di Colle", che poi erano due fratelli, Alfredo e Nello. Avevano dei parenti a Valiano dove si fermavano la notte quando facevano il giro del Chianti. Cessarono la vendita ambulante quando ottennero un posto ai mercati tra i quali quello di Siena. Un altro merciaio che passava spesso era Dante di Staggia. Negli anni cinquanta apparve un bizzarro personaggio fiorentino chiamato "Buio". Egli era un autentico anarchico, portava il cappello nero e nastrino nero simboli anarchici. Dotato di furgone chiuso, vendeva stoffe. Era un omone di maniere brusche e dalla voce roca del quale noi ragazzi avevamo una certa paura e ci tenevamo a distanza di sicurezza. Entrava in bottega a bere, e un po' avvinazzato gli capitava spesso di perdere soldi di carta dalle tasche che regolarmente la mi' sorella Lorenza trovava. Altro conosciuto era il Rossi di Fonterutoli. Aveva un Citroen militare francese e comprava e vendeva un po' di tutto. Per chiudere questo elenco si ricordano due venditori di Castellina: il Bega, uno della famiglia Stiaccini, e il Barasai Bruno. Un altro detto "il treccolone di Montalcino" un uomo grande, misterioso, che vendeva stoffe. “La mi' mamma”, racconta un'anziana signora, “mi ci comprò la stoffa per un vestitino a fioricini”. Anche i Montigiani di Siena (rinomato il loro negozio in Calzoleria), erano merciai di stoffe e passavano per le campagne. Mentre tutti i merciai con passare degli anni scomparvero o cambiarono mestiere ce ne fu uno, anzi c'è sempre, ed è il Salvietti di S. Donato. Proveniente da Milano, il babbo di Alvaro diede inizio alla sua attività di ambulante nel 1922 e dal 1939 cominciò a battere il territorio di Quercegrossa. Ereditata l'azienda alla morte del babbo, Alvaro continuò l'attività paterna di venditore di stoffe raggiungendo le nostre zone col cavallo. Nel 1947 si motorizzò adattando una Balilla col cassone, che presentava sì notevoli vantaggi, ma anche qualche inconveniente: in certe salite, come per salire a Quornia, doveva mettere le zeppe alle ruote. Sembra che il mondo non sia cambiato: ancor oggi si può osservare Alvaro che in piazza a Quercia offre le sue confezioni di abbigliamento alle spose del paese. Oltre ai merciai veri e propri passavano con barrocci e camioncini i cosiddetti straccivendoli, detti anche cenciaioli. I loro affari prevedevano solo l'acquisto di ferri vecchi, rame e altri metalli oppure stracci che pesavano con grandi stadere. Quando c'erano quantità rilevanti facevano a occhio. In questi affari si ravvisava in modo ancora embrionale il riciclaggio della roba vecchia e inservibile. Capitava un po' a tutti i ragazzi di raccogliere ferri per venderli e incassare poche decine di lire. Le giovani del paese ricorrevano anche ai cenci che vendevano per poche lire. Facevano dei grandi fagotti pieni di abiti laceri e lenzuola rotte che davano ai cenciaioli. Uno dei più rinomati straccivendoli fu un certo Ghini di Tressa, per questo soprannominato "Tressa". Raccoglieva metalli di ogni genere e era famoso per il suo camioncino rosso. Raccogliendo ferri, si rivolgeva a coloro che li maneggiavano e quel pomeriggio si diresse da Raffaello che da poco aveva iniziato il suo lavoro di meccanico indipendente a Quercegrossa. Lavorava nello spazioso ambiente detto "Officina", allo stanzone dei Mori. Si era costruito la sua bella e profonda buca proprio davanti alla grande porta che un tempo era adeguata a far entrare le macchine trebbiatrici. La buca, non disponendo di macchinari elevatori, era indispensabile ad un meccanico per lavorare sotto le macchine. Quando Tressa entrò nella stanza, tutto era nella penombra e Raffaello stava armeggiando da una parte con un motore. La buca, non protetta dalle tavole, era scoperta ma aveva due macchine ai lati che in un certo modo la proteggevano ma, come ragno che attende la preda, sembrava che anch’essa aspettasse la sua vittima. Tressa arrivò zitti zitto e come sua abitudine annusò l'ambiente in cerca di ferracci e si diresse verso la parete di fondo passando tra quelle due macchine che nascondevano parzialmente la buca. Raffaello previde subito quello che stava per succedere, ma non fece in tempo a dire "Attento!" che lo straccivendolo, messo un piede nel vuoto sparì nella buca senza un grido. Preso dallo sgomento, Raffaello si precipitò al bordo della buca e vide Tressa che allargate le braccia aveva smorzato la caduta, ma era malconcio, pur senza gravi danni. Allora tirò un bel sospiro di sollievo e gli venne spontaneo dirgli: "Ma come hai fatto?".
