Il livello di conoscenza dei medici e degli eruditi del XIV secolo circa la causa, gli effetti e la terapia della peste era quanto mai avvilente. Nella loro lotta contro la peste nera i dottori del tardo Medioevo si affidavano alle autorità del mondo antico, come Ippocrate, Galeno e alcuni altri autori della tarda antichità che, sulla causa ed evoluzione delle malattie, seguivano la corrente umoralpatologica. I disturbi alla salute significavano dunque una cattiva mescolanza (discrasìa) dei quattro umori, sangue, flemma, bile gialla e bile nera. Se una prevalenza della bile nera (melaina cholé), fredda e secca, predispone alla melancolia (da qui l'origine della parola), un'eccedenza di sangue, umore caldo-umido, sta a indicare il pericolo di putrefazione degli organi interni, che nella convinzione dei medici dell'antichità e del Medioevo rappresentava il vero processo della peste. Si pensava che questa putrefazione entrasse nell'organismo attraverso l'aria o il cibo. La corruzione dell'aria veniva spiegata con le esalazioni (miasmi) la cui origine e composizione non era però certa. Nello stesso modo dell'aria, alcuni cibi facili alla putrefazione, come ad esempio del pesce andato a male, potevano infettare stomaco e intestino. Un clima afoso e umido, così come i temuti venti del sud, venivano considerati particolarmente pericolosi, addirittura la fonte "classica" di pericolo. Allo stesso modo l'aria al di sopra delle acque stagnanti e degli acquitrini era sospettata di favorire la diffusione dei miasmi. Erano temute anche le esalazioni, in particolar modo il respiro di coloro che già avevano contratto il morbo perché, sulla base della teoria umoralpatologica, ma non da ultimo sulla base dell'esperienza stessa, si ritenevano, a ragione, essere estremamente infettive. Per questa ragione i medici sentivano il polso dei pazienti col viso rivolto all'indietro.
Con interventi di flebotomia essi cercavano inoltre di ridurre la quantità del sangue presumibilmente nocivo e con prolungati clisteri di eliminare dall'organismo i gas prodotti dalla putrefazione o i resti marci del cibo. Nei luoghi climaticamente sfavorevoli e anche nelle stanze dei malati si accendevano costantemente fuochi, cosicché il fumo della legna che bruciava purificasse l'aria. Il viso e le mani venivano disinfettati con acqua e aceto, cui si attribuiva un'azione "pesticida". Siccome era noto che nelle stanze l'aria calda (e dunque anche l'aria che si sospettava fosse contaminata) sale verso l'alto, gli stessi malati venivano sistemati su di un soppalco, cosicché non dovessero ammorbare l'aria respirata dai familiari e da coloro che prestavano loro le proprie cure. Soltanto il vento freddo proveniente da nord e mai il vento afoso e umido meridionale doveva arrivare nelle stanze dei malati. Questa era l'opinione dei medici.
Le teorie del XIV secolo sulla peste culminarono nel "Paradigma del soffio pestifero" di Gentile da Foligno, medico umbro che essendosi impegnato troppo nella cura dei malati di peste, fu vittima egli stesso del contagio e morì a Perugia nel giugno del 1348. Il 20 marzo del 1345 esalazioni insalubri, furono, secondo Gentile, risucchiate dal mare e dalla terraferma nell'aria, subirono un riscaldamento e furono poi nuovamente gettate sulla terra come "venti corrotti" (aer corruptus). Se un tale soffio pestifero, così diceva la teoria, viene inspirato dall'uomo, vapori velenosi si raccolgono intorno al cuore e ai polmoni, vi si addensano diventando una "massa velenosa", che infetta questi organi e, attraverso l'aria espirata, può anche contagiare familiari, interlocutori e vicini. Secondo Gentile da Foligno operare una terapia efficace significava "irrobustimento de lo cuore e de li altri organi principali e ne lo stesso tempo lotta contro la putrescenza velenosa impedendone lo sviluppo ne li soggetti malati e lo insorgere ne li soggetti sani". Facile a dirsi, un po' più difficile a farsi, coi mezzi a disposizione del tempo.