Come tutte le attività in una società organizzata anche il commercio ambulante venne preso di mira dalle competenti autorità nazionali e regolamentato con l'obbligo di iscrizione alla Camera di Commercio alla categoria "Commercianti temporanei e girovaghi" con il fine ultimo di tassare il loro mestiere. Dai documenti esaminati sembra che l'iniziativa non abbia raggiunto i risultati sperati. In una lettera del Commissario governativo della Camera di Commercio di Siena, inviata nel 1926 a un Sindaco della provincia, si lamenta che "pochissimi girovaghi hanno ottemperato alle disposizioni della nuova Legge ... sarò pertanto grato se avrà la cortesia di disporre che le guardie di codesto Comune si compiacciano di richiedere ai girovaghi la presentazione del Certificato, ricordando loro che ad esse spetta la metà della tassa che verrà da questa Camera riscossa da coloro che le guardie stesse troveranno sprovvisto del suindicato certificato". Altri erano i tempi, altri i suonatori, ma la musica era sempre la stessa.
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Le uova di Spartaco
Abbiamo visto che talvolta il mestiere era un’eredità paterna, svolta da generazioni, oppure una occupazione come tante altre, scelta per necessità, per guadagnarsi da vivere. Ma come avveniva tutto ciò? Come si iniziava un lavoro così diverso e se si vuole pieno di difficoltà e incerto nel guadagno? Per averne un’idea proviamo a seguire la scelta fatta da Spartaco Carletti, uno dei pochi venditori ambulanti di Quercegrossa, attivo dagli anni Cinquanta e trasformatosi poi in negoziante. Alla base della sua scelta c'è la grande crisi occupazionale degli anni successivi alla seconda guerra. Naturalmente ci voleva anche una certa predisposizione naturale che evidentemente Spartaco aveva. Ma seguiamolo nella sua storia che comincia dall'età scolare.
Spartaco Carletti in una foto degli anni Cinquanta quando aveva già iniziato la professione di venditore.
Di famiglia operaia con il babbo minatore e barbiere di Quercia, era nato nel 1928 e abitava nel Palazzaccio. Frequentate le elementari, Spartaco si iscrive alla quarta classe alle Badesse nel 1937 e giornalmente in compagnia di Ilio del Taddei compie il tragitto a piedi per i due anni fino al conseguimento della licenza elementare di quinta. La scelta successiva lo portò a iscriversi alla scuola media di Siena; era il solo di Quercia ed era anche una novità. Con la bici del babbo partiva presto e parcheggiava in Via del Paradiso nella vecchia stalla dei barrocciai, ormai in disuso, dove il proprietario, amico del suo babbo, lo ospitava volentieri. "Il primo anno non passai; il secondo mi mandarono a ottobre e io per dare soddisfazione al mio babbo gli dissi di trovarmi un lavoro che a settembre avrei recuperato. Giotto mi trovò il lavoro da Lolini e Muzzi che avevano la vetreria in Pian d'Ovile, poco sotto l'attuale ASL, sulla destra. Ragazzo d'ufficio, portavo una cosa a quello o a quell'altro. Si faceva poco e ci stavo volentieri, soprattutto nel giorno di paga. Andavo alla posta, alla banca: mi facevo un'esperienza di lavoro. Poi iniziarono i bombardamenti alla stazione, io avevo paura e smisi". Terminato questo apprendistato per cause di forza maggiore, Spartaco diciassettenne trova lavoro da Giotto nella costruzione del nuovo podere dei Poggioni. Spianarono il poggio e iniziarono ad innalzare la casa. Fu un lavoro occasionale di pochi anni. Infatti nel 1947 e per due anni entra alla miniera e da lì al servizio militare nel 1949 a Bari e Milano. Solo nove mesi e a fine anno è a casa. Nel Cinquanta