Unico dato certo era la contagiosità della peste. In questo almeno, i medici dell'epoca capirono subito le proporzioni del disastro. Anche la teoria del soffio pestifero di Gentile riflette in ultima analisi soltanto tesi già sostenute nella medicina del mondo antico. Che le condizioni climatiche, come ad esempio l'aria afosa e umida, favorissero le malattie, era stato riconosciuto già dagli autori del Corpus Hippocraticum, delle opere cioè attribuite in seguito a Ippocrate e databili in un arco di tempo che va dall'VIII secolo a.C. Secondo Galeno anche le fontane e le acque stagnanti, le carogne di animali e i cadaveri umani che in tempo di guerra non venivano subito sepolti possono corrompere l'aria. Che in occasione di terremoti si liberasse dal ventre della terra aria pestilenziale, era stato ampiamente confermato.
Effettivamente il 25 gennaio del 1348 si ebbe in Friuli un terribile terremoto, le cui scosse furono avvertite e causarono distruzione persino in Germania e in Italia centrale. Molti cronisti videro in questo terremoto dirette connessioni con la peste che alcuni mesi più tardi investì queste regioni. Il consiglio impartito negli studi sulla peste era chiaro: la fuga dalle zone colpite dalla peste era nell'antichità, come ancora nel XIV secolo, la reazione assolutamente più sensata. Le finestre potevano essere aperte soltanto verso il nord e l'aria respirata, come ad esempio nelle maschere di protezione contro la peste utilizzate dai medici, doveva essere purificata con essenze. Lo sforzo fisico e i rapporti sessuali dovevano essere evitati per non forzare l'inspirazione di miasmi pericolosi. Una dieta studiata per far fronte alla peste sembrava assolutamente sensata per tener lontano dall'organismo sostanze in grado di indurre la putrefazione. Sostanze dall'odore penetrante, tenute davanti al naso rappresentavano il rimedio profilattico più sicuro, così come la famosa triaca, quel miscuglio di sostanze inerti, oppiati, carne di serpente, estratti di vipera, polvere di rospo che veniva celebrato come una panacea.
I comportamenti "edonistici" descritti dal Boccaccio nel Decamerone e da altri autori acquistano, sullo sfondo dei contemporanei trattati sulla peste, un senso positivo. "Ridere, scherzare e festeggiare in compagnia" contribuiva a equilibrare i temperamenti. Il ritiro nella villa di campagna, dove ci si dedicava alla musica e al gioco, per effetto del riposo, rafforzava le capacità di resistenza. Ancora nel 1580 il professore di medicina padovano Mercuriale sottolineava che attraverso la musica, l'ottimismo, la gioia e l'allegria si poteva ottenere "che lo spirito e il corpo lottassero con maggior vigore contro la malattia della peste". Siegmund Albich (1347-1427), medico personale di re Venceslao di Boemia e professore all'Università di Praga, nel suo "Regime contro la peste" esorta "a non parlare e a non pensare alla peste perché anche solo la paura dell'epidemia, l'immaginarla e il parlarne sono senza dubbio causa nell'uomo dell'insorgere della malattia stessa".
Va ulteriormente sottolineato: i medici del tardo Medioevo non conoscevano né la causa, né il modo in cui la peste si diffondeva. Nel XIV secolo non esisteva né la possibilità di identificare l'agente patogeno della peste, né la conoscenza teorica per discostarsi dalla medicina classica del tempo. Ma già nel 1348, per arginare l'epidemia, furono presi provvedimenti che suscitano la nostra ammirazione. Le autorità veneziane stabilirono per esempio regole perché nel più breve tempo possibile si provvedesse a sepolture di massa, perché le carogne di animali fossero allontanate e i malati venissero isolati. Sempre a Venezia si introdussero una specie di obbligo di denuncia (anche se una quarantena vera e propria è documentata solo nel 1374 a Reggio Emilia o nel 1377 a Ragusa). Nel 1348 si osservò anche che i conciatori contraevano la malattia più raramente dei fornai e ciò era da attribuirsi effettivamente al potere disinfettante delle sostanze che venivano utilizzate nella concia. Tommaso del Garbo, famoso medico bolognese, consigliava di tenere sempre aperte le finestre delle stanze dei malati perché l'aria fresca nuocerebbe alla peste, opinione questa che in un certo senso si trovava in contrasto con la dottrina. Sacerdoti e notai non dovevano mai avvicinarsi ai moribondi nell'aria soffocante della camera in cui si trovava il malato. Ma questi approcci di pensiero empirico, contrapposto all'autorità inattaccabile degli autori antichi e arabi, rappresentavano al tempo della peste nera ancora l'eccezione.
Tommaso del Garbo fu autore di un Consiglio contro la peste, un nuovo genere letterario che nacque in Europa nel 1348 e presentava strette affinità con i Regimi contro la peste. Nel caso dei Regimi si trattava di disposizioni dietetiche rivolte sia ai medici sia ai profani. Per proteggersi dal contagio, allo stesso modo di Galeno, consigliava pane intinto nel vino e le famose panacee quali la triaca e il mitridato, oltre ai chiodi di garofano il cui profumo, secondo la sua esperienza, possedeva un'azione disinfettante. Appare pragmatico il seguente consiglio impartito ai sacerdoti che dovevano raccogliere la confessione dei moribondi: tutti dovevano uscire dalla stanza, cosicché il malato non fosse costretto a bisbigliare ma potesse al contrario parlare ad alta voce e non fosse dunque necessario per il confessore avvicinarsi a lui. Una volta lasciata la stanza di un malato, il visitatore doveva lavarsi le mani e la bocca con aceto e vino. Erano considerati altresì efficaci cibi dolci, conservati in acqua fresca, mescolati a sostanze stimolanti come melissa e zucchero di "ottima qualità". La dose minima per chi seguiva una profilassi a base di triaca era rappresentata dall'assunzione giornaliera di una quantità di questa sostanza pari alla dimensione di una nocciola.
Nel Consiglio contro la peste di Giovanni Dondi, medico personale del vescovo di Milano, si trovano suggerimenti dietetici e terapeutici. Egli raccomanda il salasso persino sulla testa del malato in modo da ridurre il sangue infetto dell'organismo. L'abluzione del viso e delle mani con acqua di rose e aceto era considerata ovvia. Ancora nel Settecento i medici usavano questo metodo, subito dopo aver visitato i pazienti. Foschie e nebbie dovevano essere evitate così come il vento del sud. Dondi raccomandava di esporsi al mattino presto al fumo di un fuoco beneodorante, ottenuto per esempio bruciando legna di quercia, frassino, olivo o mirto. L'aggiunta di balsamo, incenso o legno di sandalo alla fiamma ne rafforzava l'azione disinfettante. Tutti i cibi dovevano essere aromatizzati con sostanze dai profumi molto forti. La carne di montone castrato, vitello, capra, pernice, fagiano e pollo era ritenuta sicura, mentre il pesce pericoloso. Vino e birra venivano espressamente consigliati, frutta dolce, come ad esempio le pere, facilmente deperibili, doveva invece essere evitata.
Le donne e ancor più "ogni rapporto disonorevole" andavano evitati e in genere tutto ciò che provocava il temuto "surriscaldamento" dell'organismo. Durante il giorno, inoltre, non si doveva dormire, non ci si doveva mai esporre al sole, né stabilirsi in località calde e neppure in quelle umide e bisognava tenersi lontano dai bagni. Anche per il Dondi, che alla fin fine ottenne più successi come costruttore di orologi che come medico della peste (!!!), la fuga tempestiva rappresentava ancora il miglior rimedio profilattico.