si sposa la sorella Fosca. Per Spartaco invece iniziavano i dolori o i guai: il lavoro non c'era e non c'era verso di trovarlo. Costretto da necessità va alla Ripa di Sotto dove c'era Angiolino del Losi, anche lui del Palazzaccio, che faceva da fattore: "Bisognava guadagnare" e iniziò a fare le fosse per le viti. Un lavoro duro e lunghe le giornate: "Ero giovane, ma senza tanta forza: io facevo appena un metro, veniva il mi' babbo e mi dava una mano. Tempo dopo viene il mi' babbo: “Alla Magione cercano dei braccianti per fare le fosse per le viti". "Oh babbo, ma che c'è solo questo lavoro!!" , gli risposi con tono amichevole. Ma mi arresi e ripresi il piccone in mano. Dal borro, col ponte di legno si sale per un boschetto ai campi e lì avevano disegnato le fosse. S'incominciò, dapprima era terra tenera poi iniziò il sistio e allora addio. Ma rimasi, facevo anche le fastella per le fosse". Ma anche questa era un'occupazione occasionale, senza futuro. "Più tardi, nel 1952, il comune di Monteriggioni chiama i disoccupati e ci manda nel Pian del lago dove c'era la guglia (erano i fossi di scolo intasati che noi dovevamo ripulire) e ci indirizza dai proprietari del posto, quelli dei poderi. Dopo sette giorni di lavoro si chiedono i soldi della paga. Aspetta, aspetta, passano 15, 20 giorni e niente. Ci si mette d'accordo e si scende in sciopero, s'era una ventina. I padroni chiamano i carabinieri che ci allontanano dalla zona perché noi si stava sul lavoro senza lavorare (una specie di sciopero bianco); se ci portavano i quattrini si lavorava altrimenti si scioperava. Dopo dieci giorni di questa storia mi venne a noia". Era stanco e demoralizzato Spartaco ma non sapeva che presto avrebbe avuto l'occasione per risolvere per sempre i suoi problemi occupazionali. "Un giorno parlando col mi' cognato Alfiero mi disse: "Perchè non vai al comune di Monteriggioni e ti fai rilasciare la licenza di venditore ambulante, tanto per fare qualcosa". Avevo solo la mia vecchia bici del babbo. Il mi’ babbo disse: "Fa come vuoi". Andai al Comune e ottenni subito la licenza". Spartaco si attiva immediatamente e pensa a quale siano i prodotti più adatti da utilizzare per la vendita. "Comprai una cassetta di saponette col premio e davanti alla bici misi una cassetta per quelli che pagavano con l’ova. A fine settimana era già piena. Allora pensai: "Come fo a vendere l’ova per realizzare un guadagno? Provai ad andare dove fanno i dolci. Vo al forno del Palazzo dei diavoli e gli portai l'ova". E così Spartaco iniziò a guadagnare. L'uovo era allora una tra le più comuni merci di baratto nelle campagne. La maggior parte delle famiglie operaie e contadine non tenevano soldi e quei pochi che avevano li spendevano con parsimonia alla bottega e per maggiori necessità. Per Spartaco e le sue saponette c'erano l’ova. "Vendevo l'ova e mi pagavo i miei vizi, fumavo, giocavo a biliardo e a carte. Facevo la zona di Petroio, le Racole, Corsignano, e sboccavo al Colombaio. Un giorno attraversando il borro delle Racole e spingendo la bicicletta a mano come facevo nel bosco, persi il controllo e la bici mi cascò e ... addio ova. Col secondo anno avevo tanti clienti e tante ova, nessuno pagava in contanti. Troppe ova e non trovavo da venderle tutte. Mi dicono: "Perchè non vai all'Ospedale sotto il tunnel, lì le prendono. Un mercoledì ci arrivo; mi chiedono quante ne potevo fare alla settimana, due casse e anche tre, va bene mi dissero. A fine settimana mi presentavo con l'ova, mi facevano il buono e andavo a riscuotere. Avevo trovato la strada giusta e mi ingrandivo. Mi