Un anonimo padovano (gli scritti sulla peste comparvero dapprima quasi esclusivamente in Italia!), nel suo Consilium databile intorno al 1360, sottolineava che le misure profilattiche dovevano essere adeguate sia alla stagione sia alla posizione geografica. All'autore, esperto di astrologia, sembrava importante che i medicamenti venissero assunti nel momento giusto e che le necessarie misure fossero adottate per tempo: se la minaccia della peste arrivava in primavera era consigliabile fuggire per sottrarsi alla calura estiva ricca di miasmi. Chi non aveva la possibilità di fuga doveva affumicare con regolarità la casa e la zona circostante ad essa e combattere i miasmi della propria abitazione con rose, viole e "tutto ciò che abbia un buon profumo". Poiché il soffio pestifero (come in seguito ad un terremoto) veniva da fenditure della terra o da laghetti con acqua stagnante, i luoghi situati al piano terra dovevano essere evitati. Che dopo i terremoti si verificassero epidemie pestilenziali era anche dovuto alla rottura più totale della separazione tra uomini e ratti, anche se appare evidente come i confini di questa separazione fossero allora molto labili. Se invece il soffio pestifero veniva dagli strati superiori dell'aria bisognava comportarsi nel modo opposto. Il movimento fisico era sostanzialmente considerato dannoso, perché aumentava il volume d'aria (miasmatica) inalata. Per stimolare la circolazione dovevano essere praticati solo massaggi leggeri. "Per quanto riguarda i momenti di sconforto, siate sereni e allegri", dice un'altra massima dell'anonimo. Importante è anche una ordinata digestione ed escrezione, perché gli escreti che si accumulano nell'organismo tendono alla corruzione putrida. Anche la comprensione di quest'opera è possibile soltanto sulla base di una conoscenza della teoria medievale sulla peste.
Il già citato Consilium di Gentile da Foligno, in assoluto il più vecchio che ci sia pervenuto, era indirizzato ai medici di Genova. Audace appare il consiglio di lasciar levare alte le fiamme nei locali dell'abitazione. Ogni cibo doveva essere imbevuto nel vino. Come sostanze odorose dovevano essere impiegate la canfora nel caso di pasti caldi e la salaginella nel caso di pasti freddi. I cibi acidi erano considerati l'alimento ottimale ("Non vi è alcun dubbio che tutto ciò che è stato reso acido contrasta la putrefazione"). A partire da Gentile, la triaca, così come il salasso e l'isolamento dei malati rappresentarono le basi della terapia contro la peste.
Naturalmente si decantavano anche i metodi non comuni. Dionisio Colle da Belluno consigliava ai suoi concittadini come profilassi e terapia un rimedio naturale contenente fiori di pesco, centaurea minore e licopodio uniti a zucchero e nettare. Il medico di campagna lodava anche l'azione del succo di sambuco e delle piante di euforbia, diluiti in latte di capra. Oltre a ciò sosteneva l'azione antimiasmatica delle sostanze aromatiche. Era dunque consigliabile tenere in bocca bacche di alloro e di ginepro o ancor meglio cortecce di larici, pini e abeti. Del resto nella sua cronaca sulla peste di Firenze anche il Boccaccio confermava che l'epidemia rappresentò per quei medici che non si servivano di metodi comuni e per i ciarlatani un momento particolarmente favorevole.
I Consigli e i Regimi contro la peste rappresentarono i manuali della "prima ora" e dopo il 1348 furono diligentemente copiati in tutta Europa. I medici si preoccuparono disperatamente di fornire la prova delle loro conoscenze professionali, da molti messe in discussione. Esaminando in modo critico le misure profilattiche e terapeutiche suggerite, soltanto il consiglio di fuggire era sensato. Certamente le pulci (allo stesso modo di molti altri insetti) rifuggivano effettivamente da determinate sostanze odorose così come dal calore del fuoco, ma le relative raccomandazioni (senza dubbio basate su esperienze dell'epidemia molto generali e vecchie di secoli) non avrebbero mai potuto fermare un'epidemia di peste scatenatasi in spazi circoscritti e men che meno avrebbero potuto arrestare la peste polmonare. Più efficace era invece un'altra misura: già prima della peste nera numerose epidemie, meno pericolose rispetto alla peste, avevano suggerito l'opportunità di isolare coloro che erano affetti da malattie sconosciute. Che questa cautela fosse sensata anche nel caso della peste lo si notò già dopo pochi giorni. In un'epoca in cui non si conosceva ancora nulla di microscopi e di antibiotici il sapere non poteva spingersi oltre. Non sarebbe tuttavia corretto ignorare che la patologia umorale, pur in tutte le sue deficienze pratiche, rappresentava in sé un sistema di pensiero logico che sembrava spiegare facilmente cause e sintomi di molte malattie.
- Introduzione -
- Origine e diffusione -
- Trasmissione dell'infezione e quadro clinico -
- Conclusioni -
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