venne voglia di un'ape, la trovo usata e vecchia senza sportelli che comprai alla fine del 1955. Ora l'ova le mettevo in due cassette sopra l'ape, con la merce. Vendevo roba da massaie, filoforte, sapone, mesticheria. Mi rifornivo dai grossisti a Siena. Poi più tardi anche bigiotteria: cominciavo a vender bene. Una volta al mese pagavo i fornitori. Un mercoledì prendo la borsa, ci metto le fatture e il borsetto con i soldi, diversi soldi, e metto tutto dietro il sedile come sempre e parto. Giunto all'altezza del Colombaio la strada si presentava un po’ sconnessa. Arrivo a Siena, vo a fare delle spese, e solo allora mi accorsi di aver perso la borsa. Ci resto male, ritorno indietro e guardo. Chiedo ai contadini che andavano in bicicletta, niente: nessuno aveva visto niente. Il giorno dopo mi chiamano. L'avevano trovata lungo un filare, a terra. La borsa c'è, mi dissero, anche un borsetto, ma è vuoto. Allora mi incavolai: la perdita fu grossa, ma continuai. Quando ero partito avevo una vecchia bicicletta e 25 lire in tasca. Ora guadagnavo e il futuro prometteva bene. Ma avevo ampliato la zona di vendita e non c'entravo più nell'Ape. Non avevo magazzini e tutte le sere la scaricavo e portavo la merce in casa. Non potevo continuare così. Nel 1960 comprai la terra per costruirvi la casa e in due anni la realizzai. Si fece tutto da noi, le fondamenta, il primo solaio e per le rifinitura un muratore di Vagliagli. Direttore dei lavori il Castagnini. Una volta messo il tetto e costruito il garage pensai di farci la bottega. In quegli anni Dorio aveva costruito le case davanti a me e da lui presi in affitto una stanza per uso magazzino. Avevo preso anche contatti con la vedova di Brunetto, Annita, per costruire un garage nel campo di fianco alla sua abitazione, garage che realizzai intorno al 1962. Pronto il garage andai subito a Siena a comprare una macchina più adeguata al mio commercio. Vendetti l'Ape coperta e presi un 1100 “lungo” al quale si tolse la parte di dietro e ci si fece il cassone coperto per la roba. Erano anni di faticoso impegno. Tra il lavoro a casa e la vendita non c'era respiro. All'otto della mattina partivo per tornare la sera tardi. A casa finita chiamo il Callaioli a fare l'impiantito per la vetrina del negozio che così divenne una realtà e rappresentava una nuova fonte di reddito. Luigina (sposata nel 1962) faceva la magliettaia e al tempo stesso serviva i clienti del negozio. Gli affari andavano bene. Ma Il vecchio camioncino cominciava a guastarsi sempre più spesso, dandomi grosse noie. Vò dal Bandini, c'è il Radi: "Mi garberebbe un camioncino ... dico, un po' incerto". Lo vedo e lo compro. Finalmente un camioncino nato per quel lavoro e con le gomme alte. Dentro ci feci la bottega; a quell'epoca lo pagavo a rate. Andavo alla Cappannetta, alla Staggia, passavo borri dappertutto. Nel 1956 era nevicato, dopo la Staggia rimasi fermo, vennero con i bovi a trainarmi. Un'altra avventura la vissi a Vagliagli verso il 1969/70, e qui posso ringraziare Bruno Sestini che mi diede una mano. Al bivio di Dievole si aprì lo sportello laterale che urtando un muretto venne divelto completamente e cadde a terra insieme a scatole di alimenti. Nel sentire questo pesante tonfo mi fermai e non mi rimase altro da fare che constatare il danno. La merce stipata all'inverosimile era caduta in parte e il viaggio di ritorno si presentava impossibile. Per fortuna passò il Sestini, allora panaio, con il suo furgone, e si offri di caricare parte delle scatole di alimenti mentre sistemai alla meglio il resto. Mai viaggio fu più tormentato: ad ogni curva nella discesa per Quercegrossa cadevano a terra dall'interno del furgone barattoli di olio, tonno, fagioli che ruzzolavano nei fossati e lungo lo sterrato nonostante la mia attenzione. Allora mi fermavo e così faceva Bruno e insieme si raccattavano scatole e lattine e così fino al paese in un misto di disperazione e scherzosa allegria. Alcuni anni dopo acquisto un camioncino a cassone basso, ma lo tenni nemmeno un anno perché fregava nei fossi. Nel 1969 feci il 615 furgonato con la bottega dentro e con apertura laterale, e inizio a vender l'olio di semi a taniche. I contadini lo compravano volentieri, costava meno. Negli ultimi anni di venditore ambulante andavo a Pianella, a Castelnuovo e dalla parte di qua, fino al mare. Poi mi misi in bottega, dove vendevo di tutto. Fra i tanti articoli anche la roba da cacciatori. Facevo le cartucce e venivano addirittura alle cinque della mattina a svegliarmi per comprarle prima di partire per la caccia". Con la pensione si chiuse il sipario sul commerciante Spartaco. Ambulante per necessità, seppe trovare in questa professione la sua vocazione e in essa si realizzò completamente riuscendo, attraverso sacrifici e rinunce, a costruire il suo concreto futuro.
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Nella: l'ultima Trincagliera
Un altro evidente esempio di come si diventava venditori ambulanti ci viene dalla storia di Nella Bari, la moglie di Callisto Candiani del Poderino. Anche lei, spinta dalla necessità di avere un lavoro e un reddito in un momento critico per la sua famiglia, fu costretta a ripiegare su questa incerta e non sempre remunerativa occupazione, ma la sua naturale ed esuberante socievolezza gli permise di assuefarsi subito a questo gravoso impegno e i sacrifici fatti gli consentirono di mandare avanti la famiglia dopo la scomparsa del marito. Nella Bari, nata nel 1901 visse da giovinetta alle Gallozzole e poi al Poderino, moglie di Callisto Candiani. Fin da giovane mostrò una certa vivacità e una sciolta parlantina che unita alla sua naturale propensione ad aiutare il prossimo bisognoso, fecero di lei un personaggio rinomato. Toccò poi il suo culmine della fama col famoso episodio della macchina da cucire che gli regalò Mussolini. Di lei si raccontano diversi aneddoti. Era in quei tempi padrone delle Gallozzole il Rocchigiani. “La legna si comprava, ma si faceva anche nei boschi” e i contadini delle Gallozzole si lamentarono col padrone di questo fare senza autorizzazione. Più che altro Nella prendeva le sterpaglie e qualche ramo tagliato. Allora il Rocchigiani l'attese al varco e andò nel bosco a sorprenderla. Ma Nella, che come detto non gli mancava la chiacchiera, si mise parlare con lui e gli spiegò e tanto disse che lo convinse delle sue ragioni e andò a finire che il Rocchigiani l'aiutò a fare la fastella. Nella faceva tanto volontariato per l'assistenza ai malati e vestiva anche i morti, come quando morì la sorella del proposto di S. Leonino e poi lui stesso. Andava dalle famiglie di Massina, Magione, Gallozzole, ecc. Nella sapeva scrivere e durante la guerra molte famiglie della zona di Quercegrossa e S. Leonino si rivolgevano da lei per farsi leggere le lettere dal fronte e riscrivere ai militari. Questo servizio continuò a farlo anche dopo con i fidanzati, “perché usavano allora le dichiarazioni d'amore per lettera”. Capitò anche di scrivere ad una ragazza e vedersela poi in casa a farsi leggere la medesima lettera scritta con l'innamorato il giorno avanti. Sempre in attività, Nella andava dai Testi a raccattare i viticci e aiutava per la vendemmia ricevendo in cambio un paniere d'uva. Callisto gli raccomandava di farsi dare la malvasia che gli serviva per fare il vinsanto. Aveva un caratellino, e fatto il vinsanto lo sigillava con la ceralacca. Quando passò a comunione il figlio aprì una bottiglia del 1931. Inoltre, come ricorda Marisa, Nella ricamava per gli altri e andava dove la chiamavano a giornate intere. “C'ero anch'io”, rammenta la figlia Marisa, “e mi davano per merenda il miele che a me non piaceva”. Un giorno cuciva in casa, cuciva a mano, ma non sapeva come fare per la mancanza di una macchina da cucire, dato che con i soldi facevano pari ed era impensabile acquistarne una. Allora, in quei tempi nel quali Mussolini sembrava potere tutto in Italia, gli venne un'idea: "Gli venne l'idea di scrivere al duce e lo fece anche se sconsigliata da Callisto che gli diceva: "Ma che ti metti a fare". Lei gli scrisse presentandosi come una mamma di tre figli che non aveva la macchina da cucire. Dopo alcuni mesi Nella viene chiamata dal Comune di Monteriggioni e invitata a presentarsi a Fontebecci. Si presentò la mattina e gli dissero con tono tra l'ironico e il canzonatorio: "Ma che hai fatto? Hai scritto al duce? Ci hanno pregato (ordinato) di darti un contributo di cento lire!". E così fecero. Nella, incassato l’importo, andò direttamente a Siena, forse dal Menotti di Via Pellegrini, e acquistò una bella anche se usata macchina da cucire da tavolo, di quelle a manovella che si giravano con la mano destra; era una "Sassonia". Tornata a casa raccontò a tutti l'accaduto che fece epoca e ancor oggi tutti ricordano il fatto di Mussolini che regalò la macchina a “Nella del Poderino”. Passarono poi gli anni di guerra, dove Nella si arrangiò anche con il mercato nero. Ritroviamo i Candiani a Siena con Callisto che nel 1947/48 lavora con la ditta Montella che asfaltava viale Mazzini. Ma terminato il lavoro rimane disoccupato e non c'è verso di trovare un’occupazione. In mancanza di altro pensa di fare l'ambulante, mentre Nella fa un poco di servizio. Si decide, prende una bicicletta, compra filoforti e aghi e comincia a vendere in qua e là; ma il suo commercio rendeva solo qualche coppia d'ova. Allora Nella capì che per vendere la merce ci voleva ben altro che la bonarietà di Callisto detto Carlo, e prese il comando: "O Carlino, non sei adatto per questo lavoro, ci penso io". Si registrò al Comune di Siena e ottenne la licenza di ambulante. Cominciò a rifornirsi prima dal Pianigiani poi dal Falorni e vendeva in Val d'Arbia e nei posti conosciuti di Quercegrossa, facilitata dalle vecchie conoscenze. Aveva una valigetta e si spostava con mezzi pubblici, raggiungendo i poderi a piedi. Arrivava alle case al grido di "Donne, c'è il trincagliere" e portava automatici, bottoni, spilli e tutte quelle minuterie per cucire. Inoltre prendeva ordinazioni per biancheria da ragazzi, corredini per tutte le età, camicette e altri capi di vestiario. Insisteva sempre di farsi pagare in moneta contante ma la necessità era tanta e un giorno al Poggio al Sale dai Francioni disse: "Se non avete soldi, datemi un pane". Era morto nel 1951 Callisto e seguirono anni piuttosto difficili per tirare avanti. "Il lunario bene o male si sbarcava, poi si cominciò a lavorare anche noi" ricorda Marisa. Da allora la famiglia cominciò a godere di un po' di tranquillità. Nella, che con il suo lavoro di ambulante aveva mantenuto la famiglia, smise di girare nel 1962 e riconsegnò la licenza. Aveva pagato i contributi e si ritrovò una pensione.
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